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Un cavaliere bianco
Un giorno quest’uomo finirà sui telegiornali, scortato da poliziotti nascosti da passamontagna, e allora la gente vedrà un tizio di aspetto mediocre, con una barbetta dall’aria poco pulita e la cintura dei pantaloni che stringe sotto la pancia.
Lo chiamavano Scannacristiani ed era il boss di San Giuseppe Jato, un paese vicino a Corleone, nell’isola piú grande del nostro mare. E si poteva scommettere che quel soprannome, Scannacristiani, non fosse proprio casuale: in seguito, quest’uomo di aspetto mediocre, bruttino e con la pancia, avrebbe riconosciuto di avere commesso o commissionato, nel corso della sua carriera, un discreto numero di omicidi. Un numero tra i cento e i duecento.
Insomma, un sanguinario capo criminale. Che adesso, molto prima di venire arrestato, nel pieno del suo regime da malvivente, aveva un problema.
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Era il 1993 e un suo ex amico, un certo Mezzonaso, si era venduto alla polizia.
Il venduto stava facendo una serie di rivelazioni sulle attività dello Scannacristiani. Soprattutto, stava facendo rivelazioni a proposito di una strage alla cui realizzazione avevano preso parte entrambi, l’anno prima, quella in cui avevano ammazzato un famosissimo giudice con la moglie e gli uomini della scorta: la strage di Capaci. Quella che aveva sconvolto il paese. La strage che tutti ancora ricordiamo.
La polizia nascondeva Mezzonaso in qualche luogo lontano e lui parlava, parlava, della strage di Capaci, di altre faccende. Era davvero un problema.
Se solo avessero saputo dove si trovava, lo Scannacristiani e altri ex amici dell’isola lo avrebbero volentieri messo a tacere. Questi signori erano decisamente scocciati: secondo quanto riferirà piú di un testimone, erano cosà scocciati da aver preso l’abitudine di riferirsi a lui, con la gentilezza che li distingueva, come a «quel pezzo di merda».
Lo Scannacristiani, il piú furioso di tutti, sapeva che l’esempio del pezzo di merda rischiava di ispirare ulteriori pentiti. Bisognava fermarlo al piú presto.
E pensare che un tempo erano stati amici. Addirittura, lo Scannacristiani era stato il padrino al battesimo del figlio di Mezzonaso.
Su tutta l’isola, l’estate sfumava come un debole incantesimo. Gli ultimi bagnanti solitari sulle spiagge e le pianure seccate dall’autunno nell’entroterra. Giacimenti di lava ribollenti nel sottosuolo. Fu indetta una grossa riunione a cui parteciparono lo Scannacristiani, altri capi dell’isola e persino lo Zio Franco, un eminente capo dei capi. Alla riunione furono tutti d’accordo sul fatto che bisognava agire contro Mezzonaso, bisognava convincerlo a ritrattare.
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Era un giorno di novembre, un martedÃ, un sole bianco posava la sua carezza sugli ulivi, sui campi di limoni, sugli aranceti odorosi. Un giorno di novembre. Il figlio di Mezzonaso aveva dodici anni e non vedeva il padre da tempo.
Andarono a prenderlo tre uomini vestiti da poliziotti, con un lampeggiante della polizia montato sulla macchina.
Si presentarono al maneggio dove il ragazzino stava cavalcando. Amava i cavalli. Si presentarono e chiamarono il suo nome, non lo avevano neppure mai visto.
Il ragazzino vide tre poliziotti e si fece avanti. Gli dissero che erano qui per portarlo da suo padre.
Secondo quanto racconterà piú tardi uno di loro, un futuro pentito conosciuto come il Pelato, il ragazzino si fidò. Lo caricarono sulla macchina e gli dissero di nascondersi, di non farsi vedere da fuori, lo avrebbero condotto dal padre in un luogo segreto. E il ragazzino si nascose e la macchina sgommò via. – Sei contento che devi andare da papà ?
– Ah, papà mio… – rispose il ragazzino ignaro, ingenuamente felice, sempre secondo il successivo racconto del Pelato.
Li seguiva una macchina d’appoggio, con altri due appartenenti al commando armati di pistole e Kalašnikov contro ogni imprevisto. Ma non ci furono imprevisti. Il sole che splendeva e il profumo degli agrumi. La Fiat sgommò via e nessuno li ostacolò, nessuno venne a salvare il ragazzino.
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«Il giorno in cui vidi il suo banco vuoto, qualcosa in me cambiò per sempre».
Anni dopo una compagna di scuola avrebbe scritto queste parole, le avrebbe scritte in un libro di un certo successo. Il libro, un romanzo autobiografico a fumetti che vincerà premi e commuoverà lettori, sarà un documento utile per ricordare la storia del ragazzino rapito. E in copertina avrà proprio questa immagine. Un banco vuoto. Silvia che rimane a fissare il posto del compagno, chiedendosi dove sia finito.
L’attenzione di Silvia non era casuale. Nel libro confesserà : «In classe lo sapevano tutti che ero invaghita di lui, per le volte che ero arrossita davanti a lui o per le volte che ero rimasta a mordermi il labbro dopo che mi aveva rivolto la parola». Succede cosÃ, hai dodici anni, vai alle medie, ci sono le tue amiche, c’è un compagno per il quale hai una timida predilezione. Poi, a un tratto, la stranezza del suo banco vuoto.
C’era il sole, un accecante sole di novembre, nell’aria i profumi dell’autunno tiepido, dalla costa l’aroma salino del mare.
Silvia ricorderà che Loredana, la sua migliore amica, venne a chiamarla per uscire in cortile. Era l’intervallo, Loredana sgranocchiava da un sacchetto di patatine e le chiedeva di uscire in cortile: sembrava tutto talmente normale. Perché allora si sentiva cosà tesa? «Nei giorni successivi il banco restò vuoto, iniziai a capire che non c’era nulla di normale», scriverà sempre anni dopo, in quel libro celebre e sofferto.
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A pochi chilometri di distanza, l’odissea del ragazzino era appena iniziata… Dopo averlo tenuto alcuni giorni in un casolare, il Pelato lo consegnò agli uomini di un’altra cosca, i quali a loro volta lo avrebbero trasferito agli uomini dello Scannacristiani.
Pochi giorni fa correva libero sopra un cavallo, nel sole di novembre, nell’entusiasmo della sua età . Adesso è un fagotto nel baule di una macchina, legato, imbavagliato, incappucciato, passato di mano in mano come una staffetta.
Quasi tutte le cosche dell’isola sarebbero state implicate nel rapimento. Decine e decine di persone, una somma che alla fine, tra mandanti, esecutori, carcerieri e complici vari sarà stimata in oltre un centinaio di persone.
Il Pelato dirà che quando consegnò il ragazzino ai nuovi carcerieri, raccomandò loro di trattarlo bene. Tutte le persone coinvolte diranno in seguito la stessa cosa, di averlo trattato bene, come no, di avere raccomandato agli altri di trattarlo bene.
La mafia stava trasgredendo una delle sue classiche regole, non toccare donne e bambini. Ma era sempre stata una regola di facciata. E d’altra parte, chi era questo ragazzino se non il figlio di uno schifoso pentito, il figlio del pezzo di merda?
In quel periodo era guerra aperta contro i pentiti, contro i giudici, contro lo stato. Guerra contro tutti. Chi se ne fregava delle romantiche regole. Adesso che aveva il figlio di Mezzonaso, lo Scannacristiani sentiva di poter trionfare.
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E quindi, era inevitabile, un giorno la notizia si diffuse a scuola. Un compagno che a Silvia non piaceva, un tipetto spaccone e per nulla simpatico, aveva sentito dei discorsi a casa. Ancora prima che ne parlassero i giornali, certi adulti sembravano sapere fin troppo bene cos’era successo.
– I rapitori sono andati a prenderlo al maneggio. Lo hanno preso per colpa di suo padre venduto, – riferà Daniele, il compagno spaccone. Fissò Silvia con aria quasi soddisfatta: – Mi sa che ti tocca fidanzarti con qualcun altro.
Silvia quel giorno tornò a casa tenendosi la pancia, incredula, in preda a un brutto crampo.
La sera, a tavola con i genitori, accennò a quello che aveva sentito a scuola. – È vero che lo hanno rapito?
Suo padre alzò il volume della tivú e le disse di continuare a mangiare. Questa fu tutta la risposta.
Dopo cena lei andò in camera a leggere fumetti, mentre dalla cucina il volume della tivú le impediva di sentire se i suoi genitori stessero parlando, se si dicessero qualcosa. Lesse e rilesse l’albo che teneva in mano. L’odore della carta stropicciata dalle sue dita, la brezza che sembrava bussare alla finestra.
All’ora di sempre si alzò e osservò la finestra di Loredana, che viveva dall’altra parte della strada. Le loro stanze erano di fronte. Mesi prima un cugino di Loredana, uno spilungone quattordicenne che collezionava bussole ed era fissato con le cose piú strambe, aveva insegnato loro a comunicare con un sistema di segnali luminosi. In pratica, i rudimenti di un codice morse. Silvia osservò la finestra dell’amica accendersi e spegnersi:
H-A-I--S-C-O-P-E-R-T-O--Q-U-A-L-C-O-S-A-?
Il cielo senza luna era di un nero straziante e il vento faceva sbattere un infisso da qualche parte.
Aveva dodici anni. Non sapeva ancora molto di ciò che stava per venire, della musica che lei e Loredana avrebbero ascoltato, dei vestiti che avrebbero messo. Le avventure gloriose e tristi dell’adolescenza. Soprattutto, sapeva cosà poco dell’abisso che stava per inghiottirla, del tormento che d’ora in poi l’avrebbe seguita dovunque e di tutte le domande che un giorno le avrebbero fatto i dottori, del sapore velenoso delle pillole che le avrebbero dato.
Sapeva solo questo, per il momento, che con tutta se stessa voleva vederlo tornare, e che il mattino dopo il banco non fosse vuoto. E invece di sicuro lo sarebbe stato. Con un batticuore doloroso lampeggiò la risposta:
L-O--H-A-N-N-O--R-A-P-I-T-O--D-A-V-V-E-R-O
∞
Ci voleva un posto dove tenere l’ostaggio. Un altro piccolo capo, ansioso di compiacere lo Scannacristiani, mise a disposizione una villa isolata tra gli uliveti dell’entroterra, a qualche decina di chilometri da Palermo.
Uno scagnozzo dello Scannacristiani ebbe l’incarico di allestire una cella all’interno della villa.
Questo scagnozzo era chiamato il Tedesco per la precisione con cui eseguiva ogni ordine, e fu con questa precisione che allestà una stanzetta blindata, provvista di una brandina, chiusa da una porta d’acciaio con spioncino.
Quando l’ostaggio arrivò, come sempre nel baule di una macchina, il Tedesco lo scortò dentro, la faccia coperta da un passamontagna.
Lo Scannacristiani rimase invece al riparo di un albero, nel timore di essere riconosciuto, chissà , da qualche dettaglio o dalla figura del corpo. L’idea di essere riconosciuto lo spaventava a morte. Gli aveva fatto da padrino, aveva giocato con lui quand’era piccolo. Rimase nascosto dietro il tronco di un albero, quest’uomo con la barba, con la cintura stretta sotto la pancia, questo gran capo sanguinario, affiliato al clan dei Corleonesi, autore di un discreto numero di omicidi, rimase là dietro come un amabile giocatore di nascondino.
Nella cella, legarono l’ostaggio a un gancio del muro. Lo Scannacristiani riteneva che avesse un carattere intraprendente e che potesse tentare la fuga.
Secondo il Tedesco, che in futuro sarà un altro di quelli che parleranno, contribuendo a ricostruire i fatti… Secondo il Tedesco, il giovane ostaggio mantenne un contegno stoico, dignitoso, sedette sulla brandina e non mosse un muscolo quando, da fuori, aprirono di scatto lo spioncino per controllare.
∞
«C’erano due tempi, – scriverà piú avanti Silvia nel suo libro. – Nella cella senza finestre dove lui era rinchiuso, ogni minuto si trascinava infinito. La storia del mondo esterno aveva invece un ritmo diverso, noi crescevamo e le stagioni sfumavano una nell’abbraccio troppo rapido dell’altra».
Nei primi mesi, a scuola, tutti avevano parlato in continuazione di lui.
Pareva che dovesse ricomparire da un minuto all’altro e parlarne serviva a mantenere intatto il suo posto. Il suo posto tra loro, tra le cose di sempre: il suono delle campanelle, lo scricchiolio dei banchi, le risate alle spalle degli insegnanti. La polvere dei gessi che scendeva impalpabile dalla lavagna.
Poi i discorsi iniziarono ad affievolire e la sua assenza a diventare normale.
Aspettavano sempre che lui tornasse, certo, eppure lo spazio che aveva lasciato sembrava farsi meno evidente, meno invalicabile. Il banco rimase disoccupato fino a quando, in primavera, un nuovo alunno si unà alla classe.
Quel giorno, Silvia aspettò che tutti uscissero dopo la lezione. Un insegnante che passava sbirciò nell’aula e la vide china su un banco a incidere con la punta di un compasso. L’insegnante scosse la testa e rinunciò a dire qualcosa: in fondo, era soltanto quell’alunna insolita che faceva l’ennesima cosa insolita.
«Disegnavo sul suo banco la faccia…» scriverà lei ricordando quel giorno.
«La sua faccia. Credo che quel disegno inciso sul banco sia stato l’inizio di tutto. Realizzai un ritratto fedele, a memoria, anche senza bisogno di guardare i giornali che pubblicavano la sua foto negli articoli sul rapimento».
∞
Lo tenevano sempre nella cella senza finestre. Senza luce del sole, senza cielo, senza stelle, soltanto un neon e la brandina su cui stava tutto il tempo. Il silenzio era costante, perché gli scagnozzi dello Scannacristiani, nascosti da passamontagna, gli allungavano i pasti senza parlare per non rischiare che lui memorizzasse le voci.
Un giorno gli avevano messo in mano un quotidiano con la data in vista, gli avevano scattato un paio di foto. Lui con la faccia già smagrita, coraggiosa, gli occhi abbassati in un’espressione da bambino abbandonato e insieme da uomo antico, saggio e consapevole dei tradimenti del mondo.
Mandarono le foto alla madre e al nonno, con un biglietto che diceva di comunicare al venduto, ovunque fosse, di chiudere la bocca.
In verità , appena saputo del rapimento, Mezzonaso aveva provato a scappare dagli agenti che lo tenevano in custodia. Voleva tornare nell’isola e trovare il figlio. Ma gli agenti lo avevano ripreso e da allora, sorprendentemente, lui non tentò altre mosse. Continuò a collaborare con la polizia e non chiuse affatto la bocca. Non si capà mai cos’avesse in mente.
Sull’isola, nel frattempo, lo Scannacristiani se ne stava in qualcuno dei suoi rifugi da latitante, mandando ordini a distanza ai carcerieri.
Iniziava a sprofondare in un furioso stupore. Era chiaro che qualcosa non funzionava. Insomma, perché il pezzo di merda non si decideva a ritrattare le cose raccontate alla polizia? Era impazzito? Non si era reso conto che il ragazzino era nelle mani del suo ex amico, lo Scannacristiani, il temibile boss?
All’inizio era sembrato che il piano dovesse avere un rapido successo, per questo i capi di mezza isola avevano fatto a gara per collaborare.
Ora il tempo passava e l’imbarazzo cresceva. Il proprietario della villa dov’era rinchiuso il ragazzino fece sapere che l’ostaggio non poteva piú stare lÃ.
C’era la raccolta delle olive, si scusò candidamente, il posto aveva smesso di essere sicuro. Per di piú, il ragazzino un giorno si era messo a battere i pugni sul muro, rischiando di attrarre l’attenzione di un bracciante della zona. La raccolta delle olive. Il profumo aspro, quasi feroce dell’olio appena spremuto. E un ragazzino, là dentro, che batte i pugni contro il muro mentre i suoi rapitori, nervosi, si chiedono dove metterlo.
∞
Silvia in effetti era una ragazzina insolita, su questo c’erano pochi dubbi.
Del tutto uguale agli altri non lo era mai stata. Si era mai vista una preadolescente che anziché leggere «Cioè» e altri giornali con le foto dei cantanti, con i consigl...