Si parte, si parte, signori,
distintissimi viaggiatori.
Al fischio del capostazione,
saliamo nel ricco vagone.
Signori, in vettura, correte,
o a terra resterete
come la Chiocciola che va piano,
come l’Asino del villano,
come l’Ape che ha gran da fare
e non ha tempo di viaggiare,
come la Talpa che non ci vede,
come il Gatto che non ci crede,
e Compar Nano che, quale scorno!,
dorme fino a mezzogiorno.
– Signori, non posso darvi il biglietto per un soldo bucato, – disse malinconicamente l’impiegato della stazione, che si era fatto il suo sportello nel tronco della Vecchia Quercia. Era un gufo molto gentile e freddoloso e aveva gli occhiali. Il suo berretto era rosso e bianco.
Fu una vera tristezza vedere la faccia delusa di Tit, tanto che Caterí disse per consolarlo: – Non importa, Tit, – ma egli si morse le labbra perché soffriva, e si mosse per andarsene, cosí piano che sembrava stanchissimo. Allora la Vecchia Quercia disse all’impiegato:
– Cavaliere, perché mandate via quel ragazzo?
– Eccellenza, – disse il Gufo, – non ha soldi per pagare il biglietto –. E si soffiò il naso che era stato fuori dello sportello, al freddo.
– E non gli avete chiesto il suo nome?
– Non ha che un soldo bucato, Eccellenza.
– Chiedetegli il suo nome.
Tit aveva sentito e si voltò: – Mi chiamo Tit, – disse con orgoglio. L’impiegato lo guardò con meraviglia, e si confuse. La Vecchia Quercia sorrise:
– Infinite scuse, – disse l’impiegato, – ecco il biglietto.
Tit parve molto felice, e non cosí pallido come prima. Stava per suonare la sua tromba, ma si ricordò a tempo che essa non suonava piú. Il gufo porse a Tit una foglia di quercia, e non volle il soldo. In quel momento fra le foglie della Quercia si accesero tanti lumi rossi, e si udí un fischio; Tit prese Caterina per mano, e corse verso il treno che stava proprio per partire.
Era un bellissimo trenino rosso, e andava senza rotaie. Dentro, vicino a Caterí e a Tit, avevano preso posto una rondine che andava in Africa e uno scoiattolo che mangiava sempre; c’era poi una topina con una valigia di cuoio e una cuffia celeste:
– Quand’ero piccola, – raccontava la topina alla rondine, – ero molto cattiva, e la mia mamma mi diceva sempre: « Se continui, chiamo il Gran Topo nero ». Io tremavo, e stavo zitta. Ma una volta continuai, e il Gran Topo venne. Era tutto nero come un demonio, e si appoggiava ad un enorme bastone; e io pensavo già che fra poco mi avrebbe mangiata. Egli si avvicinò e mi disse con una vocina gentile: « Carina, mi regali codesta briciola di cacio che hai nella
zampetta? » Io gliela porsi tremando. Egli mangiò la briciola piano piano, poi si sedette e si mise a fare la calza, e se ne andò.
– E poi? – chiese lo scoiattolo.
– Cosí è finita.
– E la morale? – s’informò severamente lo scoiattolo.
– Probabilmente, – disse la rondine, – sarà questa: L’apparenza inganna.
– O forse, – borbottò lo scoiattolo, – Il diavolo non è brutto come lo si dipinge.
– O anche, – aggiunse un gallo venuto dallo scompartimento vicino per partecipare alla conversazione, – Bandiera vecchia, onor di Capitano!
– Che c’entrano qui le bandiere e i Capitani? – chiese la rondine.
– Come? Come? – strillò il gallo, – avete forse qualcosa da dire, voi, contro le bandiere e i Capitani?
– Ma per carità, – disse la rondine.
– E forse, – strillò sempre piú severo il gallo, – anche contro i galli e le galline?
– Non sia mai, – disse la rondine, – Però, voi, signore...
– Io? Che cosa avete da dire contro di me? – tempestò il gallo, furioso.
– Signori, signori, – disse la topina, – possibile che anche qui si debba litigare? Pensiamo piuttosto alla vera morale della storia.
– Forse, – mormorò timidamente un grillo zoppo, nascosto in un angolo del vagone e di cui nessuno si era accorto finora, – Il diavolo fa le pentole ma non i coperchi.
– Che rapporto hanno le pentole e i coperchi con questa storia?
– disse indignatissima la rondine. – Io trasecolo.
– Mah, cosí per dire, – mormorò il povero grillo; e si ritirò nel suo angolo.
– È una stupida storia, – dichiarò Tit. – Io conosco i topi neri, ho combattuto con loro, e so che sono ferocissimi. Una volta ne vidi uno che aveva infilzato diciotto topi bianchi in uno spiedo, e se li mangiava come crostini. Io allora gli tolsi di mano lo spiedo e infilzai lui. Poi lo portai al re dei Topi bianchi che aveva già messo cento topi alla ricerca del Topo nero e aveva promesso un gran premio a chi glielo portava. E invece, quando io glielo misi sotto gli occhi, incominciò a piangere, e non volle piú darmi il premio.
Tit sospirò, ma poi sembrò molto allegro, e disse:
– E io ho fatto un bellissimo scherzo al re bianco.
Caterí era presa d’ammirazione per Tit; tutti i viaggiatori, anche degli altri scompartimenti, stavano a sentirlo; egli aveva veramente l’aspetto di un re.
– Il re dei topi bianchi, – proseguí Tit, – ha una grande paura dei gatti. Ed io feci un gatto di cartone e glielo legai alla coda mentre dormiva. Quando il re dei topi bianchi si svegliò, e si vide il gatto dietro, cominciò a scappare. E il gatto sempre dietro, e lui scappava, ma il gatto gli stava sempre dietro, perché era attaccato alla sua coda. E ancora scappa, sapete, il re dei topi; eccolo, passa proprio in questo momento.
Tutti si affacciarono; si poteva vedere il re dei topi bianchi, che correva correva, col gatto di cartone tranquillamente appeso alla sua coda; negli occhi del povero re si scorgeva il piú grande terrore. Egli presto scomparve alla vista; era piú veloce del trenino rosso.
– Ecco, – disse Tit, trionfante.
Tutti lo guardarono con ammirazione; Tit si prese il viso fra le mani e incominciò a pensare. Doveva ricordare tutta la sua vita, molte, molte cose, perché nei suoi occhi passavano le piú diverse espressioni. D’improvviso, tutto il suo volto fu pieno di una grande commozione, ed egli guardò con affetto indescrivibile la trombetta d’argento.
– La mia piú grande impresa... – disse.
– Racconta, – gridarono tutti.
Ma Tit non volle raccontare. Egli si alzò, e andò al finestrino, col viso nascosto fra le mani. Si vedeva che era commosso, e nessuno osò disturbarlo. Quando si arrivò, tutti avrebbero voluto portare i suoi bagagli, ma egli non ne aveva e a nessuno volle cedere la trombetta d’argento, nemmeno per un minuto. Caterina lo seguiva, reggendosi al suo vestito stracciato.
Il paese pareva piuttosto una foresta di alberi immensi. A quell’ora tutti gli abitanti dormivano e solo le lucciole notturne giravano di qua e di là con un berrettino verde in testa, portando la loro lampada. Ai piedi degli alberi o anche su fra i rami, come nidi, stavano molte case e casette di legno, buie e chiuse. Solo, lontano, si vedeva una luce che veniva da una bella casetta di legno verniciata d’oro, con tante finestre e balconi.
– Dev’essere la casa del Gran Guardaboschi, – disse Tit, ...