Rosso come una sposa
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Rosso come una sposa

  1. 272 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Rosso come una sposa

Informazioni su questo libro

«Ne successero di cose a me, alla mia famiglia, al mio Paese e al resto del mondo.
Ma il resto del mondo non m'interessava ancora». L'Albania del primo Novecento è un luogo misterioso, magico e caotico.
Un luogo dove gli opposti convivono da sempre: cristianesimo e islam, tradizioni risalenti all'Impero bizantino come all'Impero ottomano.
Ed è anche, e soprattutto, una società fortemente matriarcale, in cui per il potere che si acquisisce diventando suocere le donne passano la vita aspettando con gioia d'invecchiare. Meliha è una figlia di questo mondo, una donna forte, capace di seguire i vivi e i morti con lo stesso trasporto: è lei il cuore della famiglia Buronja, all'inizio di questa storia. Ma il vero perno della famiglia e del romanzo diventerà ben presto sua figlia Saba. Appena quindicenne, Saba è costretta a sposare Omer, un uomo maturo che lei non ama, già vedovo di sua sorella e legato ai Buronja da un debito di sangue. Ma la aspettano ben altre altre prove, che Saba crescendo - e conquistandoci pagina dopo pagina - attraverserà con disperata energia: i tanti figli, la guerra, lo sterminio dei fratelli, fino alla transizione a una nuova e per lei piú felice dimensione di vita: il comunismo. È attraverso le tante vicende che gravitano intorno a Saba e al suo mondo - dai piccoli infiniti rivoli di vita ai grandi rivolgimenti politici che entrano nella quotidianità piú intima degli individui e si fanno storie - che il romanzo assume un tono epico indimenticabile, per forza e naturalezza.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2010
Print ISBN
9788806199616
eBook ISBN
9788858400340

Parte seconda

Capitolo primo

Il giorno del suo matrimonio mia madre indossava un tailleur beige dal taglio semplice e nei capelli non portava nessun velo. Neanche un fiore. La scelta di mamma non aveva nulla a che fare con i movimenti femministi che rifiutavano il vestito bianco. In quel momento, ne ignorava l’esistenza. Era all’avanguardia a sua insaputa.
Correva l’anno 1971 e, in piena trasformazione dell’uomo nuovo, il Comitato centrale del partito aveva abolito l’usanza borghese e cittadina dell’indegno vestito bianco. Mamma quel giorno era solo una compagna che aveva trovato il suo compagno di strada, con cui percorrere il lungo viaggio verso la società nuova. Strada e viaggio: sembrava che papà le stesse dando un passaggio verso chissà dove.
Ho una foto che la ritrae in quell’orrendo tailleur beige che fa cosí tanto assistente di volo anche se, poveretta, non aveva volato mai. Il matrimonio era il suo primo «volo», se lo si può chiamare cosí senza urtare la sua sensibilità. Le sue sopracciglia sembrano due cespugli, simili a quelli del compagno Brežnev, e in mano stringe una borsetta bianca, unica traccia di una giornata che avrebbe dovuto essere tutta bianca.
Papà non è che un particolare di quella foto. Lui, il compagno Luan, era solo lo sposo.
Una volta arrivato davanti a casa di nonna Saba, la madre di mio padre, il corteo si fermò di colpo: la nonna aspettava fuori dalla porta con una tazza zeppa di miele. Prese la mano destra della compagna Klementina, mia madre, e infilò le sue dita da novella sposa dentro quel denso liquido dal colore giallo. Poi pulí la mano di mamma sul legno del portone pronunciando commossa:
– Che la tua vita in questa casa passi dolce come questo miele.
Con tutte le buone intenzioni di nonna Saba, le cose non sono andate secondo le sue previsioni.
Cosí mia madre entrò a far parte di questa grande famiglia in cui scarseggiavano i maschi. Mio padre aveva cinque sorelle, e il duro compito di portare avanti il cognome della famiglia. In questo, mia madre gli avrebbe dato una grossa mano. Lei aveva cinque fratelli, e secondo i calcoli di mia nonna avrebbe partorito tanti maschi, proprio come sua madre. Ma certi calcoli spesso non sono cosí precisi: e se invece fosse stato mio padre ad assomigliare al suo di padre? Nonna Saba aveva messo in conto il rischio, e dritta come un treno aveva bussato alla porta dei miei nonni materni. Avevano scelto insieme la sposa, nonna Saba e papà, ma lui aveva insistito per conoscere la risposta prima di chiederne la mano al futuro suocero.
– Vai a indagare, – aveva detto a nonna Saba, – domanda alle tue amiche, fai quello che ti pare, ma non andare a chiederla prima di essere certa che sarà nostra!
Mamma poi è stata veramente loro, fino a quando purtroppo nonna è mancata. Povera mamma, dopo piú di trent’anni di matrimonio ha ricominciato da capo con mio padre. Il rapporto tra due persone qualche volta può essere diverso da quello in tre.
I genitori di mia madre avevano accettato subito. E questo era immaginabile visto il curriculum di mia nonna. Non che papà fosse stupido. Nemmeno brutto, anzi era un adone, aveva la bellezza maschile senza tempo: biondo con gli occhi azzurri. Si era laureato da qualche anno e già lavorava come insegnante in un villaggio dove la patria aveva tanto bisogno di lui. Nonna Saba però godeva di un’ottima reputazione, e non soltanto per il suo carattere forte, ma anche per la sua limpida biografia: gli zii di mio padre avevano pensato al suo futuro morendo, erano eroi nazionali.
Pure mio nonno materno aveva una buona biografia ma, a differenza di mio nonno paterno, tanto tempo prima era stato ricco. Nulla di grave, aveva partecipato alla guerra volontariamente mettendo tutto a disposizione dei partigiani, e dopo la vittoria aveva regalato i suoi beni alla proprietà comune.
«Fratelli, – diceva Enver Hoxha in quegli anni, – ciò che era vostro adesso è diventato nostro».
Credo che gli albanesi all’inizio non avessero capito bene questo concetto.
Mio nonno non aveva donato tutto perché lo aveva detto Hoxha, e neanche per paura dei tempi che stavano per venire. Lui ci credeva davvero, era un marxista convinto che aveva studiato per anni Il Capitale e che pensava di stare costruendo la nuova società dell’uguaglianza. Anche quando doveva aspettare in file interminabili per avere la sua striminzita razione di carne, si diceva che in fondo tutti dovevano fare dei sacrifici. Del resto l’alternativa era diventare kulak: rovinare se stesso e tutta la tribú per sette generazioni.
Dopo il sí di mio nonno materno, i preparativi per le nozze erano durati quasi due anni. Mamma insegnava alle scuole elementari di Valona, e papà ogni sabato scendeva in città dal villaggio in cui a sua volta serviva la patria. S’incontravano e facevano un giro insieme, ma mai da soli. Li accompagnava una delle numerose sorelle di papà: era nell’interesse di tutte e due le famiglie proteggere la mamma e la sua virtú. Se no mia madre poteva fare la fine della sua amica Arta.
Arta frequentava di nascosto il suo promesso sposo, anche lui insegnante. S’incontravano a casa di un amico, che lasciava loro le chiavi quando non c’era nessuno. Non è elegante precisare in che modo trascorressero il tempo, ma non è escluso che i due innamorati provassero reciproco desiderio. Entravano dall’amico separatamente, e uscivano allo stesso modo, eppure erano stati notati dai vicini di quella casa che ospitava la loro passione.
E i vicini avevano deciso di mettere le cose a posto. Un bel giorno avevano aspettato che i piccioncini entrassero in casa e avevano chiamato il segretario del partito.
– Abbiamo scoperto un nido di comportamenti amorali che può diventare un cattivo esempio per i nostri giovani, – avevano detto al segretario, che senza perdere tempo, con due testimoni, era corso sul luogo del misfatto. Strada facendo, a loro si era unito pure il poliziotto di quartiere, felice di poter finalmente rompere la monotonia delle sue giornate lavorative (ai tempi di Hoxha non succedeva mai nulla, non si muoveva una foglia).
Tutti insieme avevano bussato alla porta. Da dentro, nessuna risposta. Avevano bussato piú decisi. – Si vede che sono troppo occupati per sentirci, – aveva commentato uno dei vicini che ormai non stava piú nella pelle. Il povero Jorgo, rosso in faccia e mezzo svestito, era andato ad aprire. Il gruppo non vedeva l’ora di entrare: erano corsi tutti dentro per scovare la cagna in calore. Non c’era però traccia di Arta. Ma chi volevano prendere in giro questi due kurvar? Il segretario del partito era andato sicuro ad aprire l’armadio, invece la povera Arta l’avevano trovata nascosta dietro le tende di velluto. Comunque i vicini non si erano sbagliati, lo slogan del momento era: tutto il popolo è soldato!
Jorgo aveva sposato Arta in un «matrimonio di vergogna»: i parenti di lui, ogni volta che incontravano lei, la chiamavano kurva. Secondo loro era sua la colpa di quanto era successo: si sa che gli uomini ci provano tutti, è dovere delle donne dire di no.
I due spudorati erano stati trasferiti in uno sperduto paese di montagna, a insegnare ai bambini di lí. C’era da chiedersi perché mai i poveri montanari dovessero essere educati da due persone senza morale, da due degenerati.
La famiglia della mamma era molto attenta a queste cose. Cedere alle tentazioni della carne poteva costarti caro: i tuoi figli crescevano come selvaggi sulle montagne e la tua famiglia rimaneva macchiata per sempre. Nel progetto del nostro uomo nuovo, a quanto pare, non erano previsti gli slanci di passione fuori dal matrimonio.
Ripensando a queste cose oggi, trovo un’affinità incredibile tra la Chiesa cattolica e il comunismo del mio Paese. Ma il nostro comunismo era piú feroce di qualunque papa conservatore la storia abbia mai conosciuto.

Capitolo secondo

Mentre aspettava il certificato di matrimonio, mia madre dunque usciva con il suo promesso sposo timidamente e rigorosamente accompagnata. E secondo me era pure felice di non rimanere da sola con mio padre. A loro, per fortuna, non era capitato di provare qualche strano sentimento o desiderio l’uno per l’altra. Meglio cosí. Avevano una vita intera davanti, che fretta c’era? La tradizione della mia famiglia, del resto, vuole che il vero amore scoppi dopo il matrimonio.
Il giorno della «mielata», dopo l’ingresso trionfale dal portone di nonna Saba, seguito da trecento invitati solo da parte dello sposo, mamma finalmente poté riposarsi un po’ in una stanza da sola. Era stanca, il giorno prima era stata a un altro matrimonio: il suo. Altri trecento invitati avevano festeggiato a casa dei suoi genitori.
Dalla finestra di quella stanza vedeva gli agnelli allo spiedo, scuoiati e pronti per essere arrostiti.
Sentiva la canzone polifonica intonata dalle donne:
La nostra sposa
come una rosa.
Sentiva gli uomini rispondere:
Ma lo sposino
è un brutto caprino.
E di nuovo le donne:
La sposa come una sfoglia del byrek.
E gli uomini:
Lo sposo come la trippa delle pecore.
La canzone esaltava la bellezza della sposa, la bellezza è sempre femmina, ma poi quando parlava delle qualità della persona, queste appartenevano sempre all’uomo.
Piú tardi le zie condussero la mamma nella stanza della «mostra», dove rimase in mostra, appunto, davanti a parenti, amici e vicini finché non fu pronta la cena.
Era in pieno svolgimento la campagna di abolizione dei matrimoni sfarzosi, matrimoni tipici della vecchia borghesia. «Ho scelto la persona soprattutto», cantava la radio dalla mattina alla sera. Chissà che cosa sceglievano in altri Paesi quando decidevano di sposarsi, mi chiedevo spesso da piccola.
Cosí mio padre aveva scelto la persona, secondo me quella sbagliata, ma nessuno ha mai chiesto il mio parere. Tenera sposa mia mamma, una sposa atipica, acqua e sapone, e con i capelli corti. La compagna Klementina aveva costruito per tutta l’estate la nuova ferrovia: i treni dovevano percorrere la nuova patria come arterie di una nuova vita, chi aveva tempo da dedicare alla cura dei capelli e alla bellezza? Le ragazze nubili non si truccavano mai, cosí da diventare belle il giorno del loro matrimonio. Invece mia madre con il matrimonio era riuscita a diventare solo una donna onesta; per quanto riguarda la bellezza, le era andata male.
La foto appesa sopra la testiera del letto dei miei genitori non mi è mai piaciuta. Mi mettevano a disagio gli occhi tristi di mia madre che sembravano muoversi in quel viso abbronzato, segno tra l’altro di estrema bruttezza, poiché la donna doveva avere la pelle bianca come il latte. Quegli occhi seguivano ogni mio movimento quando, durante l’adolescenza, mi facevo bella davanti al grande specchio di camera sua. Nella mia non avevo uno specchio: il compagno Luan riteneva che come arredamento fossero sufficienti i libri. La malinconia di quella foto è stato il sentimento piú tangibile tra tutti i miei stati d’animo di quegli anni. Spesso la mia gioia di bambina si smarriva lí, negli occhi di mia madre, nel loro disperato tentativo di nascondere la tristezza che si mischiava all’imbarazzo. L’imbarazzo della consapevolezza di non essere felice nel giorno del suo matrimonio.
Il giorno del suo matrimonio mia madre Klementina era brutta. E che aveva fatto per diventare cosí? Mica aveva distrutto chiese e moschee? come si dice da quelle parti. Ma mia madre poteva rispondere con la testa alta che sí, lei aveva contribuito a distruggere letteralmente chiese e moschee.
Nel 1967 Hoxha aveva proposto che i luoghi di culto e di preghiera venissero concretamente eliminati. O semplicemente trasformati. Potevano diventare centri culturali. O anche magazzini per i cereali, ad esempio. Mamma prima aveva dato il suo indispensabile contributo nella moschea di Elbasan, nell’Albania centrale, per poi passare in una chiesa da qualche parte al nord. Durante la sua vita, piú volte mia madre deve aver pensato che quelle picconate le erano costate care. Che le aveva pagate tutte, senza nessuno sconto.
A un mese dalle nozze mia madre era incinta, aspettava me. Nonna Saba faceva il giro del quartiere per farsi leggere i fondi di caffè. Era come un’ecografia: lei prendeva il caffè, girava bene la tazza, metteva giú, ed ecco il sesso del nascituro si vedeva già, bello e virile, come riscatto per tutte le femmine che nonna aveva avuto. Tutte le donne da cui nonna andò a farsi leggere i fondi vedevano il mio pisello fin da principio. Piú cresceva la pancia di mia madre e piú sporgeva il mio sesso dai fondi della tazzina. Peccato lo abbia perso per strada. Ma nonna visse per nove mesi in uno stato di grazia, mamma portava la pancia e lei portava i fondi di caffè. Erano quasi pari, loro due. Di papà non c’erano tracce. Continuava a lavorare nel villaggio, e si faceva vedere solo nel fine settimana. Il trasferimento non era arrivato neanche dopo il matrimonio, e cosí mamma era rimasta in città con la scusa della grande famiglia: due vecchietti a cui badare e ancora una sorella di papà da sistemare.
Il giorno in cui nacqui nonno Omer disse che se questa famiglia continuava a sfornare femmine come le gatte, era tutta colpa di nonna Saba. Poi andò al bar dagli amici.
– Una kurva in piú per la povera Valona, – concluse amareggiato davanti a un bicchierino di grappa. Era preoccupato per il numero di kurve di Valona, che lui indirettamente aveva contribuito ad aumentare.
Mio nonno materno, quando vide che non avevo né occhi azzurri né capelli biondicci, sospirò sollevato:
– È normale, come noi!
Nonna Saba all’inizio un po’ ci rimase male: – I capelli scuri come la madre, – disse, – ma di carnagione è chiara come me –. Adesso che sono una donna adulta ho anche il suo corpo esile e i suoi zigomi alti. Ma la magrezza di nonna Saba ai suoi tempi non doveva essere troppo apprezzata.
Mia madre al momento della mia nascita non fece nessun commento, mi amò e basta. Anche se sapeva sin da principio che non mi avrebbe avuta tutta per sé. Io avrei avuto due madri: lei e nonna Saba. L’unica cosa che mamma riservò per sé fu la scelta del nome. A papà non interessava poi tanto. Nonno Omer, diceva nonna Saba, con i nomi delle femmine aveva sempre avuto un rapporto complicato. Potevo quindi avere il nome che volevo, anzi, quello che voleva mia madre. Che mi chiamò Dora, Dora come il suo personaggio preferito di David Copperfield.
– Poverina, – disse nonna Saba, – il suo cervello è diventato come dhallë per i troppi libri che legge!
Mamma era felicissima che fossi femmina. Tra le donne del mio Paese c’è questo detto: «il buon Dio non ti lascia senza una femmina». Ma una basta e avanza. Dopo di me per fortuna arrivarono due fratelli maschi. Il fucile al chiodo era uno degli incubi di famiglia.
Da piccola sono stata molto felice, ma poi ho smesso. Ho smesso cosí, di colpo, come i fumatori che decidono da un giorno all’altro. Ma non come quelli che poi ci ricadono; io non sono piú ricaduta. Solo una volta, all’inizio.
Quando avevo quattro anni feci il primo tentativo. Non ci riuscii, tutto sommato quel bamboccio di mio fratello non era una vera minaccia. Dormivo ancora con mia madre, mi portava sempre in giro con lei, i vestiti e i giochi piú belli erano per me. Mi scordai un cuscino sopra la faccia di mio fratello che era nella culla, ma mamma arrivò in tempo per levarlo. Invece di sgridarmi mi portò a fare una passeggiata e mi comprò tanti lecca lecca, quelli a forma di gallo, rossi.
Due anni piú tardi portai mio fratello a giocare nel cortile della casa di campagna di nonna e lo misi sull’altalena. L’altalena era una grossa corda di canapa passata tra i rami di un imponente noce. La stessa che un tempo la nonna usava per tirare l’asino, prima di consegnarlo alle c...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Parte prima
  5. Parte seconda
  6. Epilogo
  7. Ringraziamenti