Mio amato Frank
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Mio amato Frank

  1. 456 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Mio amato Frank

Informazioni su questo libro

All'inizio lui è solo un promettente ma sconosciuto architetto a cui una giovane coppia affida il progetto della propria casa. Un incarico che pare come tanti altri. Nessuno poteva immaginare che il progetto di quella casa sarebbe stata la scintilla di un adulterio e di un amore scandaloso. Perché entrambi avevano una famiglia e dei figli, e il divorzio, nella società americana dell'epoca, era impensabile. E nessuno poteva immaginare che, un giorno, quella casa sarebbe finita nei manuali di architettura. Sette anni di ricerche storiche, diari, lettere e documenti per un romanzo che è al tempo stesso l'avvincente ritratto di un'anima femminile e del suo tormento, e un affresco vivissimo di un'intera epoca storica. Il romanzo che per mesi è stato in cima alla classifica dei libri piú venduti sul «New York Times».«Un appassionato romanzo che racconta con passo sicuro la lunga storia d'amore dell'egocentrico e geniale Frank Lloyd Wright con Mama Cheney, la donna per la quale manderà a monte tutte le convenzioni sociali. Una lettura emozionante e provocatoria».

Scott Turow

«Mama Cheney è una donna che le rappresenta tutte: il simbolo della libertà a cui le donne aspirano e delle conseguenze che esse devono affrontare nel perseguirla».

The New York Times Book Review

Domande frequenti

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2010
Print ISBN
9788806186371
eBook ISBN
9788858402313
Parte terza
XXXIII.
Il faccino serio serio di Martha era rivolto nella direzione indicata dalla mamma. – Lo vedi? – bisbigliò Mamah. – È quello giallo.
La bambina guardava verso il folto del bosco.
Erano rannicchiate in una piccola radura, inginocchiate sugli aghi di pino. Mamah porse il binocolo alla bambina. – Guarda lassù, su quel ramo.
Martha scostò il binocolo con una mano e ricominciò a scrutare tra gli alberi senza vedere nulla. – È papà che conosce gli uccelli, – disse.
Mamah irrigidì i muscoli. Sei parole, calcolò. Andiamo meglio.
A Berlino, l’idea di un soggiorno estivo in un parco canadese le era sembrata perfetta. I bambini sarebbero stati tutti suoi: niente Louise, niente Lizzie. Edwin li avrebbe accompagnati, fermandosi fino al giorno successivo per concordare i termini del divorzio. Sarebbe stata dura, ma almeno non avrebbero dovuto proteggersi da sguardi indiscreti. Ci sarebbe stato tempo.
Negli ultimi due anni li aveva inondati di lettere: qualche tempo prima gli aveva persino spedito un suo ritratto. Eppure sembrava che non si ricordassero di lei.
Nella vita di un bambino due anni sono una distanza siderale, si disse. Rivide se stessa a otto anni, pigramente immersa nella vasca da bagno a contemplare la vastità dell’estate imminente. Ed erano proprio così, le estati: millenni di lucciole e calci alle lattine, notti e giorni tenuti insieme da un interminabile canto di cicale.
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Martha aveva tre anni quando sua madre era partita, e John quasi sette. Ovunque si trovasse, in Italia o a Berlino, Mamah si era spesso soffermata a guardare altri bambini della stessa età: ne aveva osservato i movimenti, ascoltato le parole. Ma ora che se li trovava di fronte in carne e ossa, Martha e John erano due estranei.
John la ricordava vagamente. Quanto a lui, non era molto diverso dal ragazzetto che qualche anno prima si gettava tra le sue braccia appena la vedeva. Ancora una specie di Peter Pan, ma più alto, e armato di un bastone. Dal primo momento in cui si erano rivisti John aveva sempre avuto un ramo d’albero in mano. Mamah gli si era avvicinata per abbracciarlo e lui aveva continuato a premere il bastone contro il terreno. Era rimasto lì a sorridere contento, si era lasciato abbracciare.
– Hai paura dei ragni? – erano state le sue prime parole. Era entrato nello chalet per prendere un barattolo di vetro che conteneva un coso striato di marrone. – L’ho trovato in camera, – le aveva spiegato con evidente soddisfazione.
Invece Martha era rimasta vicina a Edwin, a contatto con lui attraverso il lembo di stoffa dei pantaloni che stringeva tra pollice e indice. Aveva un grosso fiocco sulla sommità della testa, e un viso del tutto nuovo. Delle sue guance paffutelle era rimasto ben poco. Martha stava cambiando: da quel momento in poi la sua fisionomia avrebbe assunto in maniera sempre più evidente i tratti tipici dei Borthwick. Zigomi alti, mascella squadrata, sopracciglia scure e folte, proprio come sua madre. In quel momento la stava scrutando, impietrita sulla soglia dello chalet, le sopracciglia come due nuvole nere poco sopra l’orizzonte. Quando Mamah le si era avvicinata si era nascosta dietro le gambe del padre, rifiutandosi di uscire. Edwin era rimasto immobile, rigido come un baccalà, mentre Mamah arretrava di qualche passo.
Quella sera, con i bambini finalmente a letto, Mamah e Edwin erano rimasti a confabulare sulle sedie a dondolo del portico.
– I bambini restano con me, – aveva esordito lui.
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– Io voglio vederli.
– Potrai vederli con ragionevole frequenza.
– Vale a dire? – Mamah lo aveva scrutato con sospetto.
– Non ho niente in contrario che vengano a trovarti per un paio di settimane in estate.
– Perché non un paio di mesi?
– Quattro settimane, forse, – aveva rilanciato lui. – Dovremo vedere bene il da farsi. Non so cosa decideranno i bambini: sono spaventati tutti e due.
Nei boschi intorno a loro echeggiava il frinire stridulo delle cavallette.
– Non era mia intenzione causare tanta sofferenza, – aveva detto lei.
Un pallido eufemismo, tutto sommato. Eppure era riuscito a smuovere Edwin, che aveva finalmente perso un po’ del suo aplomb.
– Martha non poteva ancora capire. Chi ha sofferto di più è stato John. Ci sono stati momenti in cui…
Mamah prese fiato. – Va’ avanti, – disse.
– A Boulder, dopo che sei partita, non riuscivamo più a trovarlo. Mattie stava già male. C’era gente che entrava e usciva di continuo – medici, vicini di casa – e nessuno si è accorto della sua assenza. Io avrei dovuto venirli a prendere nel fine settimana. La bambinaia era fuori di sé quando ha capito che John era sparito.
Mamah si sentiva come se l’avessero colpita in pieno petto.
– Alla fine si è scoperto che non era scappato. L’hanno trovato a notte fonda in giro per Boulder, a chilometri di distanza da casa. Ti stava cercando.
Mamah serrò le labbra, si chiuse la bocca con una mano per soffocare i singhiozzi. Non aveva nessun diritto di piangere.
A mezzanotte passata era ancora sveglia ad ascoltare il respiro dei bambini che dormivano sul lato opposto della stanza. John al piano superiore del letto a castello, Martha in basso. Edwin si era sistemato nell’edificio centrale del villaggio turistico.
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Li avrebbe avuti con sé per quattro settimane. Tanto le aveva concesso Edwin. Quattro settimane e non un giorno di più, poi nulla fino a Natale, quando le sarebbe stato permesso di venirli a trovare a casa per due giorni, prima delle vacanze. Dopodiché avrebbero trascorso qualche settimana nel Wisconsin tutte le estati, e lei sarebbe stata libera di vederli quando desiderava a Oak Park.
Per il momento, tuttavia, non avevano che un mese per stare insieme. Come era possibile aggiustare le cose in quel poco tempo?
– Nooooo! – aveva gridato Martha vedendo partire Edwin il mattino successivo. Avevano dovuto staccarla a forza dalle sue gambe mentre il taxi aspettava con il motore acceso. L’impiegato della reception era uscito a vedere cosa stesse accadendo. – Accidenti, che ugola! – aveva commentato.
«Birdwatching. Ma che avevo in testa? E quando mai un bambino si è divertito a fare birdwatching?» Mamah si era alzata in piedi nella piccola radura in cui aleggiavano profumi resinosi. Martha era un fagottino imbronciato ai suoi piedi.
– E dopo che cosa facciamo? – domandò John.
Mamah non aveva un piano di riserva. Guardò l’orologio: le dieci. John si avvicinò al primo albero e iniziò a prenderlo a bastonate.
– Torniamo al villaggio, – propose Mamah. – Magari facciamo un giretto in canoa.
Non aveva pensato di farli partecipare ad attività che li impegnassero per l’intera giornata. Aveva sperato – egoisticamente – di poterli avere tutti per sé. Aveva un disperato bisogno di sentire il contatto della loro pelle: era quella la sensazione che più le mancava. In Europa aveva sognato di tenere in braccio Martha, di sentire il peso delle sue gambe grassottelle. Ma quel momento non era ancora arrivato, e forse avrebbe dovuto attenderlo a lungo.
John, invece, sembrava più disponibile. Non l’abbracciava di sua iniziativa, ma se non altro si metteva alla sua portata in modo che lei potesse stringerlo tra le braccia. Allora Mamah lo attirava a sé, sentiva le sue costole e le piccole natiche ossute premerle contro il corpo. In uno di quei momenti, mentre John si attardava tra le sue braccia, aveva persino tentato di parlargli.
– Mi spiace di averci messo così tanto a tornare, – aveva detto. Ma John era schizzato via prima che lei potesse aggiungere altro, e si era allontanato di corsa verso un gruppo di bambini poco lontano.
Certi giorni si fermava a guardarli dalla riva del lago. Nelle ore in cui i loro figli nuotavano o giocavano in compagnia degli animatori, i genitori degli altri bambini organizzavano spedizioni per conto proprio. Mamah si sentiva una spia, cercava di nascondersi dietro agli alberi per osservare furtivamente i loro giochi. John sembrava a suo agio: chiacchierava senza sosta e si lasciava trasportare nella sua camera d’aria, affrontando in battaglie acquatiche i bambini con cui entrava in collisione. Invece Martha sembrava così sola in mezzo a quel cerchio di gomma nera: anche in compagnia dei suoi coetanei, aveva lo stesso sguardo preoccupato di quando era con lei.
Accovacciata presso la riva del lago, Mamah ripensava a quell’articolo del «Tribune» in cui un suo «conoscente» sosteneva che lei dedicasse poco tempo ai figli. L’ennesima, esasperante fandonia. Amava appassionatamente i suoi bambini e aveva trascorso moltissimo tempo in loro compagnia, certo più di molte madri che delegavano alle tate l’allevamento dei figli. Ma ora non poteva fare a meno di ammettere che in quella menzogna c’era un fondo di verità che si era sempre rifiutata di affrontare.
Portare avanti una relazione extraconiugale era stato un duro lavoro, che negli anni vissuti a Oak Park aveva consumato tutte le sue energie fisiche e mentali. Anche in presenza dei bambini continuava a pensare a Frank: alle possibilità di un nuovo incontro, al significato di una frase detta l’ultima volta che si erano visti. Coll’andare del tempo aveva scambiato per normalità quella che era un’ossessione. E i bambini erano stati messi in disparte: non fisicamente, forse, ma di certo nei suoi pensieri.
Non era sempre stato così. Prima della relazione con Frank, lei e John erano sempre stati legatissimi l’uno all’altra. Dunque era stata Martha a soffrire di più, non John. Da quando era nata Martha, Mamah era sempre stata con la testa altrove. Prima la depressione, poi Frank. Quando la loro storia era cominciata Martha aveva solo un anno.
La realtà di quell’assenza la colpì come un sasso sulla fronte. Di solito i suoi sensi di colpa si focalizzavano sulla stessa, immutabile scena: lei che usciva dalla loro camera da letto a Boulder mentre i bambini dormivano. Ogni volta che ci ripensava si faceva una sola, orribile domanda: «Mi sono voltata a guardarli?»
In quel momento comprese di essersi allontanata da loro molto prima di quella mattina. I suoi occhi, le sue orecchie, la pienezza della sua gioia – che così a buon diritto sarebbero stati loro – si erano a lungo rivolti verso qualcun altro.
Mamah si sedette, prese a strappare gli aghi da un ramo di pino. Non sapeva ancora come, ma in qualche modo avrebbe dovuto riparare quel torto. Scusarsi a parole non serviva: per John e Martha non avrebbe avuto senso. Ci sarebbe voluto del tempo – anni, forse – prima di rimettere le cose a posto.
Ricordò quei giorni terribili, poco dopo aver confessato a Edwin il suo amore per Frank.
– Sono state le tue maledette teorie a rovinarti, Mamah, – le aveva gridato Edwin. – Sei convinta che persino i tuoi figli siano un’astrazione!
Davanti a Edwin non avrebbe mai ammesso che c’era un fondo di verità nelle sue accuse. Ma era sola in quei boschi, e parlò con se stessa. «Non sono stata presente quando avrei dovuto esserci. Neanche lontanamente presente».
Un pomeriggio presto, verso la fine di luglio, Mamah e i bambini erano rimasti da soli nell’edificio principale del villaggio: tutti gli altri ospiti erano già usciti. Qualcuno aveva insegnato ai bambini a fare i nodi, ma fino ad allora i loro tentativi avevano prodotto una matassa inestricabile. Seduti sotto un ventilatore da soffitto, John e Martha guardavano Mamah districare il groviglio quando un cane nero entrò in sala da pranzo. L’unica altra persona nella sala, un inserviente di cucina che stava immergendo dei piatti sporchi in un lavabo, si avvicinò all’animale con l’intenzione di scacciarlo.
Intanto John si era alzato per andare a salutare il cane. Era tutto nero, di una taglia più media che piccola, con orecchie e muso affusolati e un ciuffo di peli ispidi che gli pendeva dal mento come una specie di barba.
– Sa di chi è questo cane? – domandò Mamah all’inserviente. All’improvviso sentiva il bisogno di proteggere John.
– Nossignora, – rispose l’uomo. – Mai visto prima.
Mamah e Martha si alzarono per andare a dare un’occhiata. – Non avvicinarti troppo, – ammonì Mamah. Ma John era già in ginocchio, con il cane che gli leccava la faccia.
– Forse ha sete, – disse il bambino. Si avvicinò a una pila di stoviglie sporche e prese due scodelle. Ne riempì una con dell’acqua, l’altra con degli avanzi di carne recuperati da un piatto.
– Oppure ha caldo, – azzardò Martha, tenendosi a distanza.
– Be’, ha una pelliccia bella pesante, vero? – disse Mamah. – Sentite, andiamo a chiedere al direttore se per caso lo conosce. Sembra abbastanza pulito. Magari proprio in questo momento c’è qualcuno che lo sta cercando.
John prese una delle sue cordicelle e ne fece un guinzaglio.
– Mai visto, – disse il direttore. – E non è di nessuno degli ospiti: i loro animali li conosco tutti.
– Potrebbe essere di qualche vicino?
– Che io sappia no. Però qui intorno ci sono un sacco di fattorie. Magari si è smarrito.
– E se mettessimo un cartello qui alla reception?
– Ma certo. Anzi, se vuole dico all’autista di accompagnarla dai vicini, per controllare se è loro.
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Martha le fece segno di avvicinarsi piegando il dito. Mamah, colta di sorpresa, si chinò all’istante. – Possiamo tenerlo nello chalet stanotte? – bisbigliò la piccola.
Mamah drizzò la schiena. – Lo terremo nel nostro chalet stanotte, – disse.
Il direttore scrollò le spalle. – Se a lei non dispiace, per me va bene.
Il pomeriggio che uscirono per attaccare i cartelli ai pali del telefono portarono con loro il cane. Più tardi l’autista del villaggio turistico li accompagnò in tre fattorie delle vicinanze. Nessuno aveva mai visto il cane nero.
– Magari è un cane da caccia che si è perso, anche se non è ancora stagione, – azzardò un tale all’ultima fattoria. – Oppure l’hanno abbandonato per strada. Ogni tanto succede: quelli di città vengono qui a sperderli.
Intanto i bambini si erano inginocchiati per coccolarlo. Il contadino sollevò le orecchie dell’animale, gli aprì la bocca, gli alzò la coda per controllare l’ano, esaminò le zampe. Martha e John osservavano senza aprir bocca.
– È un cucciolo, – sentenziò infine il contadino. – Direi che sta bene: niente vermi né piaghe. Diventerà bello grande.
– Potrebbe essere un levriero irlandese, – disse Mamah.
– Se nessuno lo vuole lo prendo io, – propose l’uomo.
Sulla via di ritorno verso il villaggio, fu John a dire a voce alta ciò che tutti pensavano. – Papà non ce lo lascerà tenere.
Edwin non aveva mai voluto cani in casa. Lo facevano starnutire e lasciavano peli dappertutto.
– Tesoro, questo cane dev’essere di qualcuno, – disse Mamah. – È troppo pulito per essere un randagio –. Odiava disilluderlo, ma lasciarlo sperare le sembrava ancor più crudele.
Quella sera prepararono un giaciglio per il cane sul pavimento dello chalet. Misero un po’ di paglia e una coperta dentro una grossa scatola trovata sul retro dell’edificio centrale. Poi si sdraiarono tutti intorno a lui, soffocandolo di baci e carezze. Il cane ansimava mansueto, e intanto Martha gli si aggrappava al collo sussurrandogli «Sei un cane proprio bravo».
Mamah aveva già deciso il da farsi. Avrebbe lasciato esposti i cartelli ancora per un paio di giorni. Anzi no, meglio uno. Poi, se nessuno avesse reclamato il cane («Dio, fa’ che non vengano a prenderselo!») li avrebbe tirati giù senza tante storie.
Avevano ancora due settimane: quattordici giorni tutti interi per nuotare nel lago con il cane, insegnargli a riportare, dargli un nome, dormire con lui. Ad agosto, quando fosse stato il momento di partire, il cane avrebbe viaggiato in treno con loro. Se Edwin non l’avesse voluto, cosa di cui era certa, l’avrebbe portato con sé nel Wisconsin.
Forse non era leale servirsi del cane come di un’esca per invogliare i bambini a farle visita nel Wisconsin. Edwin avrebbe detto che era una macchinazione, uno stratagemma per riconquistare il cuore dei bambini. Be’, non le importava un accidente di quel che avrebbe insinuato. Quel cane era l’occasione di avere una seconda occasione, e le grazie del cielo, si disse Mamah, bisogna prenderle al volo.
XXXIV.
L’auto procedeva sobbalzando lungo la statale 14. Frank mostrava a Mamah i suoi punti di riferimento, le fattorie o gli alberi che segnalavano quanto mancava a Spring Green: novanta chilometri, ottanta. L’auto era sovraccarica di valigie e scatoloni. Il cane, schiacciato in un angolo, teneva la testa fuori dal finestrino benché stesse piovigginando.
– Lo vedi quel cartello? – disse Frank puntando il dito verso un granaio poco più avanti.
Qualcuno ci aveva dipinto sopra un’insegna pubblicitaria che teneva un’intera facciata. Quando furono più vicini Mamah vide che si trattava di un piede nudo, raffigurato in maniera piuttosto realistica. Sotto l’immagine, due sole parole: «Piede d’atleta».
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– Sono favorevoli o contrari? – domandò Mamah.
Frank scoppiò a ridere. – Benvenuta nel Wisconsin!
– Giurerei che appena abbiamo lasciato l’Illinois hai cominciato a parlare con l’accento del luogo.
– Oh, tempo un mese e l’avrai anche tu.
Per la maggior parte del tragitto Frank l’aveva intrattenuta con una nutrita serie di aneddoti sulla sua famiglia materna. «Unitariani radicali», erano. Protestanti convinti. Una cinquantina d’anni fa il nonno di Frank si era stabilito a Helena Valley, sulla riva meridionale del fiume W...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Dedica
  5. Parte prima
  6. Parte seconda
  7. Parte terza
  8. Postfazione
  9. Fonti