1.
Da lontano il giornalaio sventolò verso di lui una copia di «Fisica per il popolo» e di «Ludas Matyi».
Si frugò in tasca per cercare i soldi. I quotidiani e le pubblicazioni scientifiche cui era abbonato gli arrivavano regolarmente in ospedale, mentre le riviste umoristiche non le amava; Antal possedeva un moderato senso dell’umorismo, la barzelletta estemporanea lo divertiva, le battute in serie lo annoiavano, ma non ebbe il coraggio di dire no al giornalaio che lo considerava il legittimo successore di Vince, e quando l’aveva notato per la prima volta riaprire con la sua chiave il portone della casa con la grondaia a bocca di drago aveva cominciato a gesticolare vistosamente dall’angolo come se avesse visto il fantasma ringiovanito di Vince armeggiare con la serratura e, raggiante in volto, aveva agitato in aria i giornali preferiti di Vince.
Appena aveva avuto la possibilità materiale di farlo, Antal aveva subito sottoscritto l’abbonamento ai giornali, Vince era un cliente esemplare, era un’abitudine che aveva preso al tempo del prepensionamento forzato. Antal non aveva mai confessato al giornalaio che gli faceva pagare due volte le riviste: il giornalaio voleva bene al giudice.
La casa aveva assunto faticosamente la forma che Antal desiderava, all’inizio era stata soltanto un peso.
Mentre i muratori e i falegnami lavoravano, lui doveva correre avanti e indietro dall’ospedale per controllare che le opere procedessero regolarmente e non fu semplice neppure raggiungere un compromesso con Gica; Gica ci teneva a conservare la sua parvenza di indipendenza, facendo la fame con la sua strana attività. Dovette discutere a lungo con Gica, quasi costringerla a cambiare il suo pasto a base di minestra di farina con qualche cibo piú ragionevole. Dovette supplicare Gica, rievocare i vecchi tempi, corteggiarla finché accettò l’incarico di tenergli l’appartamento in ordine e di tanto in tanto cucinare. Non fu un’impresa facile perché Gica, come tutti nella strada, non aveva perdonato Antal per aver lasciato Iza, alla fine di ogni mese prendeva dalle sue mani il salario con l’aria di chi pensa: amministro casa sua per un gesto di pura cortesia, e lo faccio solo per l’affetto che provo nei confronti di casa Szőcs, perché altrimenti non starei mai a servizio di un uomo che è stato capace di piantare in asso una ragazza come Iza Szőcs.
Ovviamente quell’indignazione era solo una posa, cosí come fingere di continuare a guadagnarsi da vivere confezionando paramenti sacri come prima della guerra: nella maggior parte delle chiese i sacerdoti si trasmettevano in eredità le vesti gli uni con gli altri, e lei riceveva saltuari lavori grazie alla generosità di una comunità di credenti o, al massimo, per il giubileo di qualche prete. Gica era felicissima che le condizioni della sua vita fossero migliorate, aveva qualcosa da fare quotidianamente, poteva gironzolare intorno agli operai, assistere alla metamorfosi delle vecchie suppellettili dei Szőcs nei nuovi mobili, vedere la casa diventare piú confortevole e piú pratica, utilizzare gli elettrodomestici. Gica godeva in mezzo a tutte quelle occupazioni, eppure se Antal la sorprendeva rincasando inaspettato gli lanciava occhiate storte, perché era vero che Antal le dava il pane ma lei non poteva dimenticare tanto facilmente il brutto scherzo che aveva tirato alla famiglia. A Gica, in realtà, dispiaceva anche che Antal, il figlio dell’acquaiolo, si fosse impadronito della casa e ci avesse portato un’altra donna, dopo Iza.
Insieme alla casa, Antal non aveva ereditato solo Gica e il giornalaio: c’era pure Kolman.
Ogni volta che tornava a casa, prima di varcare la soglia del portone, Antal doveva bloccarsi perché il gestore del Közért usciva dal negozio sbracciandosi, correndogli incontro con una sporta piena. Da quando abitava lí, e non piú in ospedale, l’operazione della spesa s’era alquanto complicata. Gica gli aveva annunciato che Kolman l’aveva offesa, e quindi doveva togliersi dalla testa che facesse compere da lui, Kolman invece c’era rimasto male che Antal all’inizio, finché non aveva capito di offenderlo, acquistasse allo spaccio dell’ospedale i prodotti che gli servivano e li portasse a casa infilati nella cartella. Kolman una volta l’aveva bloccato in strada per spiegargli quanto patisse quella sfiducia nei suoi confronti – non aveva potuto offenderlo. «Sono davvero un enorme stupido» pensava Antal mentre consegnava a Kolman ogni mattina la stessa lista prima di recarsi al lavoro: latte, pane, burro, talvolta zucchero o sale, frutta, peperoni verdi, e la sera passava a ritirare le merci che erano state preparate per lui e messe da parte, ovviamente non era arrabbiato sul serio. Il viso di Kolman rifulgeva di buona volontà, e quelle attenzioni in realtà erano dovute piú a Vince che a lui. Chissà se d’estate avrebbe portato anche lui innesti e boccioli di rosa alle piccole venditrici come faceva Vince?
Antal prese la sporta pronta, la bruttissima sporta della mamma, quella panciuta, orribile, con le viole del pensiero ricamate su un lato che la vecchia aveva fabbricata riciclando il tessuto di un vecchio cappotto e foderata di tela cerata, era una cosa terribile. Con la cartella sotto l’ascella e la sporta infilata nel braccio, Antal aprí faticosamente il portone, lo richiuse altrettanto faticosamente, e posò subito i pacchi sul tavolo di vimini nell’androne, come era abituata a fare la mamma. Il profumo delle rose di Vince al crepuscolo era denso, come miele, il giardino splendeva ancora nella luce della sera che si avvicinava. Gica si prendeva cura dei fiori, nelle aiuole si notavano le macchie ancora fresche dell’innaffiatura. Capitano uscí sbuffando dalla legnaia, era vecchio, deforme. In fondo alla sporta c’era sempre qualche avanzo di cavolo nascosto per Capitano, ma doveva pazientare il suo turno per mangiarseli.
Ogni volta che entrava, e richiudeva il portone alle spalle, Antal si sentiva finalmente pervadere da quel senso di indicibile benessere che aveva sperato di provare acquistando la casa. Era bello ritrovarsi tra le vecchie mura, una bellezza scevra di turbamenti, il pensiero di Vince scomparso non lo addolorava piú, al contrario era qualcosa di stranamente vivo, le piante di rose, le alte pareti di mattone ricoperte di edera, conservavano il suo carattere, la sua delicata allegria. All’inizio non era stato cosí, appena trasferito in quelle stanze impregnate dall’odore aspro e sano dell’intonaco, della vernice fresca, persistevano troppi ricordi tormentosi nonostante la casa fosse cambiata da quando ci abitava con Iza, l’arredamento, l’aspetto generale, erano diversi, con il legno dei vecchi mobili, aveva fatto costruire dei tavolini leggeri, intelligenti, e delle sedie comode, la casa aveva assunto un aspetto piú giovane, in un certo senso piú moderno, cancellando quella piacevole atmosfera fuori dal tempo caratteristica dei Szőcs.
Iza era un fantasma piú tenace del morto vero, o della vecchia, che se n’era andata via da lí con il volto pieno di speranza, tenendo stretta la mano di Iza, quasi avvinghiata alla sua gonna. Nei primi tempi si era pentito di non aver acquistato con la somma risparmiata in tanti anni di sacrifici, neppure cosí piccola, un appartamento nei nuovi palazzi in condominio costruiti alla Fossa dei Balsami, sarebbero stati sgombri di ricordi e pure piú vicini all’ospedale rispetto a quella casa in città. Camminava avanti e indietro in quelle stanze appena riarredate con la sensazione di essere sempre fuori posto. Ogni suo passo era accompagnato da uno strano, duplice sguardo: i vecchi mobili che Iza gli aveva venduto per un tozzo di pane, avevano perso da molto tempo l’aspetto originale, erano stati trasformati, adattati al nuovo ambiente, i muri erano ricoperti da scaffali pieni di libri, eppure erano dovute trascorrere settimane prima che si sentisse a casa propria, prima di non pensare piú, ogni volta che apriva la porta di un armadio a muro, questo è il legno del cassettone dove una volta Iza teneva la biancheria. In passato Iza gli era stata troppo vicina per poterla dimenticare cosí facilmente. I lavori di ristrutturazione, dei falegnami e dei tappezzieri si erano protratti fino a metà estate benché gli artigiani con i quali aveva stipulato i contratti fossero suoi ex pazienti e avessero agito con parecchio fervore per fargli piacere; era riuscito a traslocare solo alla fine di giugno, ma aveva dovuto aspettare agosto prima che Iza si ritraesse lentamente in mezzo ai ricordi, dietro all’amato sguardo curioso della vecchia, alle sue dita agili e diligenti, ai piccoli occhi saggi di Vince che brillavano sotto il berretto con la visiera.
Di Iza non gli erano rimaste immagini altrettanto delicate, simpatiche, quando lei, talvolta, gli veniva in mente nel letto e sentiva l’eco di una sua parola o di una sua frase che giungeva da qualche lontano momento del passato, era sempre un ricordo serio.
Poi anche Iza era passata, come tutto quanto, come tutto il resto.
Capitano lo seguí sbuffando sui pochi scalini che conducevano in casa. La posta arrivava sempre in ospedale, lí recapitavano solo rari cartoncini pubblicitari di qualche artigiano che offriva servizi, quel giorno non c’era niente. Antal era stanco, aveva alle spalle una dura giornata, si divertí al pensiero che il sistema nervoso fosse capace di giochetti davvero bizzarri: se Lidia non avesse avuto il turno di notte lui non si sarebbe sentito tanto spossato, e sarebbero andati a vagabondare insieme per le strade, o a sedersi in un chioschetto nel bosco e avrebbero chiacchierato come le altre sere libere fino all’alba. Ma Lidia era impegnata, e cosí cominciò a sentirsi irresistibilmente attratto dal letto, cosa che gli accadeva se non c’era nulla piú importante di cui occuparsi, come un malato appena ricoverato, un paziente in agonia, un articolo che aveva tempo di scrivere solo di notte, una riunione convocata per discutere una questione fondamentale. E Lidia. Lidia prima di tutto, sopra a tutto.
Fece un bagno, si cambiò d’abito. Sull’ultimo ripiano dell’armadio a muro c’erano le vecchie scatole della mamma. Iza non le aveva neanche nominate, gli venne in mente che c’erano, e si divertí a guardarle, come sempre quando apriva un armadio. Erano i nascondigli della mamma, contenevano le cose di Vince, la collezione di francobolli, gli occhiali. Avrebbe dovuto buttarle via, fare piazza pulita, ma il solo pensiero lo addolorava: quegli oggetti lo avvicinavano a esseri lontani, e nell’armadio c’era un mucchio di posto, ci stava dentro tutto, aveva portato in solaio solo i quadri brutti, privi di stile. Iza gli aveva lasciato anche l’attrezzatura da cucina al completo, vecchi utensili tenuti con cura che aveva fatto sistemare a Gica in bell’ordine nella credenza. Antal per decenni non aveva posseduto nulla, ora considerava divertente aver ereditato insieme alla casa degli oggetti cosí particolari: l’annaffiatoio, il ceppo per tagliare la legna, il crivello per setacciare il tabacco da pipa, una piccola ascia. Il crivello l’aveva lasciato di fuori, emanava un divino profumo di tabacco biondo trinciato fine, l’aveva posato in un angolo nell’ingresso accanto al bastone di Vince in legno di ciliegio e a due maestose pipe di schiuma appese al muro incrociate. Da vecchio avrebbe potuto fumare la pipa. Con quella mescolanza di antico e di nuovo, la casa aveva assunto un’aria cosí piacevolmente intima e stravagante che i colleghi di Antal battevano le mani entusiasti quando varcavano la soglia, Sanyi Vári si mangiava le mani per essersi comprato una garçonniere al quinto piano di un condominio nuovo. Con la cifra che aveva speso avrebbe potuto prendersi la casa di Antal con tutto quanto. La nuova casa era spiritosa e intima.
Capitano reclamò il cibo, glielo dette in cucina, là dove un tempo lo faceva mangiare la mamma, anche lui si mise a cenare, mangiò un kefir, lentamente, accompagnandolo con il pane che gli aveva tenuto da parte Kolman, mordicchiandolo gustosamente. Ormai considerava naturale portare l’anello al dito, all’inizio del loro fidanzamento lo sguardo gli cadeva continuamente su quel cerchietto brillante, per giorni si era sentito confuso, non riusciva neanche piú a lavarsi le mani come prima, ma non aveva voluto contrariare Lidia. – Mi piace pensare che appena qualcuno ti guarda capisce che sei impegnato! – gli aveva detto Lidia. Iza non aveva mai avuto bisogno di anelli, disprezzava i simboli, Lidia, se avesse potuto, avrebbe appeso ai muri i manifesti con su scritto che era la sua fidanzata. La ragazza talvolta era gelosa – un sentimento che Iza era semplicemente incapace di provare –, ovviamente non c’erano motivi, le bastava ricordare che Antal viveva con un’altra nei primi anni in cui si erano conosciuti. Talvolta bisticciava con lui, poi faceva pace, e il suo viso splendeva di felicità e passione. Antal sapeva che in casi estremi Lidia avrebbe anche potuto uccidere per lui, o sacrificare la propria vita pur essendo terrorizzata dalla morte. L’amore di Lidia, privo di autodifese, era un’esperienza che non aveva mai provata prima, i suoi sentimenti rispondevano alla dedizione della ragazza con un abbandono altrettanto totale, altrettanto innocente.
Nelle prime settimane della loro relazione, dopo l’episodio della foto del mulino, e dopo che Iza aveva tentato di darle dei soldi, si era sforzato di vincere il riserbo e il disciplinato silenzio che avvolgevano la fanciulla come fossero un mallo. E quando la vera Lidia era emersa da sotto quegli strati, con Gyüd, con il prato delle mandrie, e con la passione amara, capace di incendiare ogni cosa, che gli riservava, ad Antal era sembrato di essere un viaggiatore in terre straniere che all’improvviso si sente chiamare nella propria lingua madre. Aveva risposto subito alla ragazza, con l’anima e con il corpo.
Avevano annunciato il loro fidanzamento lí in cucina. Alla festa di inaugurazione della casa le invitate erano esplose in gridolini di giubilo quando Antal aveva fatto tintinnare gli anelli sulla credenza. Se tutti all’epoca avevano immaginato che la coppia Antal-Szőcs prima o poi si sarebbe sposata, nessuno ora immaginava che tra il medico e l’infermiera le cose fossero giunte a un punto cosí avanzato. Antal aveva sempre qualche donna, pensavano, e quello era il turno di Lidia. Mentre stappava lo champagne gli era venuto in mente che gli antichi abitanti della casa non sarebbero stati affatto disturbati da quell’atmosfera di rilassata allegria; Vince era felice di vedere la gente ballare e cantare, e avrebbe volentieri offerto agli ospiti la palinka di noci che distillava con le proprie mani, mamma sarebbe stata fuori di sé dalla gioia di avere tanta gente da loro, come ai tempi in cui viveva da zia Emma, quando era ancora una ragazzina con i capelli lunghi e arrossiva per un nonnulla.
Iza sarebbe stata l’unica – aveva pensato allora – a sostenere che festeggiare il fidanzamento, scambiarsi anellini, fosse tempo sprecato, inutili sciocchezze. Pur essendo sempre rimasto accanto a Lidia, quella notte si era sentito piú vicino che mai alla ex moglie. Nel mezzo delle libagioni, quando Sanyi Vári aveva cominciato a suonare la chitarra e intonare C’è una piccola casetta in riva al grande Danubio con un ritmo completamente diverso da quello della vecchia canzone popolare, aveva preso la ragazza per mano e l’aveva portata a camminare nei sentieri del parco. Il focolare domestico, l’unico vero focolare che avesse mai conosciuto, era rinato tra quelle mura, e stavolta senza l’intervento di Iza; era frutto del suo solo lavoro, la ricompensa di tante notti trascorse a fare un’infinità di cose, sognando una casa, esattamente quella lí, con il bastone di Vince in legno di ciliegio e Capitano che fuggiva dagli ospiti per rifugiarsi nella legnaia e ansimava con il suo respiro asmatico, come sempre quando era offeso. Lidia camminava silenziosa al suo fianco, lasciando che mettesse ordine tra i ricordi dentro di sé. Iza era il soldato, il compagno di sventure che aveva percorso un pezzo di vita insieme a lui. Di Lidia, appena aveva cominciato ad amarla, non aveva pensato che l’avrebbe accompagnato o seguito: lui e Lidia, in qualche modo, erano una cosa sola, anche quando camminavano, se dovevano cambiare direzione, o girare da una parte, lo facevano d’istinto senza bisogno di parlarsi.
Finí di mangiare. Gli era sempre piaciuto gingillarsi con i piccoli gesti quotidiani, aprire una latta di conserva, apparecchiare la tavola, rigovernare la cucina dopo cena, Iza un po’ li disprezzava, lui li considerava invece la gioia dei giorni sereni, in un certo senso la loro intima magia: significavano che c’era qualcosa da mangiare, e il qualcosa che mangiava se l’era comprato lui, non l’aveva ricevuto da nessun altro. Aprí i cassetti, li richiuse, mise in ordine, non lasciava mai stoviglie da lavare a Gica, provava un certo senso di vergogna perché lí c’era l’acqua calda. La casa, con la tavola apparecchiata e il letto rifatto, era un suo vecchio miraggio, e quando viveva al convitto spesso si chiedeva se quel suo sogno si sarebbe un giorno realizzato. Antal aveva vissuto in condizioni di tale povertà che c’erano due soli modi possibili per reagire alla primitiva miseria: o levarsi dalla mente ogni fantasia di possedere una casa e di costruirsi una famiglia all’antica, oppure sviluppare quel desiderio piú forte degli altri. Fidanzandosi con Iza aveva avuto la certezza di trovare nella casa di Vince ciò che cercava. Quando la vecchia gli aveva consegnato per la prima volta la chiave del portone s’era illuminato di gioia.
In primavera, quando aveva comunicato a Iza il desiderio di acquistare la casa, aveva scorto sul suo viso una lieve espressione beffarda, come se volesse dirgli, non voglio rovinarti il piacere, tu sarai sicuramente contento di versare l’imposta di proprietà sull’abitazione, e probabilmente c’è qualcosa di stupendo anche nel fatto che questa sia la prima casa dove hai vissuto, ora sarà tua completamente, non avrai piú vincoli, non dovrai piú abbassare la voce per parlare e potrai fare l’amore nella tua stanza senza paura che i due vecchi sentano. Iza era una persona con i piedi per terra, dimostrava sempre estrema sicurezza, al punto che talvolta lui si domandava se indossare vestiti come gli altri comuni mortali o riscaldare la stanza dove si trovava non fossero uno spreco perché la sua volontà e la sua forza di carattere sembravano sufficienti a proteggerla dal freddo e dalle intemperie. La definizione di vita borghese era stata inventata per persone piú deboli di lei.
Antal era contento di quel che aveva raggiunto nella vita, lo ammetteva scopertamente, senza false modestie.
Dorozs, quando era nato lui, era un villaggio insignificante, la casa nella quale era venuto al mondo, vicino alle fonti termali, era torrida e puzzava sempre di zolfo. Antal non ricordava sua madre che un giorno era scomparsa dalla loro vita. – È andata in città – aveva detto la nonna con un tono vago. Piú tardi, da adulto, Antal aveva sospettato la ragione della sua partenza per la città e anche la fine che probabilmente aveva fatto, piú di una ragazza del villaggio era sparita nello stesso modo senza lasciare traccia.
Suo padre invece l’aveva conosciuto, l’aveva anche visto morire, suo padre, come la maggior parte degli uomini di Dorozs, andava in città sui carri di Dániel Bérczes, non faceva il carrettiere, ma l’acquaiolo, al villaggio chiamavano cosí l’uomo che scortava il carro-cisterna, misurava la quantità d’acqua ordinata e la portava nelle case dei clienti. Dániel Bérczes pagava un affitto a Dorozs per avere in concessione le fonti e aveva centocinquanta carri che giravano nella contea. Per aprire la pancia della grande cisterna di legno piena d’acqua termale occorrevano abilità a coraggio, l’acqua era rovente come l’inferno, e quando l’acquaiolo trafficava con la cisterna, sollevava la cannella, faceva colare l’acqua nel secchio di legno, la portava nei bagni e nelle tinozze delle case, conveniva mantenersi a debita distanza per non riceversi addosso qualche schizzo bollente. Bérczes non sostituiva mai i carri, alcuni erano seriamente danneggiati, il legno era marcio. Il padre di Antal era morto cosí: un giorno, prima di partire per uno dei suoi viaggi sulle solite strade accidentate, si era accovacciato sotto la cannella per aggiustarla, il carro si era squarciato a metà e l’acqua bollente si era rovesciata sulla sua schiena. Lo avevano portato a casa, non aveva piú ripreso conoscenza ma per qualche strano motivo aveva continuato a urlare ingiurie finché gli era restato un filo ...