A testa alta
eBook - ePub

A testa alta

Don Giuseppe Puglisi: storia di un eroe solitario

  1. 176 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

A testa alta

Don Giuseppe Puglisi: storia di un eroe solitario

Informazioni su questo libro

«Questa è la storia di Giuseppe Puglisi, prete-coraggio in terra di Sicilia. Fu eliminato nel 1993 perché, sottraendo i bambini alla strada, li sottraeva al reclutamento della mafia che nel rione Brancaccio, alle porte di Palermo, ha da tempo immemorabile creato un vivaio di manovalanza criminale. Un caso di inquietante solitudine. La solitudine dell'uomo di fede, impavido fino al sacrificio di sé. Una solitudine che Bianca Stancanelli racconta con appassionata meticolosità e rara efficacia letteraria nella convinzione - vedi la citazione di Borges in apertura di libro - che talvolta, a illuminare il buio della nostra generale codardia, basta l'esempio di un solo hombre valiente. È un modo per avvertire il lettore che quella che si accinge a leggere è la biografia di un piccolo prete dal grande cuore, un eroe vero tra tanti eroi di cartapesta, deciso a dare un'anima a un quartiere che un'anima non l'ha mai avuta, un quartiere abbandonato dallo Stato e posseduto dal diavolo, dove è già un atto di sfida camminare a testa alta». Ermanno Rea

Domande frequenti

Sì, puoi annullare l'abbonamento in qualsiasi momento dalla sezione Abbonamento nelle impostazioni del tuo account sul sito web di Perlego. L'abbonamento rimarrà attivo fino alla fine del periodo di fatturazione in corso. Scopri come annullare l'abbonamento.
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Perlego offre due piani: Base e Completo
  • Base è ideale per studenti e professionisti che amano esplorare un’ampia varietà di argomenti. Accedi alla Biblioteca Base con oltre 800.000 titoli affidabili e best-seller in business, crescita personale e discipline umanistiche. Include tempo di lettura illimitato e voce Read Aloud standard.
  • Completo: Perfetto per studenti avanzati e ricercatori che necessitano di accesso completo e senza restrizioni. Sblocca oltre 1,4 milioni di libri in centinaia di argomenti, inclusi titoli accademici e specializzati. Il piano Completo include anche funzionalità avanzate come Premium Read Aloud e Research Assistant.
Entrambi i piani sono disponibili con cicli di fatturazione mensili, ogni 4 mesi o annuali.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì! Puoi usare l’app Perlego sia su dispositivi iOS che Android per leggere in qualsiasi momento, in qualsiasi luogo — anche offline. Perfetta per i tragitti o quando sei in movimento.
Nota che non possiamo supportare dispositivi con iOS 13 o Android 7 o versioni precedenti. Scopri di più sull’utilizzo dell’app.
Sì, puoi accedere a A testa alta di Bianca Stancanelli in formato PDF e/o ePub. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2012
Print ISBN
9788806210427
eBook ISBN
9788858405574

A testa alta

Qué importa nuestra cobardía si hay en la tierra
un sólo hombre valiente...
J. L. BORGES
Era un uomo buono solo disarmato. In quattro andarono a sparargli.
Lo spiarono, lo seguirono, lo raggiunsero sul portone di casa. In silenzio gli andarono alle spalle. Lo fermarono. E per fermarlo lo chiamarono padre, perché era un sacerdote.
Immobile, l’omicida teneva in pugno la vittima e la pistola. Non ebbe il coraggio di parlare. E un altro mentí per lui. «È una rapina», disse.
Ai suoi assassini rivolse tre parole: «Me lo aspettavo». Furono le ultime che pronunciò. Sorrise, e fu l’ultimo dei suoi sorrisi.
Dei quattro, uno solo sparò. Un solo colpo. Alla nuca.
Per rabbia lo uccisero. Per rabbia, per paura, per invidia. Perché dall’altare li aveva chiamati animali. Perché lo minacciavano, e camminava a testa alta. Perché in Sicilia, terra di rispetto, stava insegnando che si può dire di no.
Dopo, qualcuno si vantò, qualcuno si pentí, qualcuno disse che era stato costretto. Uno dopo l’altro, tutti finirono in trappola. Balbettò l’assassino: «Pesava su di noi un fato oscuro, una maledizione...»
Questa è la storia del parroco di Brancaccio.
È la storia di un uomo che ha avuto coraggio.
L’ultimo sabato di settembre del 1990 il cardinale Salvatore Pappalardo, arcivescovo di Palermo, firma la lettera di nomina del nuovo parroco per la chiesa di San Gaetano e di Maria Santissima del Divino Amore a Brancaccio. Quella firma mette fine a una lunga ricerca.
Il nuovo parroco è un sacerdote di cinquantatre anni, si chiama Giuseppe Puglisi. Per tutti è don Pino. O meglio, poiché la devozione siciliana chiama padre il parrinu, fondendo in un’unica espressione il prete e il padrino, padre Pino Puglisi.
Tre P in fila. Il nuovo parroco è il primo a scherzare con quell’allitterazione. A volte, per gioco, si firma 3P, come un personaggio dei fumetti.
Don Pino è a quel tempo un sacerdote che ha, nella chiesa palermitana, una consolidata posizione. È direttore del Centro diocesano vocazioni. Ha un incarico di prestigio a Roma, nel Consiglio nazionale vocazioni, che dovrà abbandonare per dedicarsi alla parrocchia. Inoltre insegna religione nel liceo classico «Vittorio Emanuele», ed è un lavoro cui tiene. I ragazzi lo adorano. Da sempre. Perché ha un talento speciale: ascolta. Per ore, se capita. Senza fiatare, senza fretta, senza interrompere. E crede fermamente che in ognuno gridi una vocazione, una chiamata, un destino. Il talento è scoprirlo. E seguirlo.
Quando il suo destino lo conduce a Brancaccio, padre Puglisi lo segue senza resistere. Qualcuno dei suoi ragazzi protesta; qualcuno obietta che il quartiere è pericoloso. Don Pino ci scherza su: «E come potevo rifiutare? – dice. – Sono diventato il parroco del papa».
È un gioco che, nella Palermo di allora, non ha bisogno di spiegazioni e, nella sbiadita memoria di oggi, appare meno comprensibile. Il papa è, per ingiuria – ovvero, per soprannome – Michele Greco, mafioso e ricco possidente, a lungo ossequiato, capo di Cosa Nostra dalla fine degli anni Settanta. Capo per pura forma, hanno stabilito numerose ricostruzioni giudiziarie; nei fatti, burattino manovrato dai corleonesi di Totò Riina. Le terre di Michele Greco si estendono sulla collina di Ciaculli, a sud di Brancaccio.
Fisicamente, geograficamente Ciaculli incombe su Brancaccio. E la grande ombra del papa di mafia, pur prigioniero in quell’autunno del 1990, chiuso in cella con la Bibbia come lettura prediletta, si proietta sulla chiesa di San Gaetano. Di quell’incombere, nell’apparente svagatezza dello scherzo, il nuovo parroco mostra di essere perfettamente a conoscenza.
Del personaggio Puglisi, del parroco don Pino, quella battuta lieve dice assai piú di quanto appaia a prima vista. Svela il suo amore per la leggerezza, il gusto di non prendersi sul serio, di sdrammatizzare. Ma svela anche il suo essere consapevole che Brancaccio è terra di mafia. E di pericolo.
Era durata un anno la ricerca del nuovo parroco per la chiesa di San Gaetano. Periferia povera, quel quartiere a sud-est della città, sulla via che da Palermo va verso Villabate, è terra di desolazione e di spavento. Perfino il nome sembra evocare minacce, rimandare a inquietanti etimologie. Brancaccio da abbrancare? O da branco e da caccia, saldate in un’unica parola, suggellata da quella desinenza, -accio, che suona come un peggiorativo?
Ma nulla di minaccioso o di inquietante c’è nell’origine del nome. Una naturale discendenza: risale al fondatore, don Antonio Brancaccio, nobile napoletano arrivato a Palermo alla metà del Settecento, con l’incarico di reggere il governatorato di Monreale.
Assai piú recente è la fama oscura del quartiere. Appartiene ai primi anni Ottanta, alla furia della guerra di mafia. Tra il 1981 e il 1984 centocinquanta vittime, fra morti ammazzati e lupare bianche. Agguati, sparatorie, inseguimenti, bombe, cacce all’uomo. Perché qui, a Brancaccio, Cosa Nostra ha messo a punto, e sperimentato su larga scala, una tecnica atroce di snidamento dei nemici: la vendetta trasversale, l’assassinio di mogli, amici, parenti, pur di stanare i rivali di cosca, pur di costringerli a uscire allo scoperto.
Parallelo alla guerra, negli anni Ottanta un tenebroso progetto di dominio si è proiettato su tutto il quartiere. La mafia ha aggredito l’area industriale, che è il cuore e, a lungo, è stata l’orgoglio di Brancaccio. Fabbriche intere sono andate a fuoco in attentati appiccati dagli esattori delle cosche. Come una candela è bruciata la Cereria Gange: i mafiosi pretendevano di entrare nell’azienda come soci. Se i proprietari resistevano, bombe. Se continuavano a non piegarsi, nuovi attentati, incendi, distruzione. E una bomba, nel 1983, ha salutato l’inaugurazione del commissariato di polizia, tardivamente aperto su un territorio sguarnito.
Finita la mattanza, lo spavento dura. A pochi passi dalla chiesa di San Gaetano, là dove la bianca statua del santo solleva gli occhi verso il cielo, si apre via Conte Federico, cimitero di croci invisibili. E tutt’intorno sorgono le case degli uomini di Cosa Nostra.
Insomma c’è poco da stupirsi se per un anno sono venuti a dir messa preti da altre parrocchie e nessuno ha voluto fermarsi. Finché il cardinale ha convocato padre Puglisi, Pinuzzo. Lo conosce: sa che è umile e audace, mite e coraggioso. E sa che le missioni difficili lo attraggono.
L’offerta di una parrocchia di periferia, in un quartiere degradato, non ha nulla di seducente. Questo, paradossalmente, dà al cardinale la certezza che padre Puglisi accetterà. Come avviene. Senza discutere.
Eppure, al di là dell’obbedienza, si intuisce un’altra ragione, un richiamo piú profondo.
Brancaccio è un ritorno a casa. In quelle vie, in quei cortili il nuovo parroco ha vissuto, ha giocato da bambino.
Terzo dei quattro figli di un calzolaio e di una sarta, Carmelo e Giuseppina, ha abitato per anni nel cortile Faraone, fra modeste casette a due piani.
Quando Pino era ancora ragazzo, la famiglia si è spostata poco piú in là, a Romagnolo, davanti al mare, sul golfo che si apre fra i due promontori: a ovest Monte Pellegrino, a oriente Mongerbino.
Con l’insistenza di un destino, anche il sacerdozio ha ricondotto Puglisi fra i vicoli della sua infanzia. Cosí, ai margini di Brancaccio è tornato, molti anni dopo, per cominciare il suo mestiere di parrinu.
Entrato in seminario a sedici anni, ordinato sacerdote a ventidue, il 2 luglio del 1960, nel santuario della Madonna dei Rimedi, ha ottenuto il primo incarico alla parrocchia del Santissimo Salvatore, in corso dei Mille, lo stradone che, con la via Brancaccio, si apre a lama di forbice all’uscita di piazza Scaffa.
Dunque il parroco conosce quei quartieri. Li ha visti mutare pelle tra gli anni Sessanta e Settanta, quando, da borgate agricole, sono esplosi fino a imbruttirsi in periferie segnate dalla speculazione. Ha visto cadere le casette a due piani, sparire i giardini, gli orti, gli agrumeti. E crescere i palazzi a dieci, dodici, quattordici piani. Li hanno tirati su signori venuti dal nulla. Si chiamavano Pilo, Ienna, Federico, Finocchio. Spesso non chiedevano neppure i soldi in banca per trasformarsi in costruttori.
Edilizia famelica. Mentre i palazzi crescevano, per fretta, per comodità, per brutale voglia di guadagno, il materiale di riporto veniva buttato a mare, a Romagnolo. Era la spiaggia per le famiglie piú modeste, il contraltare alle cabine eleganti di Mondello. Invaso, sommerso, dalla fine degli anni Settanta Romagnolo è un mare avvelenato che lambisce una striscia di sabbia bordata da erbacce e da immondizia. L’edilizia mafiosa lo ha annichilito, gli stabilimenti con le cabine colorate sono stati chiusi, una parte della gioia del quartiere è stata confiscata.
Padre Puglisi lo sa. Sa quanto peso ha la mafia in quelle zone. E della mafia conosce i gesti, i riti, gli uomini. E pensa, con tutto il cuore, che la mafia è il peccato.
Appena tre chilometri separano Palazzo delle Aquile, il Municipio di Palermo, dal cuore del quartiere di Brancaccio, ma è la distanza fra due universi. Una distanza che ha un’evidenza immediata, quasi fisica: un passaggio a livello sbarra la via Brancaccio, non appena ci si lascia alle spalle il ponte dell’Ammiraglio dove, il 27 maggio 1860, i garibaldini entrarono a Palermo travolgendo la resistenza borbonica, «una resistenza quasi feroce» come beffardamente annota Giuseppe Cesare Abba, cronista dell’impresa dei Mille.
È un passaggio a livello che si alza e si abbassa con frequenza, perché presidia la linea ferroviaria fra Palermo e Messina: Brancaccio è l’ultimo scalo prima della stazione centrale. Simile a una frontiera, la sbarra biancorossa rompe il rapporto del quartiere con la città, lo isola, lo sigilla a riprese regolari in una sua singolarità di mondo chiuso. Proseguendo sulla via Brancaccio, un secondo passaggio a livello ribadisce la separatezza, l’esclusione.
Fra l’uno e l’altro, la miseria degli «Stati Uniti». Curioso nomignolo, che ognuno spiega a modo suo: c’è chi sostiene che in quei cortili gli angloamericani, dopo lo sbarco del ’43, si lasciarono dietro qualche figlio e piú di un ricordo e c’è chi dice che quelle stecche di case basse consegnarono famiglie di disperati alla famelica emigrazione siciliana verso gli Usa.
Lí vivono gli ultimi, i diseredati. In quelle stecche tarlate di case a due piani, mangiare ogni giorno è un’impresa, un sogno, una fatica. Piú avanti le casupole diventano palazzi: i soliti casermoni che esibiscono l’ordinario squallore delle periferie meridionali, tirati su nella persuasione che gli uomini possano vivere nella bruttezza senza diventare peggiori. Piú avanti ancora, dove la lunga, stretta, caotica via Brancaccio, davanti alla statua di san Gaetano, si biforca in via San Ciro e via Conte Federico, appare qualche villetta, perfino qualche albero: sono le rare dimore dei benestanti. Per il resto, abitano nel quartiere ferrovieri (tanti), impiegati: una piccola borghesia decorosa che si è ritrovata a Brancaccio quasi per caso e riduce all’essenziale i contatti con il quartiere, con i vicini. E con gli sfrattati, soprattutto: famiglie intere deportate dal Comune nei condomini costruiti dai costruttori mafiosi, strappate alle loro case, i pericolanti catoi del centro storico. Sradicati, gli sfrattati hanno portato con sé la loro miseria. E un’ossessione: far soldi, con ogni mezzo, arraffare, accumulare, scialare.
Questa è Brancaccio nell’ultimo scorcio dell’anno 1990: un mondo esploso, diviso. Soggetto al controllo minuzioso, ineludibile della mafia. Sul quartiere, dirà un mafioso diventato collaboratore di giustizia, Gioacchino Pennino, Cosa Nostra esercita «un comando geloso». Geloso di ogni altro potere, di ogni interferenza, di ogni autorità esterna, estranea, incontrollabile.
Il nuovo parroco si presenta ai parrocchiani sabato 6 ottobre, dieci minuti prima della messa vespertina. Quell’arrivo in anticipo è un riguardo che nessuno può ancora apprezzare pienamente. Padre Puglisi è un ritardatario di natura. Non per pigrizia, né per colpa. «Il tempo non lo guardava», dirà di lui l’economo della parrocchia, Mario Renna. Se qualcuno lo incontra per caso e ha bisogno di parlargli, Puglisi si ferma e ascolta, incurante di ogni impegno, di ogni appuntamento.
San Gaetano è una chiesa settecentesca, di semplicissimo impianto. Piccola, raccolta, in quell’ottobre 1990 appare segnata da crepe vistose. Le ha lasciate il terremoto del 1968, il sisma che ha devastato il Belice. Nessuno ha ancora provveduto a ripararle. Il parroco viene subito avvertito che le campane vanno suonate con cautela, per paura che crolli il campanile. È probabile che, alla notizia, Puglisi abbia reagito con divertimento.
È un uomo minuto, esile, allegro, dall’apparenza ingannevolmente fragile. È un sacerdote della generazione del Concilio, predilige gli ultimi, i dimenticati. Non veste da prete: d’estate indossa calzoni scuri e maglietta blu; d’inverno completa il guardaroba con un giubbotto blu. A Godrano, il paese di montagna, alle spalle di Palermo, dove è stato parroco dal 1970 al 1978, i fedeli, abituati all’ordinario svolazzar di tonache, lo chiamavano, con un filo di sbalordimento, u parrinu chi cavusi, il prete in pantaloni.
Non tiene alle formalità. Agli studenti del suo liceo si presenta il primo giorno di lezioni con uno scatolone sottobraccio, lo posa a terra nel silenzio generale, ci salta su e ride: «Avete capito chi sono io? Un rompiscatole, ecco chi sono».
Ride spesso. E sorride sempre. È un sorriso che spesso spiazza l’interlocutore: è di divertimento? è il segno di una naturale, incontenibile gioia di vivere? è un sorriso beffardo? è ironico?
Quando il parroco arriva, non trova una gran folla ad attenderlo. Non si stupisce. Sa che sulla parrocchia pesa una fama capace di fare il vuoto tra i fedeli, soprattutto a Brancaccio: fama di parrocchia «comunista». E poco importa che il muro di Berlino sia crollato e il Pci si prepari a cambiar nome.
Comunista, per diffuso giudizio – o pregiudizio – nel quartiere, era il predecessore di don Puglisi, Rosario Giué. Un giovane prete ardente: studioso appassionato della Teologia della liberazione, innamorato della figura dell’arcivescovo Oscar Romero, morto sull’altare, ucciso dai militari nel Salvador dilaniato dalla guerra civile. Nominato parroco di Brancaccio nel 1986, Giué resterà per quasi quattro anni, vivendo quel quartiere di Palermo come un angolo di Terzo Mondo da riscattare. È un messaggio forte, coraggioso, che attira intorno al sacerdote un gruppo di giovani, ma respinge la massa dei fedeli, convinti tutti che Giué sia, appunto, un comunista. Nel 1989 è lo stesso parroco a chiedere al cardinale una pausa di riflessione e a ottenere la temporanea sospensione dagli incarichi sacerdotali.
Appena arrivato in parrocchia, padre Puglisi disperde il gruppo di giovani che si era creato intorno a Giué. Racconta un suo ex allievo, Francesco Deliziosi, in una biografia scritta per l’Arcidiocesi di Palermo: «Disse loro: “Forme di collaborazione sono possibili ma la chiesa non può essere la sede di un partito o un circolo ideologico”»1. Basta perché la debolissima sinistra del quartiere lo consideri un restauratore, un normalizzatore spedito dalla Curia per riportare l’ordine a Brancaccio. Nessuna collaborazione, è la conclusione.
Un vento di restaurazione sembra soffiare, in quell’autunno del 1990, su Palermo, sulla Sicilia intera. Freddo vento di amarezza, di delusione che spazza le speranze di una stagione. La politica ha appena archiviato le giunte eretiche del sindaco democristiano Leoluca Orlando che includevano verdi e comunisti. Sono finiti i girotondi e le feste in piazza della «primavera di Palermo», periodo di grazia in cui tanti hanno creduto di poter cambiare la politica, spezzando l’ipoteca di mafia sulla città.
Alle amministrative di maggio Orlando, che pure è già stato licenziato da sindaco, ha incassato settantamila preferenze in una città di settecentomila abitanti. Un trionfo che ha trascinato la Dc alla maggioranza assoluta ma, insieme, l’ha riempita di rancore. Perché l’ex sindaco trionfatore, diventato una bandiera dell’antimafia, è il grande accusatore delle compromissioni, delle tiepidezze, dei legami obliqui del suo partito. E ha ingaggiato uno scontro frontale con il presidente del consiglio Giulio Andreotti, gran protettore dell’uomo forte della Dc siciliana, Salvo Lima.
Dovranno passare pochi mesi perché Orlando fondi un nuovo partito, la Rete, poco piú di tre anni perché della Dc scompaia anche il nome.
In Municipio cinge la fascia di primo cittadino uno scolorito democristiano, Domenico Lo Vasco. Guida un monocolore. Il 3 settembre si presenta alla fiaccolata in onore del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, viene fischiato, ma non mostra inquietudine.
Ingialliscono negli archivi le immagini del maxiprocesso del 1986, i lividi mafiosi in gabbi...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. A testa alta
  3. Copyright
  4. Prefazione - di Bianca Stancanelli
  5. A testa alta
  6. Epilogo
  7. Post scriptum