Il rosso e il blu
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Il rosso e il blu

Cuori ed errori nella scuola italiana

  1. 168 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Il rosso e il blu

Cuori ed errori nella scuola italiana

Informazioni su questo libro

Marco Lodoli non è soltanto uno scrittore, ma anche un insegnante, un professore nelle scuole superiori. Ogni giorno, in presa diretta si incontra e scontra con la scuola, con gli studenti e con il difficile e appassionante mestiere di insegnante. In Il rosso e il blu abbandona la finzione narrativa e, attraverso brevi ma folgoranti osservazioni, affronta i molti «cuori ed errori» che sono disseminati nella scuola italiana, e di cui è testimone quotidiano, esprimendo cosí il suo punto di vista sui tanti temi che entrano nel dibattito pubblico sull'educazione scolastica e i giovani di oggi: dal momento topico dell'esame di maturità alla piaga emergente del bullismo; dalla straniante e defatigante esperienza delle gite di classe al problema della droga. Dall'angoscia degli studenti per il loro futuro, alla sintonia magica che talvolta si crea con il loro professore. Si delinea cosí un percorso mai scontato, dove la chiarezza espressiva è contemperata dalla profondità di giudizio. Gli errori della scuola sono solo un aspetto della questione. Non avrebbero senso e importanza, se dietro di essi non ci fosse la passione, insomma i cuori. «La scuola elementare Ugo Bartolomei di via Asmara a Roma, tra il 1962 e il 1967, una vita fa: e infatti quando provo a resuscitare nella memoria quel tempo trovo pochi frammenti che fatico a collegare. Ma la maestra Greco, prima e seconda, e il maestro Castelli, dalla terza alla quinta, me li ricordo bene, sono le prime persone che mi hanno insegnato a non piangere (non so perché, ma avevo la lacrima facilissima, tutto mi turbava), a tenere in ordine le mie cose, ad ascoltare, a fare fino in fondo il mio dovere. Era un mondo silenzioso, completamente diverso da quello dei bambini di oggi, smaniosi e strepitanti. La maestra Greco dettava e io scrivevo, cercando di non commettere il minimo errore perché non dovevo deluderla. Il maestro Castelli spiegava a lungo la matematica, e io stavo attento, incolonnavo, risolvevo tutti i problemi. Mi chiamavano Lodoli, erano severi, esigenti, malinconici: sapevano ogni cosa, tutti i fiumi d'Italia, tutte le capitali, tutta la storia romana, e io pensavo che fossero immortali».

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Il rosso e il blu

Tutti i nomi delle persone di cui si racconta la storia sono stati inventati.
D’improvviso una parola sbuca da un tempo cosí remoto e improbabile che sembra non essere mai veramente esistito, che sia solo il sogno sfocato di un mondo impossibile da descrivere ai nostri figlioli. Ma certe parole hanno un potere magico, sono uno schiocco attorno a cui tutto si ricrea, e in un attimo – e per un breve minuto, perché la potenza dell’evocazione si consuma in fretta – retrocediamo vertiginosamente in un’altra epoca, in un’altra vita, risucchiati da quel suono.
Balmamion, Maciste, Barison, Ciocorí e, abracadabra!, si riapre un sipario chiuso da millenni, e di colpo abbiamo i pantaloni corti, croste sulle ginocchia, il moccio al naso, piccole paure e il batticuore perenne dell’infanzia. Quaderni Pigna! e da queste poche sillabe cadono i pinoli dei ricordi, tutti da aprire sul marciapiede davanti alla scuola elementare Ugo Bartolomei, millenovecentosessantaquattro, e un po’ prima e un po’ dopo.
Non c’erano gli zaini istoriati dai Gormiti o dalle Winxs, i bambini non indossavano le magliette dei calciatori con tanto di sponsor sul petto, non avevano il telefonino nella tasca del grembiule, non portavano i capelli tagliati come Beckham o Britney Spears, nella memoria ora tutto riappare in bianco e nero, come il programma del maestro Manzi o quei paesaggi immobili dell’intervallo.
Nella cartella di cuoio avevamo il libro di lettura, il sussidiario e due meravigliosi quaderni Pigna, uno a righe e uno a quadretti. Li avevamo scelti con cura nella cartoleria vicino casa, dal signor Mario. Non si poteva sbagliare, non c’era una seconda possibilità: quei quaderni dovevano durare per un anno intero, o almeno fino alla loro ultima pagina. Ricordo ancora le immagini sulle copertine, un edelweiss per il quaderno a righe e un ghiro per quello a quadretti. Ma poi subito la mamma li aveva ricoperti con una carta gigliata, la stessa che avvolgeva i libri. Il giorno prima dell’inizio della scuola era avvenuto il rito della protezione: il rotolo di carta da tagliare con le forbici senza sprecare un centimetro, le pieghe precise, il nastro adesivo per fissare, e poi l’etichetta da incollare esattamente in alto al centro, e le parole scritte con la penna stilografica: quaderno di italiano, quaderno di matematica. Ora che avevamo i quaderni Pigna, puliti e protetti, eravamo pronti per imparare ogni cosa. Si trattava solo di passare lunghe ore seduti correttamente nel banco di legno scuro, con il ripiano inclinato e la sedia fissa, e ascoltare in una noia sublime le lezioni della maestra. «Dettato! Prendete il quaderno», e trenta mani calavano nelle trenta cartelle, pescavano il quaderno, aprivano la pagina bianca, iniziavano a scrivere le parole che la maestra scandiva nel silenzio assoluto.
Il male, a quel tempo, aveva la forma curva di un’orecchia in un angolo del quaderno. Si formava all’improvviso, a tradimento, forse per colpa di un gesto sbadato, di un residuo inconscio di disobbedienza. Il quaderno perdeva in un momento la sua innocente compattezza, qualcosa dentro si sollevava, incuria o ribellione, e il senso di colpa che ne derivava era pari a quello che Adamo ed Eva provarono dopo il morso alla mela.
«Il tuo quaderno ha le orecchie» sibilava la maestra, e noi avremmo voluto avere il ferro da stiro con cui la mamma spianava ogni grinza delle camicie paterne, avremmo tanto voluto che tutto tornasse perfetto com’era prima, ma il danno ormai era lí, irreversibile.
Qualche bambino, a dire il vero, se ne fregava: il suo quaderno – Pigna, sempre e solo Pigna – pareva una fisarmonica, e lui lo apriva e lo chiudeva ridendo, indifferente alle occhiatacce e ai rimproveri della maestra. Come faceva? Da dove prendeva tanta forza? Chi lo rendeva cosí invulnerabile sotto il cielo celeste e durissimo della scuola? Perché le sue frasi non seguivano disciplinatamente le righe del quaderno, quelle larghe della prima e seconda elementare, poi quelle strette della terza, poi quelle ancora diverse della quarta e della quinta?
Uscire dalle righe, sbavare inchiostro, macchiare la neve candida del foglio era un altro peccato mortale, che poteva farci sentire tremendamente colpevoli. Noi bravi bambini tenevamo al nostro quaderno come fosse il passaporto che ci lasciava entrare ogni giorno nel mondo degli esseri salvi.
Ricordo come fosse adesso il dramma che derivò dalla prima acca maiuscola, quella lettera assurda che forse oggi piú nessuno saprebbe ripetere, quel nodo marinaro difficilissimo da intrecciare, quell’arabesco strano. Il quaderno Pigna, quello con il bianco edelweiss sepolto sotto i gigli fiorentini, è aperto davanti a me. Ho la matita in mano, perché i primi tentativi si fanno con la matita, la penna verrà dopo, nella raggiunta sicurezza del gesto. Provo a scrivere la mia acca maiuscola. Sbaglio, cancello con la gomma bianca. Provo di nuovo, cancello. Provo provo provo, cancello cancello cancello. Il foglio in quel punto si assottiglia, si assottiglia sempre di piú e poi, orrore!, si apre un buco vertiginoso. Cerco di coprirlo con la mano, ma so che non ho alcuna speranza di farla franca, lo so benissimo. «Hai bucato il quaderno» sentenzia infatti la maestra, e non serve aggiungere altro. Piango, le lacrime piovono sulla pagina bianca e forata del mio quaderno Pigna, mi sento un disgraziato, un reietto, in breve un bambino che ha bucato il suo quaderno. Mia madre, per salvare il salvabile, ritagliò un quadratino di carta e lo incollò sopra al buco. «Ora non si vede piú niente», disse, ma io vedevo tutto e soffrivo.
E la mattina in cui Fanelli, il mio compagno di banco (ci si chiamava solo per cognome, i nomi erano impronunciabili, confidenze che nessuno si permetteva), mi disse lí davanti alla scuola: «Ho perduto il quaderno», sentii un brivido gelato traversarmi la schiena. «Il tuo quaderno Pigna, quello con il pavone in copertina, il tuo quaderno…» e non potevo balbettare altro. Rubini, che aveva un anno piú di noi, i calzettoni sempre calati e il fiocco del grembiule perennemente sciolto, Rubini che aveva un padre «strano» – cosí mormorava mia madre – «uno che beve, non lavora, un mezzo anarchico», si fece una gran risata, un atto di pura blasfemia. «Ma che te ne importa del quaderno, Fanelli, te ne compri un altro. Smarrire il quaderno mica è la fine del mondo!» Aveva ragione, quel delinquente ribelle di Rubini, ma negli anni Sessanta nessun bravo bambino pensava cose tanto audaci e brutte. Perdere il quaderno significava semplicemente perdersi. Costava trenta lire, un quaderno Pigna, ma chi poteva avere il coraggio di chiedere alla mamma altre trenta lire per un quaderno nuovo? E tutto quello che c’era dentro al quaderno, quegli infiniti dettati sulla Basilicata, su Muzio Scevola, su Pier Capponi, quegli esercizi di analisi logica e grammaticale, quei bei pensierini sulla vendemmia e la primavera, come si poteva sopravvivere senza di loro?
Un’altra epoca, preistoria, e le lunghe file di lettere ripetute mille volte sul quaderno Pigna sembrano iscrizioni rupestri nella grotta gelata della memoria.
Oggi la musica è tutta un’altra, molto piú spensierata e orecchiabile, musica da villaggio vacanze.
Poco tempo fa ho detto in classe: «Scrivete sul quaderno questi titoli di romanzi, per chi quest’estate avesse voglia di leggere qualcosa di interessante», e quasi tutti i miei alunni hanno preso il telefonino.
«Dico, scrivete questi titoli», e una simpatica ragazza di Tor Bella Monaca, ha replicato seria seria: «Li sto scrivendo sul cellulare, cosí stanno al sicuro».
Il quaderno ha perso a poco a poco la sua sacra centralità. Ora, nel migliore dei casi, gli studenti hanno quei megaquadernoni dove i fogli sono trattenuti a stento da due ganci e dove tutto si mescola, si sovrappone, si sposta senza un ordine preciso. Un esercizio di algebra è seguito da un testo dei Tokyo Hotel, poi dagli appunti sull’Infinito di Leopardi, poi da una pagina di ipotesi di graffiti, poi da una serie di dediche amorose.
Oggi nulla è decisivo, nulla resta fermo come un paracarro, nemmeno il quaderno Pigna – come dire l’Arca della Santa Alleanza tra il bambino e la scuola – oggi tutto si muove e si consuma rapidamente, tutto evolve in fretta.
Vista da qui, la nostra infanzia scolastica sembra una storia di naftalina, miseria, timore, malinconia, e forse era proprio cosí. In quella immobilità che si girava identica da secoli, ogni gesto diverso era un evento: ricordo (che strazio ricordare, che umida fatica) quando con un filo di voce chiesi a Biasotti se poteva prestarmi un foglio perché – prima e unica volta nella mia vita alle elementari – avevo dimenticato a casa il quaderno. Lui mi guardò prima con fastidio, poi con altezzosa superiorità, e infine con una goccia di pena negli occhi. Quindi prese il suo quaderno Pigna (garibaldini in copertina), lo aprí e con un gesto secco staccò il doppio foglio centrale e me lo consegnò. Che grande gesto di amicizia! Quale immensa generosità! Mutilare il proprio quaderno, quasi il proprio corpo, per un compagno!
Oggi, giro per le classi vuote della scuola dove insegno, nell’attesa di uno scrutinio. Sotto i banchi giacciono abbandonati tanti quadernoni. I ragazzi hanno finito la scuola e li hanno lasciati lí, senza nemmeno farci troppo caso. Sono quadernoni colorati, sporcati in lungo e in largo, allegri e sciatti, di tutti e di nessuno. Non sono certo quaderni Pigna, non sono beni preziosi, non sono quelle cose vive e un po’ tristi da ricordare per tutta la vita.
Nessuna filosofia catalogherebbe mai la sincerità tra i difetti degli esseri umani. Le persone sincere sono anzi le migliori, le piú oneste, ci ispirano un’istintiva fiducia. Sull’altra trincea ci sono i falsi, gli ipocriti, gente che fa della menzogna un’arma sottile per avvantaggiarsi meschinamente. Tutto chiaro, dunque? Il bene sta con i sinceri e il male con i falsi? Se dividiamo il campo tra questi due avversari, non c’è alcun dubbio.
Però, almeno qui da noi, nell’Italia di questi anni, mi pare che la sincerità abbia un nuovo nemico, la riflessione, e che sia diventata la cara sorella della faciloneria e della supponenza. Tanti giovani, ma non solo loro, sono stati educati da cento programmi televisivi a dire la prima cosa che passa loro per la testa, senza fermarsi un minimo a meditare. «A professò, io sò sincero, a me sta poesia de Leopardi me fa veramente schifo», oppure, cambiando settore: «Della guerra e della pace me ne frega pochissimo, glielo dico col cuore in mano».
La sincerità è diventata una scorciatoia per evitare ogni sforzo del pensiero. Per questo agli esami orali i ragazzi faticano a organizzare un discorso fluido. Sarebbe il momento di una comunicazione ponderata, invece le parole escono a stento, i raccordi si sfilacciano, spesso gli argomenti s’afflosciano a mezz’aria. Bisognerebbe parlare di altro da sé e non si è piú abituati. D’altronde in televisione vediamo di continuo gente che senza esitare racconta a mezza Italia i suoi problemi sentimentali, gente che si rinfaccia qualsiasi cosa, che dichiara senza arrossire: «Ti voglio bene» o «Mi fai schifo».
Una volta la sincerità era il risultato finale di un percorso difficile, anche sofferto. Chi esprimeva la sua verità aveva prima riflettuto a lungo, scelto con cura le parole per sputare il rospo. Sapeva di rischiare e rischiava. Anche una dichiarazione d’amore derivava da nottate trascorse nella trepidazione. Oggi non è piú niente, solo un gargarismo per sciacquarsi la gola, un narcisismo sciocco.
Protetti e autorizzati dal potere di questa parolina, i nuovi italiani hanno cominciato a parlare a vanvera, a esporre allegramente le proprie budella, cambiando idea ogni momento perché non hanno piú nessuna idea, solo tanta sincerità. Siamo diventati come quei bambini che per un certo periodo parlano con infinita gioia della loro cacca. «Professò, devo andare al bagno», e io rispondo: «Mancano due minuti alla campanella, per favore aspetta la fine della spiegazione», e inevitabile arriva il commento: «Vabbè allora la faccio qui nell’angolo, mi dispiace, ma io non reggo, glielo dico sinceramente». Ed è lo stesso che sinceramente afferma di odiare la poesia, «che non serve a niente e non fa guadagnare una lira». Tanti cardinali del video hanno fatto di questa rude e volgare schiettezza un nuovo valore.
Ovviamente non sto qui a rimpiangere una società castigata, timorosa di prendere la parola: è giusto che tutti dicano senza paura ciò che pensano. Non desidero affatto che gli studenti siano degli «acustici», cioè persone che fino a quando non imparano debbono solo ascoltare, come accadeva nelle scuole stoiche della Grecia antica. Però mi pare che aprire bocca e darle fiato non sia la cosa migliore. Bisogna sempre essere sinceri, ma prima bisogna educarsi a pensare, dubitando almeno un poco che ogni nostro prurito sia una verità assoluta da grattare in pubblico.
«Parliamo tanto di me», scriveva Zavattini: d’accordo, ma impariamo un poco a parlare anche del resto, almeno agli esami.
A scuola spesso si raccolgono a piene mani amarezze e delusioni. Ci si prepara una gran bella lezione, almeno cosí ci sembra, i collegamenti sono precisi, le citazioni rapide, i richiami al nostro tempo forse un po’ forzati ma necessari: siamo convinti d’aver fatto centro. E invece nessuno ascolta.
La sincerità è disarmante: «A professò, che je dovemo da dì, a noi ste cose nun c’enteressano».
Ma io non demordo, non mi avvilisco e riparto all’attacco, studio l’avversario e colpisco nel punto debole. E questa volta finalmente faccio centro: leggendo poesie di autori italiani contemporanei, dettandole verso dopo verso, costruendo su ogni quaderno una piccola antologia lirica.
Fa’, unico dio, unica gioia del pomeriggio
fa’ che tutto sia immenso
fa’ che non piova
mi ripete Callisti con una certa soddisfazione. «Milo De Angelis, – aggiunge. – Perfetto».
Il ricordo si moltiplica nello spirito
come gli anelli nel tronco degli alberi,
recita Messarini. «Valerio Magrelli», precisa.
Io non voglio essere quieta
io non voglio essere polvere
sospira Recchi. «Vivian Lamarque, semplice ma profonda», commenta.
D’altronde i loro diarietti, gonfi come kingburger, traboccano di frasi amorose o desolate, di testi di canzoni romantiche o di rap arrabbiati, di aforismi rubati dai muri della città. E allora, d’improvviso, ho capito che la poesia poteva arrivare dove la narrativa, la saggistica, il giornale non arrivano; che questa è una generazione talmente smarrita da aver perso lungo il cammino le strutture logiche e compositive del ragionamento, ma non i brividi, i palpiti, le intuizioni volanti, quel fermento dell’anima. E cosí il sabato porto i miei poeti e detto tre o quattro meraviglie. I ragazzi le imparano al volo, le fanno loro.
Tra le macerie nasce sempre un fiore che colora e profuma l’aria.
Ci sono situazioni che contengono aspetti simbolici, che per altro non siamo quasi mai in grado di decifrare. D’improvviso il velo di Maya si squarcia, o forse scosta appena un lembo, e noi possiamo guardare oltre in una vertigine che fa paura. Subito il velo si richiude e quell’attimo viene inghiottito dal monotono fluire del tempo; neanche sappiamo piú ripetere cosa abbiamo visto, cosa abbiamo intuito.
Insomma, un giorno dico alla mia alunna Giada che presto l’avrei interrogata su alcuni argomenti del primo quadrimestre, perché l’insufficienza va proprio rimediata, lo prevede la legge. Tra l’altro per Giada ci sono gli esami di maturità e deve stare a posto con la complessa faccenda dei debiti, deve per forza recuperare, altrimenti rischia di non essere promossa.
Giada mi ascolta pazientemente, e intanto scuote la testa. L’anno prima è stata respinta, ha già piú di vent’anni, dovrebbe fare un piccolo sforzo per raccattare qualche sufficienza, dare l’esame e finalmente uscire dalla scuola. Io vorrei aiutarla.
Giada è ombrosa e sfiduciata, ha tanti problemi familiari, ma comunque in me ha fiducia; spesso mi racconta le sue disavventure amorose, storie cupe di periferia estrema, e io l’ascolto, provo a darle dei consigli.
«Adesso però devi studiare e superare questa piccola interrogazione sul Naturalismo e il Verismo, sul bisogno che avevano gli scrittori della metà dell’Ottocento di avvicinarsi alla realtà, di raccontarla oggettivamente».
Senza guardarmi Giada mi risponde che non può essere interrogata per i prossimi dieci giorni.
«Ma perché? Cosí rischi, lo sai. Due domande e via, forza Giada!»
Alza gli occhi e mi dice: «Mi dispiace, ma non potrò proprio parlare, domani mi faccio il piercing sulla lingua».
I ragazzi italiani si muovono lentamente. È strano, alla loro età io ero sempre di corsa, volevo sempre scappare da qualche parte, altrove, comunque lontano da dove mi trovavo. E invece loro camminano piano piano, anche quando la campanella suona l’ultima ora e si tratterebbe solo di scaraventarsi in fretta fuori dalla scuola, anche all’uscita dagli esami. Sono come pitoni impegnati a digerire un topo: qualcosa li ingombra, li appesantisce, li rallenta. Da bambini scattano come trottole, poi acquisiscono un passo da alpini. Piú che andare, stanno. Piú che fuggire, rimangono. Sono totalmente impegnati a digerire il loro topo, cioè il tempo presente. E il presente è grasso, multiforme, supernutriente.
Siamo abituati a credere che i giovani provino sempre una certa avversione per il proprio tempo, che lo contraddicano, cercando nel passato o nel futuro altre soluzioni, spesso puramente immaginarie, figlie del dispetto e della fantasia. Il presente è la stagione dei padri, della noia, dell’ingiustizia, della rassegnazione. Non qui e non ora, non cosí, questo c’era scritto sulla bandiera della giovinezza.
Ma adesso il presente regna incontrastato, si è sbarazzato del prima e del dopo e detta la sua legge. Sono cosí pieni gli scaffali del presente, c’è talmente tanta merce da smaltire, merce che si rinnova giorno dopo giorno, che non rimane alcuna possibilità di guardare indietro o avanti.
Questo è un tempo saturo, senza finestre né vie di scampo. Chissà, in questo dimorare totalmente nell’oggi forse c’è anche una saggezza, in fondo tanti illuminati consigliano di vivere intensamente l’attimo che scompare, di raccogliere la goccia mentre cade. Forse noi che siamo stati ragazzi in un’altra epoca ci siamo consumati inseguendo nostalgie e chimere, idealizzando attimi lontani, art...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Premessa
  5. Il rosso e il blu