La strada che va in città
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La strada che va in città

e altri racconti

  1. 184 pagine
  2. Italian
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La strada che va in città

e altri racconti

Informazioni su questo libro

Uscito nel 1942 sotto lo pseudonimo di Alessandra Tornimparte, La strada che va in città è la storia di una ragazza che sceglie di fare un matrimonio d'interesse, di prendere la strada che va in città. Per poi accorgersi che il vero amore è altrove. Passioni senza via di uscita, vite alla deriva, anime alla ricerca di un approdo sicuro dove lenire le proprie delusioni: con uno sguardo impietoso ma distaccato, Natalia Ginzburg, in questo suo primo romanzo, descrive la solitudine di un'esistenza che nel gioco della memoria rievoca ciò che le è passato accanto come un mistero incomprensibile e inafferrabile. Questa edizione, corredata da Notizie sul testo, antologia della critica, bibliografia e cronologia della vita e delle opere, ripropone la versione ristampata nel 1945 con il nome dell'autrice, che comprendeva anche i racconti Un'assenza, Casa al mare, Mio marito. Completano l'opera un'introduzione di Cesare Garboli e una prefazione dell'autrice.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2012
Print ISBN
9788806239596

La strada che va in città

«Le fatiche degli stolti saranno il loro tormento, poiché essi non sanno la strada che va in città».

Il Nini abitava con noi fin da quando era piccolo. Era figlio d’un cugino di mio padre. Non aveva piú i genitori ed avrebbe dovuto vivere col nonno, ma il nonno lo picchiava con una scopa e lui scappava e veniva da noi. Finché il nonno morí e allora gli dissero che poteva stare sempre a casa.
Senza il Nini eravamo cinque fratelli. Prima di me c’era mia sorella Azalea, che era sposata e abitava in città. Dopo di me veniva mio fratello Giovanni, poi c’erano Gabriele e Vittorio. Si dice che una casa dove ci sono molti figli è allegra, ma io non trovavo niente di allegro nella nostra casa. Speravo di sposarmi presto e di andarmene come aveva fatto Azalea. Azalea s’era sposata a diciassette anni. Io avevo sedici anni ma ancora non m’avevano chiesta. Anche Giovanni e anche il Nini volevano andarsene. Solo i piccoli erano ancora contenti.
La nostra casa era una casa rossa, con un pergolato davanti. Tenevamo i nostri vestiti sulla ringhiera delle scale, perché eravamo in molti e non c’erano armadi abbastanza. «Sciò sciò, – diceva mia madre, scacciando le galline dalla cucina, – sciò sciò...» Il grammofono era tutto il giorno in moto e siccome non avevamo che un disco, la canzone era sempre la stessa e diceva:
Mani di vellutòo
Mani profumatée
Un’ebbrezza datée
Che dire non sòo.
Questa canzone dove le parole avevano una cadenza cosí strana piaceva molto a ciascuno di noi, e non facevamo che ripeterla nell’alzarci e nel metterci a letto. Giovanni e il Nini dormivano nella camera accanto alla mia e la mattina mi svegliavano battendo tre colpi nel muro, io mi vestivo in fretta e scappavamo in città. C’era piú di un’ora di strada. Arrivati in città ci si lasciava come tre che non si conoscessero. Io cercavo un’amica e passeggiavo con lei sotto i portici. Qualche volta incontravo Azalea, col naso rosso sotto la veletta, che non mi salutava perché non avevo il cappello.
Mangiavo pane e aranci in riva al fiume, con la mia amica, o andavo da Azalea. La trovavo quasi sempre a letto che leggeva romanzi, o fumava, o telefonava al suo amante, leticando perché era gelosa, senza badare affatto che ci fossero i bambini a sentire. Poi rientrava il marito e anche con lui leticava. Il marito era già piuttosto vecchio, con la barba e gli occhiali. Le dava poca retta e leggeva il giornale, sospirando e grattandosi la testa. – Che Dio mi aiuti, – mormorava ogni tanto fra sé. Ottavia, la serva di quattordici anni, con una grossa treccia nera arruffata, col bimbo piccolo in collo, diceva sulla porta: – La signora è servita –. Azalea s’infilava le calze, sbadigliava, si guardava a lungo le gambe, e andavamo a metterci a tavola. Quando suonava il telefono Azalea arrossiva, sgualciva il tovagliolo, e la voce di Ottavia diceva nell’altra stanza: – La signora è occupata, chiamerà piú tardi –. Dopo il pranzo il marito usciva di nuovo, e Azalea si rimetteva a letto e subito s’addormentava. Il suo viso diventava allora affettuoso e tranquillo. Il telefono intanto suonava, le porte sbattevano, i bambini gridavano, ma Azalea continuava a dormire, respirando profondamente. Ottavia sparecchiava la tavola e mi chiedeva tutta spaventata che cosa poteva succedere se «il signore» avesse saputo. Ma poi mi diceva sottovoce, con un sorriso amaro, che del resto «il signore» anche lui aveva qualcuno. Uscivo. Aspettavo la sera su una panchina del giardino pubblico. L’orchestra del caffè suonava e io guardavo con la mia amica i vestiti delle donne che passavano, e vedevo passare anche il Nini e Giovanni, ma non ci dicevamo niente. Li ritrovavo fuori di città, sulla strada polverosa, mentre le case s’illuminavano dietro di noi e l’orchestra del caffè suonava piú allegramente e piú forte. Camminavamo in mezzo alla campagna, lungo il fiume e gli alberi. Si arrivava a casa. Odiavo la nostra casa. Odiavo la minestra verde e amara che mia madre ci metteva davanti ogni sera e odiavo mia madre. Avrei avuto vergogna di lei se l’avessi incontrata in città. Ma non veniva piú in città da molti anni, e pareva una contadina. Aveva i capelli grigi spettinati e le mancavano dei denti davanti. – Sembri una strega, mammà, – le diceva Azalea quando veniva a casa. – Perché non ti fai fare una dentiera? – Poi si stendeva sul divano rosso nella stanza da pranzo, buttava via le scarpe e diceva: – Caffè –. Beveva in fretta il caffè che le portava mia madre, sonnecchiava un poco e se ne andava. Mia madre diceva che i figli sono come il veleno e che mai si dovrebbero mettere al mondo. Passava le giornate a maledire a uno a uno tutti i suoi figli. Quando mia madre era giovane, un cancelliere s’era innamorato di lei e l’aveva portata a Milano. Mia madre stette via qualche giorno, ma poi ritornò. Ripeteva sempre questa storia, ma diceva che era partita sola perché si sentiva stanca dei figli, e il cancelliere se l’erano inventato in paese. – Non fossi mai ritornata, – diceva mia madre, asciugandosi le lagrime con le dita su tutta la faccia. Mia madre non faceva che parlare, ma io non le rispondevo. Nessuno le rispondeva. Solo il Nini le rispondeva ogni tanto. Lui era diverso da noi, benché fossimo cresciuti insieme. Benché fossimo cugini non ci assomigliava di viso. Il suo viso era pallido, che neanche al sole diventava bruno, con un ciuffo che gli cascava sugli occhi. Portava sempre in tasca dei giornali e dei libri e leggeva continuamente, leggeva anche mangiando e Giovanni gli rovesciava il libro per fargli dispetto. Lo raccoglieva e leggeva tranquillo, passandosi le dita nel ciuffo. Il grammofono intanto ripeteva:
Mani di vellutòo
Mani profumatée
I piccoli giocavano e si picchiavano e mia madre veniva a schiaffeggiarli, e poi se la prendeva con me che stavo seduta sul divano invece di venire ad aiutarla coi piatti. Mio padre allora le diceva che bisognava tirarmi su meglio. Mia madre si metteva a singhiozzare e diceva che lei era il cane di tutti, e mio padre prendeva il suo cappello dall’attaccapanni e usciva. Mio padre faceva l’elettricista e il fotografo, e aveva voluto che anche Giovanni imparasse da elettricista. Ma Giovanni non andava mai quando lo chiamavano. Di soldi non ce n’erano abbastanza e mio padre era sempre stanco e rabbioso. Veniva in casa un momento e se ne andava subito, perché era un manicomio la casa, diceva. Ma diceva che non era colpa nostra se eravamo venuti su tanto male. Che la colpa era sua e di mia madre. A vederlo mio padre pareva ancora giovane e mia madre era gelosa. Si lavava bene prima di vestirsi, e si metteva della brillantina sui capelli. Non avevo vergogna di lui se lo incontravo in città. Anche il Nini a lavarsi ci prendeva gusto, e rubava la brillantina a mio padre. Ma non serviva e il ciuffo gli ballava sugli occhi lo stesso.
Una volta Giovanni mi disse:
– Beve grappa il Nini.
Lo guardai stupita.
– Grappa? ma sempre?
– Quando può, – disse, – tutte le volte che può. Ne ha portata anche a casa una bottiglia. Se la tiene nascosta. Ma l’ho trovata e me l’ha fatta assaggiare. Buona, – mi disse.
– Il Nini beve grappa, – ripetevo tra me con stupore. Andai da Azalea. La trovai sola in casa. Era seduta al tavolo in cucina e mangiava un’insalata di pomodori, condita con aceto.
– Il Nini beve grappa, – le dissi.
Alzò le spalle con indifferenza.
– Bisogna pure fare qualche cosa, per non annoiarsi, – disse.
– Sí, ci si annoia. Perché ci si annoia cosí? – domandai.
– Perché la vita è stupida, – mi disse, spingendo via il piatto. – Che cosa vuoi fare? Uno si stanca subito di tutto.
– Ma perché ci si annoia sempre tanto? – dissi al Nini la sera, mentre tornavamo a casa.
– Chi si annoia? Io non mi annoio per niente, – disse e si mise a ridere prendendomi il braccio. – Dunque ti annoi? e perché? tutto è cosí bello.
– Cosa è bello? – gli chiesi.
– Tutto, – mi disse, – tutto. Tutto quello che guardo mi piace. Poco fa mi piaceva passeggiare in città, ora cammino in campagna e anche questo mi piace.
Giovanni era avanti a noi qualche passo. Si fermò e disse:
– Lui ora va a lavorare in fabbrica.
– Imparo a fare il tornitore, – disse il Nini, – cosí avrò dei soldi. Senza soldi non ci posso stare. Ci soffro. Mi basta avere cinque lire in tasca per sentirmi piú allegro. Ma i soldi, quando uno li vuole, deve rubare o deve guadagnarseli. A casa non ce l’hanno mai spiegato bene. Si lamentano sempre di noi, ma cosí tanto per passare il tempo. Nessuno ci ha mai detto: va’ e taci. Questo bisognava fare.
– Se mi avessero detto: va’ e taci, li avrei sbattuti a calci fuori della porta, – disse Giovanni.
Sulla strada incontrammo il figlio del dottore che tornava dalla caccia col suo cane. Aveva preso sette o otto quaglie, e me ne volle regalare due. Era un giovanotto tarchiato, con dei gran baffi neri, che studiava medicina all’università. Lui e il Nini si misero a discutere, e Giovanni dopo mi disse:
– Il Nini il figlio del dottore se lo mette in tasca. Il Nini non è uno come tanti, non importa se non ha studiato.
Ma io ero tutta contenta perché Giulio m’aveva regalato le quaglie, e m’aveva guardato e aveva detto che un giorno si doveva andare insieme in città.
Adesso era venuta l’estate e cominciai a pensare a tutti i miei vestiti per rifarli. Dissi a mia madre che mi occorreva della stoffa celeste, e mia madre mi chiese se credevo che avesse i portafogli dei milioni, ma io allora le dissi che mi occorreva anche un paio di scarpe col sughero e non potevo far senza, e le dissi: – Maledetta la madre che t’ha fatto –. Mi presi uno schiaffo e piansi una giornata intera chiusa in camera. Il denaro lo chiesi a Azalea, che in cambio mi mandò al numero venti in via Genova a domandare se Alberto era in casa. Saputo che non era in casa, ritornai a portarle la risposta ed ebbi il denaro. Per qualche giorno io rimasi in camera a cucire il vestito, e quasi non mi ricordavo piú com’era la città. Terminato il vestito lo indossai e uscii a passeggio, e il figlio del dottore mi si mise subito accanto, comperò delle paste e le andammo a mangiare in pineta. Mi domandò che cosa avevo fatto chiusa in casa per tutto quel tempo. Ma gli dissi che non mi piaceva che la gente badasse ai miei affari. Allora mi pregò di non essere tanto cattiva. Poi fece per baciarmi e io scappai.
Stavo sdraiata tutta la mattina sul balcone di casa, perché il sole mi abbronzasse le gambe. Avevo le scarpe col sughero e avevo il vestito, e avevo anche una borsa di paglia intrecciata che m’aveva dato Azalea, purché le portassi una lettera in via Genova al numero venti. E il mio viso, le gambe e le braccia avevano preso un bel colore bruno. Vennero a dire a mia madre che Giulio, il figlio del dottore, era innamorato di me e la madre gli faceva delle lunghe scene per questo. Mia madre divenne di colpo tutta allegra e gentile, e ogni mattina mi portava un rosso d’uovo sbattuto perché diceva che le parevo un po’ strana. La moglie del dottore stava alla finestra con la serva, e quando mi vedeva passare sbatteva i vetri come avesse visto un serpente. Giulio faceva un mezzo sorriso e continuava a camminarmi accanto e a parlare. Non ascoltavo quello che diceva, ma pensavo che quel giovanotto grosso, coi baffi neri, con degli alti stivali, che chiamava con un fischio il suo cane, sarebbe stato presto il mio fidanzato e molte ragazze in paese ne avrebbero pianto di rabbia.

Venne Giovanni a dirmi: – Ti vuole Azalea –. Era già molto tempo che non andavo in città. Ci andai col mio vestito celeste e le scarpe, con la borsa e con gli occhiali da sole. In casa di Azalea c’era tutto in disordine, nessuno aveva ancora fatto i letti e Ottavia, coi bambini attaccati alla sottana, singhiozzava appoggiata alla parete.
– L’ha lasciata, – mi disse, – si sposa.
Azalea sedeva sul letto in sottabito, con gli occhi spalancati e scintillanti. Aveva un fascio di lettere in grembo.
– Si sposa in settembre, – mi disse.
– Ora bisogna nascondere tutto, prima che venga il signore, – disse Ottavia radunando le lettere.
– No, bruciarle bisogna, – disse Azalea, – bruciatele. Che io non le veda mai piú. Che io non veda mai piú questa faccia. Questa faccia stupida, cattiva, – disse strappando il ritratto di un ufficiale che sorrideva. E si mise a piangere e a urlare, battendo il capo contro la spalliera del letto.
– Ora le pigliano le convulsioni, – mi disse Ottavia, – succedeva qualche volta a mia madre. Bisogna bagnarle il ventre con dell’acqua fredda.
Azalea non permise che le bagnassimo il ventre, e disse che voleva restar sola e che andassimo a chiamare suo marito perché doveva confessargli tutto. Fu difficile persuadere Azalea a non chiamare nessuno. Le lettere le bruciammo sul fornello in cucina mentre Ottavia me ne leggeva dei pezzi prima di gettarle nel fuoco, e i bambini facevano volare la carta bruciata per tutta la stanza. Quando tornò il marito di Azalea io gli dissi che Azalea stava male ed aveva la febbre, e lui allora andò a cercare un medico.
Quando tornai a casa era notte e mio padre mi chiese dov’ero stata. Risposi che m’aveva chiamato Azalea, e Giovanni gli disse che era vero. Mio padre disse che poteva anche esser vero ma lui non sapeva, che gli avevano riferito che giravo col figlio del dottore e se era vero mi rompeva la faccia di schiaffi. Risposi che non m’importava niente e facevo il mio comodo, ma poi mi venne la rabbia e rovesciai la minestra per terra. Mi chiusi in camera e stetti due o tre ore a piangere, finché Giovanni mi gridò attraverso il muro che stessi zitta e li lasciassi dormire, che loro avevano sonno. Ma continuavo a piangere e il Nini venne sulla porta a dire che se gli aprivo mi dava i cioccolatini. Allora aprii e il Nini mi portò davanti allo specchio, perché guardassi il viso gonfio che avevo, e mi diede davvero dei cioccolatini e disse che glieli aveva regalati la sua fidanzata. Domandai com’era questa sua fidanzata e perché non me la faceva vedere, e lui mi disse che aveva le ali e la coda e un garofano nei capelli. Gli dissi che avevo anch’io un fidanzato ed era il figlio del dottore, e rispose: – Benissimo, – ma poi fece una faccia strana e si alzò per andarsene. Allora io gli chiesi dove aveva nascosta la grappa. Si fece rosso e rise, e disse che non erano cose che riguardavano una signorina.
La sera dopo il Nini non tornò a casa. Non tornò nemmeno nei giorni seguenti e non si vide piú la faccia del Nini, tanto che se ne accorse perfino mio padre, che pure era sempre distratto, e domandò dove s’era cacciato. Giovanni rispose che stava bene ma per adesso non veniva a casa. Mio padre disse:
– Finché gli piace di venire vengono, poi trovano di meglio e buongiorno. Son tutti uguali, figli e non figli.
Ma Giovanni poi mi raccontò che il Nini adesso era con la sua bella, che era una vedova ma giovane e si chiamava Antonietta.
Allora andai in città...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. La strada che va in città
  3. Copyright
  4. Introduzione - di Cesare Garboli
  5. Prefazione - di Natalia Ginzburg
  6. La strada che va in città
  7. Altri racconti
  8. Notizie sul testo a cura di Domenico Scarpa
  9. Antologia della critica
  10. Bibliografia
  11. Cronologia della vita e delle opere