Assunta e Alessandro
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Assunta e Alessandro

Storie di formiche

  1. 144 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Assunta e Alessandro

Storie di formiche

Informazioni su questo libro

Alessandro ha sempre la testa fra le nuvole: è impiegato alle Ferrovie dello Stato ma scrive racconti per il «Corriere dei Piccoli», è marito e padre di famiglia ma sembra dare il meglio di sé negli scherzi e nelle chiacchiere con gli amici. Nella sua vita però, quando è stato necessario, non sono mancati piccoli atti di eroismo, come quando, durante la prima guerra mondiale, è riuscito coraggiosamente a evitare una tragedia in caserma, o come quando diffondeva l'«Avanti!» nella Roma occupata dai tedeschi.
Assunta ha sempre i piedi per terra: concreta, precisa, volitiva, per non dire testarda. Ama la campagna, le persone umili, gli animali. Ama il lavoro silenzioso e le cose essenziali, il figlio prima di tutto.
La storia di Assunta e Alessandro è la vicenda umana di due italiani lungo gran parte del Novecento. È la storia delle loro origini, delle loro formazioni, del loro incontro, del loro matrimonio, della loro felicità e delle loro delusioni. Raccontata dal figlio, che un po' fa lo storico familiare, un po' divaga e commenta con ironia: due strategie complementari per distanziare la commozione. Così come il ricordo doloroso della vecchiaia dei genitori, e delle loro morti, mantiene tutto il calore affettivo ma riesce a trasformarsi in alta meditazione di stampo classico, cercando di inseguire il senso che si cela dietro alla vicenda di ogni esistenza.
Ma nel libro c'è, fortissima, la presenza di un ulteriore protagonista dopo Alessandro, Assunta e l'ombra del narratore. È la città di Roma, che pulsa nelle descrizioni e nei ricordi dando ritmo a tutta la narrazione. Una Roma non da cartolina, collettore affettivo, legame fra generazioni diverse e simbolo difficilmente superabile degli infiniti avvicendamenti umani.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2010
Print ISBN
9788806200008
eBook ISBN
9788858404096

1.
Gennaio

Mio padre Alessandro è nato l’8 luglio 1897. È nato? Mio padre è scomparso (sul tempo e il significato del verbo in questo caso non possono esserci dubbi: vuol dire uscito di scena, finito, annullato, ora e per sempre) piú di trent’anni fa. Non sarebbe piú corretto dire: era nato? Dipende. Dipende dai punti di vista. Per me mio padre è piú presente oggi di quando era vivo. Il fatto è che, quanto piú il tempo allontana, tanto piú la memoria avvicina. Quel che si trova all’inizio della storia, – di qualunque storia, – posso ora perfino immaginarlo nei particolari, quasi toccarlo con mano; il resto a poco a poco sbiadisce e diviene sempre piú indifferente e inafferrabile: troppo vicino per assumere un senso. Se il lato affettivo della questione non fosse sufficiente, verrebbero in soccorso i primi, e fondamentali, elementi di sapienza grammaticale e sintattica. Nell’autunno del 1943, in una prima media di una modesta scuola periferica a Roma, la professoressa Spena ammoniva: «Tra il presente e i tempi del passato i grammatici e gli scrittori antichi ponevano il “presente storico”: il tempo di ciò che, stato una volta, sarà per sempre». Continuava la Spena: «Ragazzi, ricordatevelo bene. Il “presente storico” è il tempo della storia che non passa: serve a ricordare gli avvenimenti come se fossero ancora davanti ai nostri occhi. Cesare lo usa continuamente nel De bello gallico» (veramente, «veni vidi vici»: e allora?; misteri e contraddizioni anche della piú perfetta creazione intellettuale che ci sia, la logica scolastica). Intorno un mondo stava crollando, nelle strade intorno alla media Margherita di Savoia crepitavano ogni mattina gli spezzoni incendiari di cui i cacciabombardieri alleati annaffiavano abbondantemente la Città Eterna (e noi, protendendoci dai banchi su cui erano diligentemente disposti manuali di algebra e testi latini, potevamo vederne i bagliori bluastri attraverso i finestroni rettangolari), lugubri personaggi vestiti di nero passeggiavano dappertutto con la pistola in mano a difendere selvaggiamente gli ultimi resti di un potere abominevole e diruto: e la professoressa Spena (destinata piú avanti a essere epurata, ma solo per un anno, probabilmente perché era stata fascista, ma poco) continuava ad ammonirci, fra un sussulto di paura e l’altro: «Quando la storia è forte, è sempre presente: è qui con noi, ragazzi, la dobbiamo sentire come se la stessimo vivendo». L’Impero, di fatto, era finito rovinosamente appena due anni prima in un luogo lontanissimo e dal nome favoloso, Amba Alagi; ma la sua ombra imperitura si stagliava ancora sui colli fatali di Roma.
Ricominciamo da capo, aggiungendo qualche utile particolare. Mio padre Alessandro è nato ad Ancona l’8 luglio 1897. Di famiglia bolognese, trascorre l’infanzia e l’adolescenza fra Ancona e Bologna. Il padre Angelo è ferroviere. Questo è un dato particolarmente importante. Anche Alessandro (detto famigliarmente Sandro) lo sarà. Lo era stato (e si tratta ovviamente di una pura combinazione, ma anche le combinazioni, come vedremo, contano qualcosa) anche il padre di sua madre, Angela Gottardi, che veniva da Fara d’Isonzo e aveva servito come cantoniere sulle strade ferrate dell’imperial-regio Governo. Per mio padre le Ferrovie dello Stato divengono presto (e restano a lungo) una ragione di culto e un motivo d’orgoglio. Ripete a ogni piè sospinto d’esser nato in treno sulla «tratta» Bologna-Ancona. Lui fa parte ab origine della componente impiegatizia della Corporazione; ma ha un rispetto estremo, una vera ammirazione, per il cosiddetto «personale viaggiante», quello che fa andare sul serio il sistema, macchinisti, conduttori, manovali, controllori, – e cantonieri, appunto. Il fratello di sua madre Angela, Amerigo, figlio dell’isontino, è anche lui un macchinista, in forza al Deposito Locomotive di Ancona. Io stesso, condividendo a pieno l’orgoglio paterno, ho fatto in tempo ad ammirare, seguendolo da bambino in molti dei suoi viaggi di lavoro, il gigantesco Controllore Capo, elegante nella sua divisa scura e plurigallonato, entrare negli scompartimenti, suscitando il massimo rispetto di tutti e la fremebonda aspettazione dei pochi dotati d’un biglietto di rango inferiore o addirittura privi del tutto (miseranda condizione!) di qualsiasi «titolo di viaggio». Oggi quei miseri e trasandati impiegatucci, che si presentano a chiedere il biglietto sugli Eurostar, treni di lusso che del resto vanno a pezzi anche loro, ostentando un fragile e pudibondo rispetto per gli intoccabili «clienti», di qualsiasi tipo e natura essi siano, mostrano di non conservare la piú pallida memoria di quell’età aurea del personale viaggiante ferroviario italiano.
Nella prima foto che si possiede di lui appare come un pingue bamboccio (un anno, un anno e mezzo?), con un vestitino lungo e un elegante volant merlettato che gli cade dal collo sul petto, appoggiato con ambedue le mani al seggiolone alto su cui è stato depositato, sorridente accanto alla sorella Gallavidova, maggiore di lui di due o tre anni. Gallavidova? e che razza di nome è Gallavidova? Dubbi anagrafici per altro non ce ne sono: sí, Gallavidova, anzi, piú esattamente (non lo avevamo esplicitato finora, lo davamo scioccamente per scontato), Gallavidova Asor-Rosa, per fortuna detta piú semplicemente in famiglia Vida. Fasti e nefasti di nomi e cognomi astrusi e quasi indicibili: Sorrosa? Sora Rosa? Asso Rosa? Asino Rosa (come da cantilene infantili fastidiosissime prolungate nel corso di tutte le classi elementari e persino di qualche stupida media superiore)? Per non parlare degli imbarazzanti equivoci sessuali, cui lo sfuggente cognome può aver dato luogo: ad esempio, finire sugli elenchi alfabetici di una qualche classe scolastica di recente formazione come Asor Rosa, punto e basta, e cioè, in effetti, come una Rosa Asor, ripeto, una Rosa Asor, dal cognome comunque bizzarro, ma al tempo stesso indubitabilmente femmina: e dover spiegare faticosamente e vergognosamente a una platea di libidinosi compagni («accidenti, ragazzi, in classe ce sta ’na donna!») d’essere l’oggetto assolutamente renitente di tali adolescenziali desideri. Vale la pena, penso, di sciogliere ora il modesto enigma, prima che sia troppo tardi.
Intorno al 1821, in Bologna, un certo signor Giuseppe Rosa (paradossi dell’onomastica: di nomi cosí comuni potrebbero invece essercene a migliaia), di professione, si dice, mugnaio, procrea un figlio illegittimo, che però, fortunatamente, non ha il coraggio di affidare alla ruota: perciò lo riconosce, ma, per dargli un senso tangibile e inequivoco sia del rapporto sia della differenza, prepone, con forte, anche se presumibilmente involontaria, immaginazione simbolica, al proprio cognome il suo contrario: e cosí, via, palindromi per sempre. Dunque, sarebbe lecito dedurne che gli Asor-Rosa (ora Asor Rosa) facciano parte di una stirpe che fu originata da un figlio di buona donna? Per quanto l’ammissione mi costi, sí, è cosí, proprio cosí (sebbene i lontani discendenti di quella colpevole unione ne siano innocenti del tutto, com’è ovvio). E come si chiama il primo e incontestabile figlio di buona donna, l’erede palindromico dello sconsiderato ma dal cuore tenero Rosa Giuseppe? Alessandro, naturalmente. Alessandro, ma con l’aggiunta di un Pietro (cioè, per intenderci, Alessandro Pietro, il che fa pensare, anche se non ce n’è prova, ad altri antenati ancora piú lontani). Il qui nominato (tanto per restare in regola con l’eloquio anagrafico) Alessandro Pietro sposa una Gallavidova Guizzardi (con questo rischiamo di finir parenti di un qualche personaggio di Gianni Celati), e ne ha ben sette figli, tra cui Angelo, il quale ai suoi due figli a sua volta dà, come un tempo giustamente si faceva, i nomi di sua madre e di suo padre: Gallavidova e Alessandro, appunto. Chiaro ora, no?
Da questo semplice (e complicato) punto di partenza, potremmo andare in tutte le direzioni all’infinito. A lungo i discendenti maschili della piccola e un po’ bizzarra stirpe, – di preferenza i primogeniti o i nati maschi soli, ma non solo, – prendono i nomi propri dei loro progenitori, che, a partire da Alessandro Pietro, iniziano quasi tutti con la lettera A. Quando poi, per i gran giochi del caso e della sorte, anche le signore che si coniugano con gli Asor-Rosa hanno, – come in parte già sappiamo e come in parte vedremo, – nomi propri che cominciano con la medesima lettera (Angela Gottardi, Assunta Fogliuzzi), l’orgia di questa ossessiva primazia alfabetico-anagrafica esplode in tutta la sua virulenza: Alessandro, figlio di Angelo e di Angela (addirittura!), marito di Assunta, padre di Alberto, tutti alla fin fine, a causa della secolare difficoltà delle donne a conservare da sposate il loro cognome da ragazze, Asor-Rosa, dove, per colmo di strazio, con la A si comincia ma anche si finisce (per forza, se no che palindromo sarebbe?), per cui A, A, A, A, e poi A, e poi, arrovesciandosi, ancora A… Che noia, sembra di ascoltare il monotono martellare di un vecchio disco inceppato, ovvero lo stupido, saltellante refrain di una canzonetta infantile nonsense
Poi il cerchio imprevedibilmente, non si sa né come né perché, s’allarga, ci si lascia alle spalle la terricola, nebbiosa, pedemontana e un po’ noiosa Bologna, la vicenda assume una inaspettata dimensione transatlantica. A un fratello maggiore di Angelo, dal nome anch’esso emblematico di Augusto Alessandro, nascono numerosi figli, tre dei quali, – Margherita, Angiolina ed Enrico, – emigrano ai primi del Novecento negli Stati Uniti, sposandosi con i rispettivi promessi pochi giorni prima della partenza (per non incorrere, suppongo, in altri rischi d’illegittimità) a Quinto a Mare vicino a Genova (da Quarto, com’è noto, erano partiti solo qualche decennio prima i Mille: evidentemente la progressione numerica del nome geografico sta a indicare la differenza che passa storicamente in Italia fra insurrezione ed emigrazione), Margherita e Angiolina l’una a fianco dell’altra il 26 gennaio 1905, Enrico il 2 giugno 1913. Negli Stati Uniti, paese pratico e poco incline ai giochini onomastici degli immigrati, il palindromo si dissolve, la Rosa va in malora, l’Asor basta e avanza, e per giunta sembra quasi autoctono (Enrico Asor-Rosa diventa, e resta, Henry Asor). Ma queste tracce portano troppo lontano, ci gira la testa solo a pensarci, le lasciamo a qualche generoso ricercatore d’Oltreoceano.
Felicemente ignaro di tutte queste complicazioni, se non per il lato che già da allora riguarderà le beffe dei suoi compagni di scuola, Sandrino, – palindromo ormai di quarta generazione, senza ovviamente neanche saperlo, – frequenta la prima e la seconda elementare (1903 e 1904) presso la scuola Carlo Faiani di Ancona, con buoni risultati. Qualche anno piú tardi, il 27 aprile 1908, riceve l’attestazione di Lode di II Grado. Nel medesimo anno gli si riconosce un particolare talento nella Gara di lettura (attestazione premonitrice di fasti futuri). Meno brillanti quelli presso le scuole elementari e poi gli istituti tecnici di Bologna, dove la famiglia è tornata seguendo gli spostamenti dell’impiegato ferroviario Angelo, e che comincia a frequentare nel 1908-909.
In una nota della pagella del primo trimestre presso l’Istituto-Convitto Ungarelli si legge: «fa bene ma bisogna applicarsi con maggiore serietà». La ripetitiva ovvietà dell’affermazione non nasconde qualche piccola verità. Il fatto è che il bambino, facendosi adolescente, si è lasciato appassionatamente attirare, negli anni che vanno dal ’10 al ’14, dall’esercizio fisico, e in modo particolare dal nuoto e dal foot ball, ambedue in quel momento in una fase di entusiasmante sviluppo. Il 25 marzo (1912?) la squadra del Bononia F.B.C. incontra quella del G. Pico della Mirandola, e, contro tutte le previsioni, la batte 3 a 1. Siamo in grado per la precisione storica, – che è sempre un valore, qualunque ne sia l’oggetto, – perfino di esibire la formazione della squadra vincitrice, di cui gli esperti riusciranno facilmente a scoprire la perfetta, classica organizzazione metodista: portiere, Gamberini; terzini, Villa e Bernagozzi; mediani, Vitali, Barbacci, Asor-Rosa; attaccanti, Monesi A., Monesi D., Biagi, Giacometti, Moggio. Per l’orgoglio della famiglia, che non ne ha molti da rivendicare, capitano della squadra risulta proprio Asor-Rosa. La partita si svolge «alla presenza di molto pubblico fra il quale brillavano eleganti signorine». Nella foto commemorativa che per l’occasione la rappresenta, la squadretta, affiancata da un azzimatissimo arbitro, anche lui adolescente, appare un po’ raffazzonata e sdrucita: le maglie dominanti sono a righe verticali bianche e (suppongo) rosse; ma ce ne sono anche del tutto bianche, e uno dei componenti ce l’ha a righe nere e blu. Ai piedi scarponcini visibilmente usati di tutti i giorni e calzettoni lunghi. Sandrino quindicenne tiene le mani ai fianchi, un po’ spavaldamente, con un gesto che gli resterà abituale e sulla bocca ha quel sorriso impacciato ma simpatico che da un anno di età fin quasi a settantasei (quando, appunto, conquista il diritto di entrare per sempre e senza piú dubbi nel «presente storico») lo accompagnerà, dandogli una fisionomia inconfondibile. Nel nuoto primeggia nelle gare di resistenza. Fa parte fin dalla fondazione della leggendaria Rari Nantes Aemilia di Bologna. Però, ad abundantiam, il 25 ottobre 1912 risulta iscritto anche alla Società Sportiva «Libertas» di Bologna, sezione Foot Ball. Da una cronaca sportiva del tempo: «Durante la festa del villaggio, svoltasi ieri ai Giardini Margherita, si sono tenute due gare di nuoto nel laghetto dei giardini medesimi, che non è certo un campo ideale, essendo povero di acque e per giunta col fondo in cui abbondano le alghe». Nonostante le difficoltà ambientali Sandro arriva terzo nella gara dei 400 metri.
Come che sia, le cose a scuola non vanno piú tanto bene. In prima Ragioneria, frequentata presso la sezione D dell’Istituto tecnico governativo Pier Crescenzi di Bologna, il ragazzo viene respinto: siamo nel 1912. Evidentemente ripete la prima, e passa in seconda, ma anche in seconda viene respinto. Il risultato dello scrutinio finale gli viene comunicato il 24 ottobre 1914. Nel luglio di quell’anno è scoppiato il conflitto fra Austria-Ungheria e Germania da una parte, e le potenze della Triplice Intesa dall’altra (destinato a passare alla storia, quando, fortunatamente, per arricchire nella maniera piú piacevole la varietà delle vicende umane, ce ne sarà una seconda, come Prima guerra mondiale). Il 20 ottobre, mentre Sandro tenta senza successo i suoi ultimi esami, si riunisce a Bologna la Direzione del Psi, che ribadisce la posizione neutralista del partito, respingendo l’apertura interventista di Benito Mussolini.
Cosí si conclude la carriera scolastica di Alessandro Asor-Rosa (su questo non ci sono dubbi: nell’Annuario dell’Accademia militare di Modena di due anni dopo, nella colonna «titolo di studio» che corrisponde al suo nome, troviamo scritto per l’appunto: «2° anno di Istituto tecnico», conseguito a Bologna). Su questo aspetto della storia di Alessandro si potrebbero fare molte considerazioni. Ecco le mie. Ho la massima considerazione per la categoria dei ragionieri, dalle cui competenze è spesso dipesa la mia sopravvivenza, materiale e quindi psichica. Ma Alessandro ragioniere, no, proprio non ce lo vedo. Preferisco pensarlo come un giovane intellettuale di primo Novecento, frustrato nelle sue aspirazioni dalle circostanze avverse e dalle scelte sbagliate dei suoi genitori. D’altra parte, era assai difficile che il figlio di un applicato di terza classe presso le Ferrovie dello Stato potesse aspirare in quel momento a qualcosa di piú che a un solo, semplice scatto sociale, quello che per l’appunto gli sarebbe stato consentito dal conseguimento di un diploma d’Istituto tecnico. Ma questo passaggio migliorativo Alessandro, leggendariamente sprovveduto sul piano pratico, o non vuole o non sa farlo oppure non se ne accontenta: ricominciando anche lui da capo, e per giunta, come vedremo, nella maniera, per lui e per tutti, piú imprevista.
Intanto la famiglia si trasferisce a Roma, dove il nonno Angelo, noto per la sua infaticabile operosità, è stato chiamato addirittura al Ministero dei Trasporti, e va ad abitare in via Caserta 5, in un quartiere di modeste ville e villette suburbane, a ridosso della cerchia delle Mura Aureliane (a un passo da piazza della Croce Rossa, dove si trova da sempre il Ministero dei Trasporti, facilmente raggiungibile ogni giorno a piedi). E Alessandro, a poco piú di diciassette anni, entra anche lui come avventizio presso le Ferrovie dello Stato, proprio nei mesi in cui il grande conflitto accende l’Europa.

2.
Febbraio

La famiglia di Alessandro è di orientamenti laici e anticlericali, vagamente socialisteggianti. Figuriamoci: lui non è stato nemmeno battezzato. Nonno Angelo ha votato sempre per i radicali e piú recentemente per i socialisti. Lo zio Amerigo, il fratello di Angela, è un fervente militante socialista e un organizzatore del Sindacato Ferrovieri, il leggendario Sfi. Piú o meno Alessandro la pensa come i suoi. E però rendiamoci conto di quali anni stiamo parlando: nel 1914 Alessandro ha diciassette anni, diciotto nel ’15. L’ondata interventista è in pieno svolgimento. Alessandro fa raccolta di documenti che incitano alla guerra, li conserva e li fa circolare fra i suoi amici. I toni sono tesi, esaltati. L’Italia agli Italiani, titola un volantino stampato a Piazzola sul Brenta il 24 dicembre 1914. Una cartina storico-geografica illustra il significato della parola «italianità» in tale linguaggio: il Trentino e l’Alto Adige fino al Brennero; Trieste, il Friuli orientale e l’Istria, compresa Fiume; tutta la Dalmazia fino al fiume Narienta, poco a nord delle Bocche di Cattaro. L’Associazione nazionalista preme invece sul tasto dolente delle grandi frustrazioni nazionali: «Tutti i grandi popoli sono arrivati alla loro grandezza attraverso la guerra … L’Italia sola non ha combattuto che poco e male. L’Italia ha fatto da sola una sola grande guerra, quella del ’66, ed è stata vinta … Ci tengono per una Nazione di burattinai e di suonatori ambulanti. Vogliamo contentarci in eterno di questa fama? No! E allora mostriamo al mondo che sappiamo essere anche soldati. Abbiamo bisogno dell’ordine e dello spirito militare dei Tedeschi. Li conquisteremo se faremo anche noi la guerra come i Tedeschi per secoli hanno fatto. Guerra dunque alla Germania e all’Austria!» I grandi letterati nazionali scendono in campo oppure ne viene richiamato l’insegnamento postumo a sostegno della campagna guerriera. In un volantino dell’Associazione Trento-Trieste, sezione di Roma, tuona il vocione di Giosue Carducci: «Guglielmo Oberdan ci getta la sua vita, e ci dice: Eccovi il pegno: l’Istria è dell’Italia. Rispondiamo: Guglielmo Oberdan, noi accettiamo. Alla vita e alla morte. Riprendemmo Roma al papa: riprenderemo Trieste all’Imperatore. A questo imperatore degli impiccati». E in un ampio foglio pergamenato, litografato affinché appaia come manoscritto, dell’Agenzia Nazionale il 13 maggio 1915, Gabriele d’Annunzio ammonisce minaccioso: «Che la stampa romana ci aiuti a impedire, con tutti i mezzi, che un pugno di frodatori riesca a disonorare l’Italia». L’allusione è chiara ma un volantino del Comitato d’Azione per l’Intervento Italiano provvede comunque a decodificarla: «Giovanni Giolitti, sapendo tutto questo, ha cercato d’impedire che l’Italia mantenga il suo impegno d’onore, e, pagato dalla Germania per mezzo del Princ. di Buelow, ha tentato di assassinare la Patria e di venderla all’Austria. In forza di ciò, davanti alla Maestà del Popolo di Roma, accusiamo Giovanni Giolitti di alto tradimento, e lo indichiamo al disprezzo e alla vendetta pubblica».
Il giovanissimo Alessandro ascolta, legge, discute, oscilla, si fa persuadere. Anche lui, come un’infinità di altri piccolo-borghesi della sua generazione, arriva a pensare che la guerra sia un bene o quanto meno una necessità per l’Italia. D’altra parte, una delle correnti irredentiste e interventiste piú accese affonda le sue radici nelle tradizioni del Risorgimento italiano (in fondo l’Italia in quel momento ha appena cinquant’anni: un tempo incredibilmente breve nella millenaria storia europea): bisogna finire di fare l’Italia; insieme con l’Italia è arrivato finalmente il tempo di fare gli Italiani; tutti gli Italiani con gli Italiani, come ai tempi dei Mille o, come diceva Carducci, della liberazione di Roma: va compiuta insomma l’opera dei padri, e loro, i giovani, sono lí apposta per farlo.
Non sappiamo esattamente come si realizzi in concreto la scelta militare di Alessandro, se per opzione volontaria o per semplice chiamata di leva. Fatto sta che il 16 giugno 1916 il giovane inizia il corso presso l’Accademia militare di Modena per diventare allievo ufficiale. L’Annuario dell’Accademia dell’anno 1916 c’informa che si tratta del quinto corso dall’inizio della guerra: ognuno di essi ha sfornato da 2500 a 3000 allievi. I corsi dovrebbero durare di regola sei mesi: in realtà, appena quattro mesi dopo, Alessandro Asor-Rosa riceve la nomina (per essere esatti) ad «aspirante ufficiale di complemento» dal generale Rossi, comandante della Scuola militare, e viene assegnato al 59° Reggimento Fanteria accasermato presso il cosiddetto «deposito» di Frosinone. Il suo corso è durato poco piú di tre mesi: troppo pochi per imparare a comandare; ma abbastanza per essere ammazzati con gloria.
La vita in camerata si rivela pesante per il giovane allievo aspirante, nonostante la sua formazione atletica. Le marce si susseguono incessanti, il tiro a segno è cosa di tutti i giorni. Ma gli allievi, imprevistamente, ricevono anche lezioni di letteratura italiana e francese, di fisica e… di scherma. Sandro si sfoga a scrivere serene cartoline illustrate ai suoi genitori e alla sorella Vida: «Mille Bacioni a voi tutti. Bacioni e attenti all’indirizzo perché potrei avere dei cicchetti. Ho ricevuto ora in tempo di studio una lettera di Gallavidova e un giornale del 26 [giugno 1916]. Tutti e due senza l’indicazione 11a Compagnia dimodoché sono andate alla 12-13-14 per due giorni e per fortuna mi sono state portate…» In altri casi promette maggiore sollecitudine: «Domani vi scriverò a lungo giacché questa notte partiremo alle ore 3, quindi domani pomeriggio avremo piú riposo…»
A questo punto emerge per la prima volta dal buio della notte la voce di mio padre. La voce? Sí, la voce. Prima il ragazzo per quanto mi riguarda è muto: lo vediamo agire, muoversi, respirare, nuotare e calciare come in un film in bianco e nero delle origini – un film, insomma, di quei tempi. Ma dell’episodio che sto per raccontare io so, noi sappiamo, quale voce avesse questo fantolino in procinto di scendere in battaglia. Come? Perché lui me l’ha raccontato, rifacendo per me le voci e le parti d’un tempo. Trattasi, – desidero dirlo subito, – di un episodio poco onorevole, da cui la sua goffaggine e impeditezza risultano fin troppo evidenti. Il fatto che lui me lo racconti con tanto realismo e con tale abbondanza di particolari corrisponde a un altro tratto tipico del suo modo di comportarsi, sempre in bilico fra la simpatia e un certo sentore di disagio: mio padre ama oltre misura scherzare sulle cose ed è difficile sempre sapere di lui se parli per celia o sul serio (in toscano antico: daddovero). Insomma, conviene ammettere che nelle radici di questa minuscola razza, appartata e assolutamente minoritaria, c’è una componente clownesca, appena appena tenuta a bada d...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Dedica
  5. La polvere degli umili
  6. 1. Gennaio
  7. 2. Febbraio
  8. 3. Marzo
  9. 4. Aprile
  10. 5. Maggio
  11. 6. Giugno
  12. 7. Luglio
  13. 8. Agosto
  14. 9. Settembre
  15. 10. Ottobre
  16. 11. Novembre
  17. 12. Dicembre
  18. Nota