
- 408 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Informazioni su questo libro
Il ricordo di un giovane soldato ucciso per errore dal «fuoco amico» dei compagni turba i cuori di una famiglia israeliana durante le feste di Hannukkah. Lasciato a Tel Aviv l'adorato marito Amotz, Daniela Yaari arriva in un villaggio della Tanzania per incontrare il cognato, padre del soldato morto, che vive laggiú in una sorta di esilio volontario.
Al rifiuto di continuare a vivere in un paese sempre in guerra, alla ferita insanabile per una morte assurda, si oppongono la sete di normalità di Amotz e Daniela, l'amore che li lega dopo tanti anni, la loro dedizione al lavoro, la testarda volontà di tenere unita la famiglia.
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Informazioni
Print ISBN
9788806197698eBook ISBN
97888584011491.
Il venerdà mattina Yaari è accanto alla pattumiera in cucina intento a sfrondare il quotidiano «HaAretz» da allegati inutili, nazionali e locali, da pagine di annunci immobiliari e da inserti pubblicitari di grandi catene di supermercati, e pensa alla stufa in cui il cognato ha bruciato i giornali israeliani. Se i quotidiani continueranno a diventare sempre piú voluminosi sarà necessario installare una stufa africana anche qui, per non appesantire troppo la pattumiera, pensa. Legge il giornale in fretta, in modo selettivo, per quanto badi a soffermarsi sui dati delle precipitazioni, sul livello idrometrico del lago della Galilea e sulla carta sinottica con le previsioni del tempo. E quando anche la radio conferma ciò che il giornale riporta, cioè l’arrivo di venti dal quadrante orientale, asciutti ma di forte intensità , in sostituzione di quelli umidi dal quadrante occidentale, Yaari si domanda se quei venti muteranno il carattere degli ululati e dei sibili nel grattacielo o se ululati e sibili non distinguano tra est e ovest.
Lava le stoviglie della colazione nell’acquaio perché è giusto che in assenza della padrona di casa anche la lavastoviglie si goda un po’ di riposo. Ma il silenzio della casa è opprimente, e sa che il sabato che lo attende si trascinerà lentissimo. È vero che si è raccomandato con la proprietaria dell’ascensore di Gerusalemme di aspettarlo a partire dalle nove del mattino, ma sa per esperienza che non è carino presentarsi a una signora anziana prima che quella abbia avuto il tempo di organizzarsi a dovere. È di buonumore. La reazione paziente di Moran al suo schizzo ancora gli risuona piacevolmente nelle orecchie. Sulla strada per Gerusalemme è dunque dell’idea di fare un salto al grattacielo Pinsker per ascoltare ancora una volta i venti prima di decidere con Gottlieb su cosa impuntarsi e quali concessioni fare. Non ha in previsione incontri importanti prima di recarsi ad accendere le candele con i nipotini quella sera. Da anni fa visita agli amici sempre e soltanto in compagnia di Daniela, e se dovesse presentarsi da solo tre giorni dopo la partenza della moglie, la cosa potrebbe apparire sospetta, come se approfittasse della sua assenza per raccontare agli amici qualcosa che loro ancora non sanno.
Pure questa volta apre il cancello di ferro col telecomando elettronico e viene inghiottito nel parcheggio sotterraneo. Attende paziente che l’automobile entrata dopo di lui si fermi in una piazzola e poi parcheggia in una di quelle libere, che sono meno numerose rispetto alla sua visita precedente. Quando apre la porta di emergenza che separa il parcheggio dall’atrio degli ascensori ha l’impressione che gli ululati si siano rafforzati, forse perché il vento è secco, orientale. Non c’è dubbio, il problema è serio ed esige un esame scrupoloso da parte dell’architetto e dell’impresa di costruzioni. Ma anche la ditta produttrice delle cabine e il suo studio di progettazione non ne sono esentati. Anziché chiamare un ascensore Yaari rimane fermo in ascolto, e non c’è da stupirsi che l’inquilino che ha appena parcheggiato la macchina – un uomo anziano, dal viso imbronciato e le guance scavate che indossa un paio di vecchi pantaloni color kaki e ha le scarpe imbrattate di fango fresco come se fosse appena tornato da una passeggiata nei campi – si insospettisca vedendo uno sconosciuto fermo nell’atrio degli ascensori.
Nonostante le chiavi del suo appartamento già gli dondolino in mano, l’uomo, nel notare l’estraneo immobile come per una preghiera silenziosa davanti agli ascensori fermi a piani differenti, rinuncia a chiamarne uno, piega il capo e si pone in ascolto con espressione severa. I due si osservano di sottecchi e ognuno, in cuor suo, già indovina l’identità dell’altro. L’inquilino si apparta in un angolo e tira fuori di tasca un telefonino e quando Yaari, ormai sazio degli ululati del vento, fa per tornare alla macchina, è bloccato dalla suoneria del cellulare nella sua tasca.
La voce dell’inquilino che parla nell’angolo si sovrappone a quella che sgorga dal suo cellulare.
– SÃ, sono io, signor Kidron.
– Allora adesso ci crede che gli ululati sono veri e non un’allucinazione –. L’uomo continua a parlare al cellulare a pochi metri da Yaari, che però preferisce una conversazione a quattr’occhi, senza la mediazione dell’etere, e chiude il telefonino.
– Certo che sono veri. Non l’ho mai accusata di avere delle allucinazioni. Ma dubito, anzi respingo l’idea che il mio studio sia responsabile di tutto ciò.
– Anche l’impresa edile rifiuta di assumersi qualsiasi responsabilità , l’architetto è sparito dalla circolazione e il suo amico Gottlieb si è dato alla macchia. Chi farà qualcosa allora?
– La risposta non è semplice. Vedremo. Ma mi scusi se le faccio una domanda che potrebbe sembrarle impertinente.
– Dica pure.
– Questi ululati sono davvero cosà terribili?
– Che intende dire?
– Dopotutto i venti sono rari in questo paese dall’estate perenne, e a Tel Aviv lo sono ancora di piú. E in ascensore, anche se si vuole arrivare all’ultimo piano, non ci si sta poi per piú di un minuto...
– E allora?
– Allora perché fate tanto chiasso? In fondo, in un certo senso, sentire il rumore del vento nel silenzio di un grattacielo nel cuore di una città dà la sensazione di trovarsi in mezzo alla natura, tra le nuvole, magari in alta montagna...
– Ma è impazzito?
– Diciamo che potrebbe essere un modo diverso di considerare la situazione.
– Forse per lei, signor Yaari, ma di sicuro non per noi inquilini. E se ritiene che grazie a fantasie strampalate come questa lei e il suo studio possiate evitare di subire le conseguenze degli errori di progettazione che avete commesso, sappia che non funzionerà . Noi vi trascineremo in tribunale.
– Non ha cose piú importanti da fare? – domanda Yaari con un sorriso educato.
– Le ho, – risponde l’uomo con fermezza, – ma ho anche parecchio tempo libero per occuparmi di qualunque faccenda. Ecco, come vede, sono solo le sei e mezza ma ho già finito la mia giornata di lavoro che è cominciata un’ora fa.
Yaari sente un leggero brivido lungo la schiena.
– Il mio lavoro non richiede molto tempo, – prosegue l’inquilino, – per quanto non sia facile. Ogni mattina vado al cimitero, alla tomba di mio figlio, ci gironzolo un po’ intorno, strappo qualche erbaccia, butto via un sasso e lo rimpiazzo con un altro. E a volte, quando mi scappa una lacrima, l’asciugo pure. In fin dei conti non ho un gran daffare. Per questo mi rimane abbastanza tempo per pretendere che gli altri facciano il proprio dovere.
Yaari abbassa il capo e ricorda le parole di Gottlieb: gente come quella ha priorità diverse. Poi dice, con una sorta di intima gioia:
– Sa, io non ho perso un figlio come lei, signor Kidron, solo un nipote, ma conosco da vicino il suo dolore, e lo rispetto moltissimo. Quindi non se la prenda se ho scherzato un po’. Si metta pure l’animo in pace, in fondo sono venuto qui per risolvere il problema e ho intenzione di incontrarmi col produttore delle cabine, l’architetto e l’imprenditore edile perché si possa trovare insieme il punto in cui si insinuano i venti. E quando ne scopriremo l’origine, vedremo cosa fare per metterli a tacere.
2.
Esausta del viaggio a Dar es Salaam e per aver seguito l’ultimo doloroso percorso della sorella, di ritorno alla fattoria Daniela si scusa con il cognato e Sijin Kuang, prende i dolci rimasti e sale in camera. Con una rapidità insolita per lei si toglie il vestito che non indosserà mai piú nel corso di questa visita, rimane a lungo sotto il getto dell’acqua della doccia e dopo aver deciso di rinunciare ai dolci, che le provocano una sensazione di nausea, si corica affamata. Non tocca nemmeno il romanzo posato accanto al letto, lo serba per il viaggio di ritorno, ma spegne subito la luce, trova la giusta posizione, e crolla in un sonno profondo.
Di conseguenza si sveglia presto. Quando il suo orologio da polso segna le cinque capisce che ormai la notte è terminata per lei, e che non riuscirà in alcun modo a riprendere sonno. Per mezz’ora rimane rannicchiata a occhi aperti, al buio, pensando ai suoi famigliari nei letti che lei ben conosce, ma faticando a immaginare il giaciglio militare di Moran. Alla fine la fame la spinge ad alzarsi, incontro a un’alba che si fa attendere, anche solo per una tazza di caffè e una fetta di pane.
In teoria potrebbe far passare il tempo piú velocemente se riprendesse il romanzo, e se sulla quarta di copertina avessero dato maggiori delucidazioni sul colpo di scena che ci si deve aspettare, adesso lo leggerebbe con maggior pazienza per arrivare al punto agognato. Ma ha la sensazione che non vi sarà un vero colpo di scena, né che la protagonista rivelerà un nuovo aspetto di sé. L’unico cambiamento che Daniela potrebbe attendersi sarà forse quello dell’idea che lei si è fatta di questo romanzo e delle sue intenzioni. E in fin dei conti sarà un cambiamento di poco peso: dipenderà esclusivamente dalla sua volontà . Tuttavia non sempre il testo è sufficientemente profondo perché lei possa cambiare idea al riguardo.
No, non ha voglia di riprendere la lettura. Se avesse però tra le mani il numero di «HaAretz» del venerdà potrebbe continuare a rimanere piacevolmente a letto. Infatti, a differenza di suo marito, lei sa attingere dai vari articoli nuovi stimoli su quanto accade nel mondo.
Ma non avrà un giornale fino al suo ritorno in Israele. Si toglie la camicia da notte, indossa gli abiti con i quali è arrivata in Tanzania, scende le scale nella penombra e arriva all’immensa cucina. Ormai sono già un po’ padrona di casa, ridacchia tra sé. Ma in cucina l’accoglie una piccola luce. Il vecchio factotum, che il giorno prima l’aveva aiutata a trovare il caffè e lo zucchero, si alza non appena lei entra. Ha ricevuto istruzioni da Yirmiyahu oppure, memore delle sue precedenti difficoltà , la sta aspettando di sua iniziativa?
Lei è contenta di vederlo, e gli stringe calorosamente la mano con entrambe le sue. Al posto di suo marito avrà ora a disposizione un vecchio rugoso che ha già messo a bollire l’acqua, ha poggiato sul tavolo un piatto, una tazza e le posate, vi ha sistemato accanto il barattolo del caffè e lo zucchero e adesso tira fuori dal frigorifero pure il bricco del latte grigiastro. E magari nel frattempo ha imparato a pronunciare meglio in inglese il nome dell’animale che l’ha prodotto e forse lei si convincerà a versarlo nella tazza.
Anche se col tempo dimenticherà la maggior parte dei dettagli e delle immagini di questa sua visita in Africa, il ricordo di questo africano vecchio e grinzoso che l’accudisce come suo marito in un’enorme cucina, prima dell’alba, rimarrà con lei fino al giorno della morte.
3.
Nonostante il desiderio di Yaari di ritardare il piú possibile l’arrivo a Gerusalemme per la sua visita caritatevole che quasi certamente si rivelerà inutile, la strada scorre veloce sotto le ruote dell’automobile. Tutta l’attività amministrativa ed economica della capitale scivola via durante il fine settimana come la scorza di un frutto sbucciato e svolazza verso la linea costiera. Il venerdà Gerusalemme si trasforma in una cittadina di provincia, non del tutto abbandonata, un po’ negletta, ma soprattutto di facile accesso. Ecco, non sono ancora le nove del mattino e Yaari già parcheggia l’automobile in una piccola via nei pressi della vecchia sede della Knesset.
Talvolta gli capitano lavori di progettazione a Gerusalemme, non piú in centro ormai, ma in periferia, specie nelle zone industriali di recente sviluppo, e ora la sua passeggiata intorno al vecchio edificio della Knesset, divenuto nel frattempo sede del tribunale rabbinico, ricorda quella di un turista. Entra nell’edificio e osserva una piccola mostra di fotografie in bianco e nero che ritraggono giorni lontani ma non dimenticati. Nonostante lui non abbia mai abitato a Gerusalemme, e negli anni Cinquanta e Sessanta la televisione non perseguitasse ancora il pubblico dei telespettatori con immagini degli uomini politici, lui serba ancora il ricordo dei cinegiornali che venivano proiettati nelle sale prima dei film. Vi si vedevano il capo del governo e i suoi ministri camminare con semplicità e naturalezza, senza pose di potere né guardie del corpo, in King George Street, dove lui cammina ora, e un paio di poliziotti bastavano per dirigere il traffico intorno a loro.
Ma perché macerarsi nella nostalgia di giorni felici? Contro questo stesso edificio, semplice e innocente, erano stati anche lanciati sassi e bottiglie all’epoca tumultuosa dell’accordo con la Germania sui risarcimenti ai sopravvissuti dell’Olocausto. Quindi, meglio lasciar perdere i tempi andati e concentrarsi sul presente. Yaari controlla dove sia ubicata la casa alla quale è diretto, e nel frattempo entra in un bar e ordina un cornetto e una grande tazza di caffè. Cosà potrà rifiutare un’eventuale offerta di rinfresco da parte della signora Bennet e andarsene in fretta. Non vuole che nessuno lo consideri un tecnico specializzato nell’assistenza di vecchi ascensori e prova un senso di disagio nell’incontrare una donna che è stata importante per suo padre, magari anche la sua amante, sebbene oggi sia una «ragazzina» di ottantun anni.
A dispetto degli sforzi non riesce a far passare piú in fretta il tempo, e quando sale le scale del condominio sono solo le nove e venti. Si ferma a ogni pianerottolo a controllare i nomi degli inquilini e all’ultimo piano, vicino a una scaletta di ferro che si arrampica fino a una botola di accesso al tetto, vede un’unica porta sul cui battente vi è una targhetta scritta in lettere ebraiche e latine: Dottoressa Dvorah Bennet, Psicanalista. Yaari non suona il campanello, ma bussa leggermente alla porta per controllare la finezza d’udito dell’anziana signora. E nonostante sembri che nell’appartamento si stia svolgendo una conversazione, e la voce della padrona di casa risuoni forte, i leggeri colpi non sfuggono all’orecchio di quest’ultima e Yaari si ritrova davanti a una donna anziana dai capelli chiari, minuta e rugosa ma dal corpo flessuoso, agile, che gli sorride allegra mentre continua a parlare nell’apparecchio telefonico che ha in mano. – SÃ, è tuo figlio, – dice, – puntuale come suo padre.
Yaari prova una stretta al cuore. È chiaro che questa «ragazzina» un tempo è stata una donna bella e attraente, e se non era proprio l’amante di suo padre, di certo è stata l’oggetto del suo desiderio. Rimane solo da scoprire se tutto questo fosse accaduto prima o dopo la morte della madre.
– È suo padre, – esclama lei sventolando con grazia la cornetta. – Ha chiamato per vedere se è già arrivato. Vuole parlargli?
– No, – borbotta Yaari spazientito, – gli farò rapporto al termine della visita.
– No, Yulik, – esclama lei nel ricevitore accostandolo all’orecchio, – tuo figlio ha deciso di parlarti solo dopo il consulto. Ciao caro, e non disturbarci piú –. Poi posa delicatamente la cornetta sul supporto e tende a Yaari una mano punteggiata da macchie scure.
– Grazie per aver accettato di venire. Non si preoccupi, so che lei è un ingegnere e non un tecnico, ma se individuerà il problema dell’ascensore potremo comunque cercare una soluzione. Suo padre ha detto che oggi non uscirà per la sua solita passeggiata ai giardini, ma rimarrà vicino al telefono nel caso lei voglia domandargli qualcosa...
– Non ho niente da domandargli, – la interrompe Yaari. – E a proposito: lei sa che mio padre è bloccato su una sedia a rotelle e la sua passeggiata la fa con un badante filippino che lo spinge?
La signora Bennet non sapeva della sedia a rotelle, per quanto ne avesse intuito l’esistenza. Sa che da anni suo padre è malato di Parkinson e si era molto arrabbiata con lui perché si vergognava della sua malattia e aveva smesso di venirla a trovare. Che c’è da vergognarsi? Anche il tremito del corpo è una cosa naturale.
Yaari la trafigge con lo sguardo.
– Lui la veniva a trovare?
– Certo. Dopo la morte di sua madre eravamo piú che amici... per quanto l’età ce lo permettesse. Ma si sieda, prego, e prenda un tè. Cosà avrà la forza di ascoltare lo scricchiolio del mio ascensore. È tutto pronto, non le porterà via molto tempo.
Sul tavolo da pranzo del soggiorno, accanto a una hanukkiah allestita per la sera con cinque candele, sono posate due luccicanti tazze bianche, una zuccheriera, alcune bustine di dolcificante, scatole di tè di vari gusti, una ciotola con biscotti e una con cioccolatini. Sul tutto domina un vaso stracolmo di fiori.
– Grazie, ma ho già bevuto qualcosa in quel bar carino vicino alla Knesset.
– Allora non si fidava di me, – dice lei senza alcuna nota di lagnanza nella voce. – Peccato che suo padre non le abbia detto quanto sono brava a viziare gli ospiti. Sarà per un’altra volta. Ma almeno si addolcisca la bocca con un cioccolatino.
Sulle labbra di Yaari spunta un leggero sorriso. Dà un morso a un cioccolatino, si guarda intorno e non trova alcun segno dell’ascensore.
– Di certo sta cercando l’ascensore: prego, mi segua.
Lo conduce lungo il corridoio di un appartamento che si rivela essere piuttosto grande. Contrariamente alle case spesso troppo sovraccariche delle persone anziane, questa appare sobria. I mobili antichi sono tirati a lucido, non sembrano trascurati o rovinati. E anche gli appendiabiti dietro le porte sono in ordine. Al seguito di Dvorah, Yaari ne osserva i capelli bianco-biondi raccolti a crocchia sulla nuca, oltrepassa lo studio in cui fotografie di Sigmund Freud a varie età fanno capolino tra scaffali zeppi di opuscoli e libri e, superati il bagno e la cucina, entra con lei in una camera al cui centro troneggia un grande letto matrimoniale con un copriletto decorato con fiori e pavoni e sul quale sono sparsi cuscini di seta colorati.
Ma ancora non c’è traccia dell’ascensore. Dvorah Bennet si avvicina a un armadio a muro, ne spalanca le ante, quasi fosse un tabernacolo sacro, scosta una leggera grata di ferro e dietro a quella, finalmente, ecco l’ascensore: piccolo, stretto, è la concretizzazione dell’idea notturna del quinto ascensore d’angolo. Nella cabina ci sono tre pulsanti: uno verde per la salita, uno blu per la discesa, e uno rosso per chiedere aiuto in caso di emergenza.
4.
Mentre sorseggia il caffè, Daniela tende un pacchetto di sigarette al vecchio africano che, seduto davanti a lei, non le leva gli occhi di dosso. L’uomo ne prende una, raccoglie un ramoscello da una catasta di legna, apre lo sportello della stufa, dà fuoco al ramoscello e lo avvicina alla sigaretta tra le labbra di Daniela.
Dice di chiamarsi Richard, ma è impossibile sapere se quello sia il suo nome vero o gli sia stato affibbiato nel periodo in cui lavorava in una fattoria di proprietà inglese. Da anni non parla quasi quella lingua, probabilmente ne ricorda solo qualche parola, e quando qualcuno gli si rivolge, piega la testa con grande concentrazione come se incoraggiasse il suo interlocutore a riversargli addosso altre parole, fino a che gli capiti quella buona in base alla quale ricostruire il senso di ciò che gli viene de...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Colophon
- Dedica
- La seconda candela
- La terza candela
- La quarta candela
- La quinta candela
- La sesta candela
- La settima candela
- L’ottava candela
- Indice