«Il personaggio piú importante dell’intera vicenda non è qui, presente com’è soltanto in effigie; si tratta naturalmente di Emilia mia sposa. C’è del vero in quello che vi ho già detto di lei, anche se solo da un certo punto di vista. Ad ogni modo, per capire il reale significato del mio matrimonio occorre riandare indietro di parecchi anni, a quella mia sventurata adolescenza che cosí decisiva per me si sarebbe rivelata alla prova della vita… Di tutti i problemi che possono turbare lo spirito di un adolescente quello dell’altro sesso fu subito di un’importanza cruciale. Ma, ovviamente, non me ne accorsi subito. Mi ricordo timido, impacciato, privo di quella disinvolta aggressività ch’era la cosa che piú invidiavo ai coetanei. Alle ragazze guardavo a creature ancora piú diverse da me di quanto, in base a loro oscure precoci sperienze, pretendessero i miei compagni. Certo erano per me le numinose presenze di cui ci si doveva guadagnare il favore (oh cento, mille volte beato chi poteva credere di goderne!), le maravigliose e pur temutissime cose tutte da guardare, e dalle quali (persino!) farsi guardare… “Guardare e non toccare” mi diceva la mamma nella pasticceria rutilante, e io correvo subito con il pensiero agli occhi della Smaragni Chiaretta o ai sandali della Bucalossi Martina… Mi capitava spesso di sorprendermi assorto a mezzo le giornate in mie variate storie istrane e in elaborate finzioni soltanto nudrite di sacrifici galanti e di dialoghi pregni di sottilissimi reconditi sensi, ma prive, a ben vedere, di un contenuto preciso… A prendere slancio e sostanza bastava a quelle fantastiche fole lo sguardo fuggente incrociato per via, la testa ben modellata intravista al finestrino del treno, la cugina piú grande che grida al volano incagliato lassú sui querciuoli: o l’attrice famosa che languida bacia, l’infermiera gentile, la supplente graziosa che supplisce mezz’ora ne l’anarchia della classe e poi riscompare nel nulla… I miei compagni avevano sperienze precoci? O non precoci (poniamo, ammettiamo) ed in grave ritardo io invece? E io mi rivalevo leggendo, sí: ridete? Leggevo imbarcandomi in letture piú grandi di me avidamente perdendomi in quel mare infinito abbandonandomi al fluire dei sogni sognati contaminando con recidiva passione mia vita incolore ed il color de’ poemi rifingendomi nomi e destini diversi cangiando mio stato con quello di Orlando e di Werther tapino veramente vanamente struggendomi di vano struggimento sognante per la sola volontà d’andarmi struggendo cosí nell’illusione struggente del sogno… Estati divine dell’avita magione campestre ove il mio corpo fanciulletto giacque perdutamente perduto in leggere il magico Ariosto e di Paolo i tenerissimi casi e Virginia! E in quel mio svagato sognare l’unico senso era offerto dalla presenza muliebre in sé sola, soltanto la giovane donna (oh allora poco piú che undicenne, se a me sempre coetanea fu finta, e poi quindicenne, e ventenne), assente presente osservando, assicurava ragione agli immaginati miei detti, agli sproporzionati atti ingenui, cosí come all’immortale mancego Aldonza guardiana era condizione di sogno, né senza lei avrebbe tolto impresa veruna… Eppure, sono trascorsi i lustri, i decennî, posso dire di non aver mai preso qualcosa piú seriamente di quel gioco estenuante, di quel gioco grazioso e tremendo che sempre meno negli anni sapevo impegnarmi con sua facoltà d’illusione…
Crescevo senza accorgermene, e in quella fantasticante piú vera mia umbratile vita mentale le gesta gloriose a poco a poco lasciavano il posto a piú pensosi colloqui… Non piú cruenti teatri di guerra ove sapersi a se stessi attraverso lo sguardo femmineo saputo, ma l’interiore discorrere uno e bino ad un tempo, ma l’impossibile dialogo di un’anima sola fidente in se stessa… Riflesso mondano degli ermafroditi di Plato ritondi, l’anima trasfonde le vicende d’amore in dolci duelli oratorî ove nulla si svolge se non la parola pensata, ove nulla se non il tuo stesso volubil pensiero… Crescevo e i miei simili si innamoravano, si fidanzavano, si sposavano, si abbandonavano, si risposavano… Io li osservavo da una specola discosta senza patirne esclusione, e mi dicevo che mai avrei cambiato con il loro il mio stato, perché una cosa intanto mi era diventata sufficientemente chiara: a quelle fantasie femminine mi ero ormai talmente affezionato da non essere piú disposto a rinunziarvi… Capite? Nelle donne reali incominciavo a vedere delle pericolose rivali di quell’altre mie sole: “la concorrenza sleale de’ libri”, l’impietosa sentenza era comento al mio caso. Mentre l’idea di una intrinsichezza concreta mi procurava ogni giorno uno sgomento maggiore, era sempre piú facile che mi compiacessi nella memoria garbata di fanciulle d’un tempo anteriore o mi lusingassi nell’incondizionata espansione dei minimi eventi, come il Creatore facendo disfacendo la vita la morte l’amore in rappresentazioni compiute… Mi sorvegliavo. Vedo ora bene che a forgiare il mio fato fu la paura di soffrire, appena un vilissimo calcolo di personale interesse, fu l’impreparazione alla vita… Temevo su tutto l’idea di cadere in una passione non dico infelice (ché perfezione v’ha pur nel dolore) ma spuria, incompleta, e preferivo giocare all’amore come l’imbelle che giocando d’azzardo alle carte dona al fagiuolo il valor di fagiuolo, e di lente alla lente…»
Si interruppe di colpo per guardare la neve cadere, come oppresso da un intollerabile fastidio e, mi sembrò, da una specie di impazienza.
«Ero dunque incapace d’amore? Potevo anch’io dir con il Poeta
Amanti! Miserere,
miserere di questa mia giocosa
aridità larvata di chimere?
In un primo tempo ne fui quasi convinto, poi mi persuasi del contrario: se la mia disposizione affettiva si ingorgava nel nulla non essere per difetto della potenza d’amore, ma per il suo medesimo eccesso… Sempre il nostro spirito anela al sublime, sempre evadendo dal carcere chiuso l’anímula tenta di ricongiungersi a quell’infinito cui si sente connaturale e non è, e frustrata si piega a cercarlo in se stessa… Conosce l’uomo che a tale tensione gli è metafora e mezzo l’amore, e conosce inoltre pur troppo che all’ardita trascesi l’oggetto d’amore gli è spunto e materia e piú nulla… Conosce l’uomo che vagheggiando la donna
vagheggia quindi la figlia
della sua mente, l’amorosa idea…
La figlia della mente, è di un’esattezza disperante. Quei versi! Me li illustravano a scuola ed io già li vivevo come un commento sulla mia pelle… “L’innamorata dell’autore è la donna che non si trova” recita ancora Giacomino: e allora perché cercarla? Non súffice bene altrettanto un cammeo una visione fugace un volto noto malnoto? Risale a quel periodo (avevo ormai superato la soglia dei venticinqu’anni) la mia passione per la lirica cortese. Riconoscevo in quella poesia un manifesto sentimentale che ben potevo dir mio e che fin troppo strettamente assunsi a regola di vita. Ahimè… Credevo di trovar nelle Lettere un alleato invincibile e mi davo in pasto al nemico, credevo di risparmiar gentilmente mia vita e l’uccidevo a veneno, credevo di salvarmi salendo e mi mutilavo di me…»
Si interruppe nuovamente lanciando uno sguardo profondo alla volta della signorina Ebebléchei. Quando riaprí bocca sembrò aver recuperato fiducia.
«Mi avete giudicato uno schizofrenico, e alla luce dei fatti non so darvi torto. Ma la schizofrenia non è in me, è nelle cose… Si può amare intransitivamente, senza un oggetto? “Uso assoluto del verbo” dice il Gramatico, “ch’è modo della lirica illustre”… Si può dare un amore senza un esterno clinamen che ne promuova e ne abbrivi l’essenza? Crescevo e sempre piú teorizzavo la partenogenesi d’ogni vera passione, come se ciò ch’in effetto nudrisce al contrario spegnesse, o soltanto sturbasse… Partenogenesi, endogenesi, la vita dei sensi tradotta in cristalli, non è che me ne importasse molto dell’estinzion della specie… Però insieme a quel mio casto portarmi un’altra cosa accadeva congiunta, curiosa pur nella sua inevitabilità tutta piana: gli era che, non affisandosi su obbietto veruno, la mia facoltà sperdevasi per manco di concentrazione in un acosmico errore del cuore extra se, in un fibrillare convulso di aneliti sparsi che mi faceva aderire siqquale patella alle immagini che a mille mi giungeano dal mondo cangiato in muliebre teatro ahi tanto ahi con troppa passione spectato… Insomma, onninamente ignaro d’amore n’ero invece fatto vaso a tal segno che per me ogni possibile obbietto d’amore n’era simul l’obbietto reale. Capite? Nutrivo meco con meco innumerevoli amori che di licito avevano appena l’origine: ma io ero Mida, l’universale soggetto che tutto naturalmente assoggetta… Ed ecco che si parla di sguardi e di impressioni dell’occhio e della loro incubazion nella mente che tutto riespande nei giochi della memoria e del sogno… La morale? Quel ch’appena è negli altri cominciamento al futurum, come il grànulo a la perla imperfetta che valva dischiude, in me si bruciava in un lampo (vetrificato in gemma perfetta è il granello, ma sfugge alle dita, volume non ha), e l’amore intravisto era ipsofacto già stato, ché quel ch’in altri è promessa m’era promessa adempiuta e con questo delusa: come ala di Vanessa che palpata scolora, o rosa che succisa languisce… Guardare e non toccare dice la pasticceria. La mia libertà era infinita, ma conchiusa in se stessa era destinata a vanire non appena avessi tentato di esercitarla nel mare illiberale del mondo… Avete mai provato, dico anche per un attimo solo, a fare a meno del predicato, di un predicato qualsiasi? Oh si è tutto e si è niente, umilissimi e alteri in un fore perpetuo, morti all’attualità delle cose ed alla pienezza dell’oggi… La mia vita sentimentale non ha storia né annali, è solo la replica asemica del medesimo progetto di felicità… un palpito astratto, la glorificazione del nulla… Mi dicevano anche che si vive una volta sola e che la bella gioventú fuggisce fuggisce e non la rivedi mai piú. Ma io ero troppo saggio. Guatavo rapito la mia compagna di banco, scilice in tralice: contenendo in sé ogni futura epopea quel guardo era già persuasion di destino, ma inoltrandomi nel tempo (noi postumi a noi) non potevo evitare di fingermi conversazioni tremende, quaj toglieano a quel destino il suo senso. “Considera”, le dicevo: “un capriccio d’oscur secretario ed ecco il mio nome in altra classe inscritto per sempre: o pur teco io inscritto, nel primo giorno non trovo a la mane il mio par preferito di calze (le turchesi io intendo: tu ’l sai), e m’indugio alla cerca, e ne chieggo la madre, e si fruga conserti undiquamente per casa: riescono alfine le calze, e il puerulo passo mi studio affrettare alla scola: ma vi giungo in ritardo, ed occupato d’altrui è quel banco ove posai trepidando al tuo fianco, e l’occhiate furtive ne diceano eloquenti, e le galeotte matite imprestate e le gomme: ma son giunto in ritardo e quel banco è già sede d’un altro, di Ranzani poniamo, o del gracilino Vignola o di Bonfante che querulo ride: e mi seggo discosto, ad altre forme vicino, ad altra vita e destino, né di te mai piú seppi o saprò, separati, per sempre, d’allora, da prima, ché la vita che vivi sono solo le infinite cui finito sei escluso, ed in te io vidi quel giorno soltanto le schiere di donne che tu in te stessa uccidevi, tiranna tu e vittima a un tempo e micidiale di te come tutti micidiali di noi, e se ora siam qui è come s’incontrano i morti nell’Ade…”
La scuola! Ogni volta che cambiavo classe non potevo fare a meno di innamorarmi a perdicuore di una o due mie compagne… Mi piacevano quelle biondastre e con gli occhi scuri, possibilmente basedowiani… Buffo, vero? Ancor oggi quei sospiri scandiscono nella memoria la mia vita scolastica com’altri la scandirebbe con le guerre dei Cent’anni e dei Trenta… Passioni spiegate, mostruose, eppure non certamente esclusive, se falda a falda ogni amore si posava sul precedente senza cancellarlo… Stilavo in gran segreto le classifiche provvisorie delle mie favorite: a lungo non avevo dubbî, poi mi bastava incontrarne una in un sogno, poco prima dell’alba, per farmi sovvertire l’ordine invalso… Assoluto, purezza, necessità: allora non ci pensavo, sarei stato contento di riuscire a fermare una scala di valori oggettivi, me ingenuo… Bene, credete che mi bastasse rovellarmi in quella storicizzata diacronia d’amore? Insaziabile, ingordo cercavo riscontri extra moenia, nelle scolaresche non mie: approfittando degli intervalli fra le lezioni mi intrufolavo con un pretesto qualsia in un’altra classe, là gittando veloci tutt’intorno le occhiate: fossi un cive di questa classe – mi dicevo – di quale mai mia compagna diverrei vago e servente? E vertigine d’ogni vertigo, immaginare a mio uso una classe che per facultate elettiva raccogliesse soltanto le amatissime di tutte le classi! Le amavo tutte, ma intanto – ecco, questo solo restava – non ne amavo nessuna».
Questa volta si fermò per guardare sul soffitto i riflessi del fuoco che si contorceva in silenzio. Epeo piuttosto, perché allungava cosí il collo per guardare fuori dalla finestra? Non si poteva vedere nulla, solo la discordia del candido elemento in moto inesausto, e le sventagliate sui vetri… Poi ebbi la prima rivelazione. Avevo colpito Osmoc alla fronte, eppure in quella parte del capo non presentava il minimo segno. Da dove era uscito allora il suo sangue?
«Mi dovete perdonare se vi faccio perdere tutto questo tempo. Ma anche se fra poco non avremo forse piú modo di parlare, quello che devo dirvi è cosí… cosí brutto, non mi vengono altre parole, che ritardare il piú possibile il momento di dirvelo è piú forte di me. Voltatevi, la vedete, no? Ogni parola è superflua. Quando mi apparve la prima volta era ancora piú bella, l’arte non rende neanche una piccola parte di quell’incanto. Mai avevo incontrato creatura piú maravigliosa di quella che in un punto s’insignorí di mia mente per non uscirne piú mai… Compita angelella, tu fosti, o come allor ti sognai io mi ti sogno tuttora? Ero la semenza di una pianta esotica che lontano addusse galeone straniero e dopo error vario ritrovi la terra natía, sí, avevo trovato la buona terra, figuratevi se il mio sistema di vita non doveva esserne scardinato dall’imo… Sentivo che per la prima volta le mie petizioni d’amore erano sul punto di trovare un contenuto, che finalmente la vana matrice avrebbe immorso la vita catturando la vita… Vivere! Dunque anche per me la vita sarebbe stata realtà, non piú la sterile vita osservata e intelletta ma la vita viva, vissuta! La vita! Ed Emilia… Ma che serve riandare? Voi non siete qui per questo, e io… io sono ridotto al punto di dovermi ignorare.
I fatti andarono in tutt’altro modo. Se mi ero illuso di aver scongiurato per sempre la mia aridità sentimentale dovetti ricredermi presto. L’amore era lí, ma allora come non mai temevo accostarmi. Fra lei e me contemplavo ipotetiche serie di ipotetici ostacoli progettando con sicurezza la noja, preassumendo il dolore… La corte che le rivolsi fu tutta negativa, visto che pur amandola perdutamente non ricordo d’aver detto mai cosa che non sembrasse intesa a scostarla da me, allontanandomi agli atti quanto piú l’avvicinavo in idea. Guardare e non toccare, non c’era scampo. Non so come Emilia mi giudicasse nei primi tempi, ma probabilmente fu proprio il mio comportamento scostante, scambiato per timidezza, a guadagnare le vie del suo cuore… Fu piú o meno in quel periodo (avevo da poco compiuto i ventisett’anni) che composi la maggior parte delle liriche In vita di madonna Emilia, e un poemetto in sciolti intitolato L’amor distante… Emilia, chi era in realtà? Una cosa era per me ed un’altra era in sé, e piú vi riflettevo piú mi convincevo che questi due poli andavano fatalmente divergendo e mai si sarebbero uniti… Orrore! Mille anni fa uomini timorati di Dio scrivevano atroci libelli per scoraggiare ogni amore sensuale: e tu vi leggi (poniamo in Adon cluniacense) di flegma viscoso che serpe al di sotto delle pulcherrime forme, di vasi congesti alla fonte del roseo incarnato di gota virginea, vi leggi del secreto di glandola ascosa, di visceri sozzi di cispe di tubi fecali di suchi schifosi dell’orrore nascosto del corpo… Habent sua fata libelli, non per Adon di Cluny la gente cessava di amare, felici insensati! Ma a me tapino bastavo io solo, io solo sapevo distrutto ogni incanto nell’attimo stesso in cui m’incantavo incantato… Oh Emilia, eri Alcibiade e come il gran Stagirita io ti leggevo soltanto nella specie del nervo nella specie dell’osso del muscolo bianco del muscolo rosso palpitante contratto… Ecco, erano questi i pensieri suscitati dall’eccezionale creatura venuta a tentare la mia collaudata esistenza di paguro rinchiuso… Sí, la natura d’amore è la natura del sogno, e sempre il sogno non è, perché se fosse perderebbe la qualità che ’l fa sogno, e leggero: strana condicio, di essere non essendo, e di non poter essere attraversato, come la morte… Vuole ad esempio l’Adèrbali-Tucci (L’evoluzione delle sistoli labienopalatali nell’alto uraloaltaico, in “Goloso Logos”, LXXII, 1969, pp. 88 e seguenti, ora anche in Nuovi studi e vecchissimi) che d’altro non scenda il latino somnium se non dall’aspero-procinico *somasium (<*iss-omasium) “impossibile”, vale da un *omasium “possibile” (ricordo del resto che anche per il Kropinski oms, ommas era la radice di possum) preceduto dal prefisso privativo siss- comune a tutta l’area protosicionica perlomeno dalla seconda metà del terzo millennio, senza che per questo ci sia da scomodare lo Jüngtke e il suo unmöglich < … < unmaewullk < *unna-masawaull’k < *sunna-ma.sowahlkhus < ’onama + swalekis [> (s)omasium] … Sed de hoc satis. Ero pazzo? Non credo. In fondo, come ho detto, non facevo che esplicitare la reale condizion dell’amore, amando disamando denunciavo la labilità di quanto fa l’uom dalla bestia diverso… La bestia… La bestia è; detto questo non c’è nulla da spiegare per glosa. Ma l’uomo è insieme un fusse e un saría, se la sua vita è sofferenza deve ringraziare il congiuntivo e il condizionale. Potete immaginare una bestia al condizionale? No certo, perché il sogno non è della bestia; piú di questa magra consolazione, magherrima! non abbiamo».
Si interruppe ancora una volta, visibilmente provato. Doveva aver perso molto sangue, e nella nostra diffidenza nessuno aveva pensato a offrirgli ausilio o tampone, o anche solo a chiedergli come stesse. E invece era proprio della nostra compassione, non d’altro, che aveva bisogno quell’uomo antico, solo nella sua biblioteca armoniosa…
«Ma vi veggo perplessi: cercherò altre parole. Emilia amata: non si può dire. Amata, non è piú Emilia. Amata vuol dire due, vuol dire lei e con lei la tua propria: o cosa quanto piú grande o cosa quanto piú vana! Cosí, pel bene di quell’eterea creatura, io dovevo fuggire la donna reale: fin troppo facile immaginare cosa ne sarebbe stato di quell’amore una volta affidato a noi termini sordi, noi di noi stessi ostacolo impervio… L’amore, ma per me l’amore era Damasco lontana, il principe Andrea nelle edizioni Marzocco, l’Arcipelago della Sonda, l’indefinita memoria di sé fanciulletto e questo struggersi vano, l’odor dei solai era l’amore, Buck che si confonde coi lupi… Io ed Emilia, no, come chi educato dal mito tenti la Troade infeconda, Cesar novello che la caliga ponga incauto nel motoso rigagno e il barbaro pigro gliel dice Scamandro, e Ida quel facile dosso cosparso di dumi, e quei sassi, Pergamo alta. Mai! Dispari è la condizione dell’uomo, e non quadrabile il cerchio. Viva ognuno secondo il suo genio: il mio essendo di evitare lo scacco, cercavo in perpetuo lo stallo… Cosí, pare (siamo a Napoli, in un grigio mattino del febbraio 1724), disturbato dai rumori che venivano dalla strada, Giovanni Battista Vico depose la penna e si alzò dal tavolino ove attendeva alla sua storia universale delle genti. “Che è cotesta marmaglia?” disse affacciandosi alla finestra. “È il popolo, signore” avvisò il cameriere. “Popolo? Non mi risulta. Chiudi la finestra, Vincenzio”…
Quando ero giovane mi credevo di vedere una dea in ogni fanciulla che incontrassi per via: perché mai sarei dovuto tornare indietro a verificar l’impressione? Le poche volte che lo feci me ne pentii, sempre, ma anche questo è già stato detto da un famoso scrivano di Francia… Sed urget tempus. Emilia si interessava sensibilmente a me, ma io preferivo osservarla da lungi mentre cavalieri piú attivi le faceano galante corona all’intorno, e intanto continuavo a propormi lo stesso quesito: come potevano amare? Possibile che mi sbagliassi, che avessi teorizzato l’irrealtà dell’amore come il cieco non crede ai colori, non alla gloria di Roma lo Scita? Rilessi i poeti e i filosafi antichi, posi a comparazione le pagine piú alte ch’uom scrisse in matera (veh ironico stato, io non amante fatto sperto d’amore) immergendomi tutto nell’esatta speculazion delle cose… Non u...