Il tuo volto domani
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Il tuo volto domani

2. Ballo e sogno

  1. 336 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Il tuo volto domani

2. Ballo e sogno

Informazioni su questo libro

In questa seconda parte di Il tuo volto domani, ritroviamo il disorientato protagonista Jaime - o Jack, o Jacques, o Jacobo... -, la sua bella collega Pérez Nuix, il loro misterioso capo Tupra e, questa volta, tra gli altri, una coppia di variopinti italiani - lui, un malavitoso d'alto bordo, e lei, la sua procace e fin troppo disponibile moglie -, che daranno a Javier Marías la possibilità di mettere in mostra fino all'estremo le sue inesauribili capacità inventive, affabulatorie e lessicali, per una nuova puntata del suo piú importante romanzo dal respiro maestoso e appassionante e come sempre ricco di inaspettati colpi di scena.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2013
Print ISBN
9788806201098

III

Ballo

Magari mai nessuno ci chiedesse nulla, e quasi non ci domandasse, nessun consiglio né favore né prestito, neppure quello dell’attenzione, magari non ci chiedessero gli altri di ascoltarli, i loro problemi miseri e i loro penosi conflitti cosí identici ai nostri, i loro incomprensibili dubbi e le loro insignificanti storie tante volte intercambiabili e già sempre scritte (non è troppo ampia la gamma di ciò che si può tentare di raccontare), o quelle che anticamente venivano chiamate afflizioni, chi non ne ha o altrimenti ne va in cerca, «l’infelicità s’inventa», cito spesso tra me, ed è una citazione vera quando sono sventure che non vengono da fuori e che non sono sventure inevitabili oggettivamente, non una catastrofe, non un incidente, una morte, una rovina, un commiato, una calamità, una carestia, o la persecuzione rabbiosa di chi non ha fatto niente, di quelle è piena la Storia e anche la nostra, voglio dire questi tempi incompiuti nostri (e vi sono perfino commiati e rovine e morti che invece sono cercati o meritati o anche s’inventano). Magari nessuno ci si avvicinasse e dicesse «Per favore», o «Senti», sono le parole prime che precedono le richieste, quasi tutte: «Senti, tu sai?», «Senti, tu potresti dirmi?», «Senti, tu hai?», «Senti, volevo chiederti: una raccomandazione, un dato, un parere, una mano, denaro, un tuo intervento, o consolazione, una grazia, un favore, che mi conservi questo segreto o che cambi per me e tu sia un altro, o che per me tradisca e menta o taccia e cosí mi salvi». La gente chiede e chiede quello che le passa per la mente, tutto, il ragionevole e l’assurdo, il giusto e il piú abusivo e l’immaginario – la luna, si è sempre detto, e tanti l’hanno promessa dappertutto, perché continua a essere immaginaria –; chiedono i vicini e gli sconosciuti, quelli che si trovano alle prese con le difficoltà e quelli che piuttosto le provocano, i bisognosi e i benestanti, che in ciò non si distinguono: nessuno sembra mai accumulare abbastanza, nessuno si accontenta mai né si ferma nessuno, come se a tutti venisse detto: «Tu chiedi, chiedi con quella bocca, tu chiedi sempre». Mentre è vero che a nessuno si dice questo.
E allora uno va e ascolta, ascolta il piú delle volte, tante timoroso e tante anche allettato, nulla è altrettanto lusinghiero in linea di principio come essere in grado di concedere o negare qualcosa, nulla – questo anche arriva molto presto – tanto stucchevole e sgradito: sapere, pensare che uno possa dire «Sí» o «No» o «Vedremo»; e «Forse», «Vedrò», «Ti darò una risposta domani» o «Questo vorrò in cambio», a seconda del giorno e a suo assoluto arbitrio, a seconda che sia inattivo, generoso, annoiato, o abbia al contrario una fretta enorme e gli manchino pazienza e tempo, a seconda del suo umore o che voglia mettere un altro in debito o tenerlo in attesa e sospeso o desideri impegnarsi, perché nel concedere o nel negare – in entrambi i casi, o sia pure soltanto per aver dato ascolto – rimane avviluppato al supplicante, e ci si aggroviglia o ci si annoda forse.
Se si dà un’elemosina un giorno a un mendicante del vicinato, il mattino seguente sarà piú difficile negargliela, perché lui l’aspetterà (nulla è cambiato, continua a essere povero allo stesso modo, io non sono ancora meno ricco, e perché oggi no se ieri sí) e in un certo senso si sarà contratto un obbligo con lui: se lo si è aiutato ad arrivare a questa nuova giornata, si ha la responsabilità che questa non gli si volti contro, che non sia quella della sua sofferenza ultima o della sua condanna o della sua morte, e gli si deve tendere un ponte affinché la attraversi, e cosí un giorno dopo l’altro forse indefinitamente, non è tanto strana né gratuita quella legge di alcuni popoli elementari – o sono piuttosto logici – secondo la quale colui che salvava la vita a qualcuno si trasformava nel guardiano o responsabile perpetuo di quella vita e di quel qualcuno (a meno che si verificasse un giorno l’esatta corrispondenza e cosí rimanessero pari e potessero separarsi allora), come se si concedesse facoltà al salvato di dire al suo salvatore: «Se sono qui ancora è perché tu cosí hai voluto; è come se mi avessi fatto nascere di nuovo, quindi devi proteggermi e prenderti cura di me e salvaguardarmi, perché se non fosse per te mi troverei ormai fuori da ogni male e da ogni persecuzione, o già quasi in salvo nell’orbo e insicuro oblio».
E se al contrario uno nega il primo giorno l’elemosina al proprio mendicante vicino, avrà l’impressione il secondo di essere in debito, e forse quella sensazione andrà aumentando il terzo e il quarto e quinto, perché se il mendicante ha affrontato e superato quelle date senza il mio aiuto, come non riconoscergliene il merito e ringraziarlo per quello che mi ha risparmiato? E ogni mattina che passa – ogni notte alla quale lui sopravvive – si radicherà di piú in noi l’idea che ci tocca contribuire e che è il nostro turno. (Ma questo riguarda soltanto quelli che si soffermano sui cenciosi, e la maggioranza li tralascia, fa lo sguardo opaco e li vede soltanto come dei fagotti).
Cosí uno sta a sentire il mendicante che lo abborda per la strada e già è avviluppato; e sta a sentire il forestiero o lo smarrito che domanda di un indirizzo e a volte finisce per accompagnarlo, se si va nella stessa direzione e allora i due uniscono i loro passi e si trasformano l’uno dell’altro nell’insistente essere parallelo che tuttavia nessuno vede come di malaugurio né come fastidio o ostacolo, perché camminano insieme volontariamente sebbene non si conoscano e forse neppure si parlino durante quel percorso, mentre procedono (ed è il forestiero o lo smarrito quello che può sempre essere portato in un altro posto, verso un trabocchetto, un agguato, un terreno abbandonato, una trappola); e sta a sentire lo sconosciuto che si presenta alla porta per persuadere o vendere o evangelizzare, per cercare di convincerci sempre e sempre raccontando in fretta, e soltanto per avergli aperto già si è aggrovigliati; e sta a sentire l’amico al telefono con voce incalzante, o fuori di sé, o mellifluo – no, è piuttosto fuori misura –, implorante o esigente o minaccioso all’improvviso, e già con questo si è presi; e sta a sentire la moglie e i figli che quasi soltanto gli parlano cosí o soltanto cosí sanno ormai parlargli dall’offuscamento e dalla maggiore distanza, voglio dire chiedendo, e allora si dovrà prendere il coltello a serramanico o la lama per tagliare quel vincolo che finirà per schiacciarlo: anche loro li ha fatti nascere, i figli che non sono fuori da ogni male né da ogni persecuzione e che mai lo saranno, e anche li ha fatti nascere alla loro madre, che è ancora come loro perché ormai è inimmaginabile senza bambini – formano un nucleo, e mai si escludono – e questi sono inconcepibili senza quella figura che è loro ancora necessaria, tanto che lui deve proteggerla irrimediabilmente, prendersene cura e salvaguardarla – continua a vederlo come un suo compito –, sebbene Luisa non si renda conto del tutto o non con piena coscienza, e sia molto lontana nello spazio, e nel tempo mi si vada allontanando di momento in momento e a ogni giorno che passa. O mi si annuvoli ogni notte che affronto e attraverso e supero, e rimango senza vederla, non la vedo.

Luisa non si aggrovigliò né si annodò, ma invece rimase avviluppata una volta da una richiesta e da un’elemosina e finí per avviluppare un po’ anche me in esse, fu prima che ci separassimo e che io me ne andassi in Inghilterra, quando ancora non prevedevamo tutto l’allontanamento né le nostre schiene tanto voltate o non io almeno, lo si sa soltanto piú tardi quando si è perduta la fiducia o quando hanno perduta altri quella che avevano in te – se mai questo si viene a sapere, e io non lo credo, in fondo –; intendo dire che soltanto dopo, quando il presente è ormai passato e molto variabile e dubbioso e per questo si può raccontare (e mille volte si può raccontare, senza che due coincidano), ci rendiamo conto di come lo facevamo anche quando il presente era ancora presente e non era esposto alla sua negazione né alla sua torbidezza o penombra, o altrimenti non potremmo mettergli date e la verità è che gliele mettiamo, oh sí, siamo soliti poi datare tutto con tale precisione da far paura: «Ci fu un giorno in cui…», diciamo o ricordiamo come nei romanzi (che vanno sempre verso ciò che è segnato: lo indica la loro conclusione, lo determina; ma non tutti i romanzi lo conoscono), in certe occasioni da soli e a volte in compagnia, due che ricapitolano a voce alta: «Sono state quelle parole che hai lasciato cadere come se niente fosse al tuo compleanno quelle che mi hanno messo in guardia, o quelle che hanno cominciato a dissuadermi». «La tua reazione è stata deludente, e ho dovuto domandarmi se non avessi sbagliato con te; ma ciò avrebbe voluto dire che avevo sbagliato per troppi anni, poi forse eri cambiato». «Non ho sopportato quei rimproveri, cosí insistenti e ingiusti che ho pensato se non fossero soltanto un tuo pretesto, il modo migliore di farmi raffreddare; e davvero sono rimasto gelato». Sí, siamo soliti sapere quando qualcosa si guasta o si rompe o stanca. Ma speriamo sempre che si riprenda o si aggiusti o si recuperi – da sola a volte, come per arte di magia – e quel sapere non si confermi; o se notiamo che la cosa è ancora piú semplice, che qualcosa di noi infastidisce o dispiace o ripugna, facciamo a noi stessi volontari propositi di correggerci. Sono teorici e increduli, tuttavia, quei propositi. In realtà sappiamo che non saremo capaci, o che ormai nulla dipende da quel che faremo, né dal fatto che ci asteniamo. È la stessa sensazione che gli antichi avevano quando alle loro labbra o al loro pensiero affiorava quell’espressione che il nostro tempo ha dimenticato, o piuttosto respinto, e lo riconoscevano: «La sorte è tratta». E sebbene la frase sia pressoché abolita, quella sensazione permane, e noi ancora la conosciamo. «Non c’è piú niente da fare», questo sí me lo dico a volte.
Alla porta di un ipermercato o supermercato o pseudomercato in cui Luisa faceva la spesa, prendeva posto certi giorni una giovane molto giovane che oltretutto era straniera e madre ed entrambe le cose per partita doppia: infatti aveva due figli, uno di pochi mesi su una carrozzina malconcia e un altro piú grande ma molto piccolo, tra i due e i tre anni (questo lo calcolava Luisa, lo aveva visto ancora con i pannoloni sotto i suoi pantaloncini corti), che faceva la guardia alla carrozzina come un soldato, minuscolo pretoriano senz’armi; e non soltanto era romena o bosniaca la giovane, o forse ungherese – sebbene questo fosse piú improbabile, sono molti meno in Spagna –, ma soprattutto sembrava zingara. Non doveva avere piú di vent’anni, e i giorni in cui mendicava lí (non tutti, o non sempre Luisa la incontrava), stava sempre insieme alla sue creature, non tanto per suscitare piú pena quanto – interpretava Luisa – perché non doveva avere dove né con chi lasciarle. Erano parte di lei, tanto come le sue braccia. Erano il suo prolungamento, la giovane donna era con loro come il cane era senza zampa, secondo la visione di Alan Marriott quando aveva deciso di associare nella sua fantasia il suo a quell’altra ragazza zingara, e insieme gli si rappresentarono come coppia spaventosa.
La rumena passava ore in piedi sulla porta dell’ipermercato, ogni tanto si sedeva sui gradini dell’entrata e faceva dondolare da lí la carrozzina sul marciapiede, il bambino piú grande di vedetta. Se Luisa notò tutto questo non fu semplicemente per il tableau vivant, per il quadro, abbastanza efficace in ogni caso, ma anche molto ricorrente sebbene oggi sia proibita la presenza di bambini nell’accattonaggio. Luisa non è una di quelle che si muovono a pietà per chiunque, come neppure io. O forse sí, ma non fino al punto di mettere mano alla borsa, o io alla tasca, ogni volta che incrociamo un indigente, non potremmo far fronte a tutte le richieste a Madrid, non si guadagna quanto basterebbe per un cosí grande dispendio, le nostre noncuranti autorità rozze trasferiscono senza posa nella città piú grande, e semplicemente lasciano andare libere per le sue strade, ondate di clandestini che ignorano lingua, territorio e abitudini – gente appena introdottasi di frodo dall’Andalusia o dalle Canarie, o dalla Catalogna e dalle Baleari se provengono dall’Est, che non saprebbero neppure in quale paese rimandare indietro –, e che si arrangino senza documenti e senza denaro, la quantità di poveri sempre in aumento, e oltretutto poveri irregolari, disorientati, smarriti, erranti, incomprensibili, senza nome. Quindi Luisa non si soffermò a considerare il gruppo in quanto gruppo compassionevole in se stesso, come ce ne sono tanti, ma invece li individuò, attrassero la sua attenzione la giovane bosniaca e la sua sentinella bambino, intendo dire che vide loro, non le parvero indistinguibili né intercambiabili come oggetti di compassione, vide le persone al di là della loro condizione e della loro finzione e delle loro necessità, queste sí tanto vaste e condivise. Non vide una madre povera con dei bambini, ma quella madre concreta con quei bambini concreti, con il piú grande soprattutto.
«Ha una faccina cosí sveglia e cosí vivace, – mi disse di lui. – E quello che mi fa piú pena è la sua attitudine ad aiutare, a prendersi cura del fratello, a essere di qualche utilità. Quel bambino non vuole essere di peso, anche se non può fare a meno di esserlo, quasi nulla è quello che può fare da solo. Piccolo com’è, vuole partecipare, vuole collaborare, si vede quanto è affettuoso con il piccolo e cosí attento a quel che potrebbe succedere e a quello che sta succedendo. Trascorre lí molte ore, senza nulla con cui intrattenersi, sale e scende i gradini, si dondola un po’ dalla ringhiera, tenta di far oscillare un po’ la carrozzina ma per quello non ha le forze necessarie. Questi sono i suoi massimi divertimenti. Ma non si allontana molto dalla madre mai, non per mancanza di spirito d’avventura (si vede che è sveglio), ma come se avesse coscienza di come ciò presupporrebbe aggiungere un’altra preoccupazione per lei, e si vede che cerca di semplificarle le cose piú che può, o il piú che sa, e non sa molto. E a volte fa loro carezze sulle guance, alla giovane e al fratellino. Guarda in tutte le direzioni, verso tutti i lati, sta bene attento, sono sicura che ai suoi occhi cosí vivaci non sfugge l’apparizione di un passante, e alcuni deve ricordarli da una volta all’altra, me già probabilmente. Mi fa pena quell’atteggiamento cosí responsabile, cosí premuroso e partecipativo, quell’enorme volontà di essere utile. Ancora non gli compete –. Fece una pausa e poi aggiunse: – Immagina che cosa assurda. Fino a pochissimo fa non esisteva e adesso è pieno di preoccupazioni che neppure capisce. Forse per questo non gli peseranno, sembra allegro, e vuole molto bene a sua madre. Ma dev’essere ingiusta, oltre che assurda». Rimase pensierosa alcuni secondi, carezzandosi le ginocchia con entrambe le mani, si era seduta sull’orlo del divano alla mia destra, era appena rientrata da fuori e ancora non si era tolta l’impermeabile, sul pavimento i sacchetti con dentro quel che aveva comperato, non era andata direttamente in cucina. Le sue ginocchia mi erano sempre piaciute, con o senza calze, e per fortuna mi erano visibili quasi ad ogni momento, di solito portava le gonne. Poi disse: «Mi ricorda un po’ Guillermo, quand’era cosí piccolo. Anche in lui mi suscitava pena questo, non è soltanto perché loro sono poveri. Vederlo cosí impaziente di entrare nel mondo, o nelle responsabilità e nei doveri, cosí desideroso di essere al corrente di tutto e di dare una mano, cosí cosciente dei miei sforzi e delle mie difficoltà. E anche dei tuoi sebbene ti vedesse meno, anche se piú intuitivamente, ti ricordi. O piú deduttivamente».
Non me lo domandava, me lo ricordava soltanto, o consolidava il mio ricordo. Io continuavo a ricordarmene anche a Londra, quando non vedevo il bambino, e cominciavo a temere per lui, era molto paziente e protettivo con la sorella e spesso partecipava fin troppo e cedeva, come chi sa che è cosa nobile e retta che cedano sempre i forti davanti ai deboli non tirannici e non abusivi, un principio oggi antiquato, perché oggi di solito sono spietati i forti e dispotici i deboli; era anche protettivo con sua madre e non sapevo se addirittura con me stesso, adesso che mi sentivo esule e solitario e lontano, orfano secondo il suo criterio o il suo intendimento, soffrono molto nella vita coloro che fanno da scudo, e i sorveglianti, con il loro occhio e il loro udito sempre desti. E quelli che vogliono giocare pulito a oltranza, compreso quando combattono ed è in pericolo la loro sopravvivenza o quella dei loro esseri amati imprescindibili, senza i quali neppure si vive, o quanto meno non interamente.
«E ancora non è cambiato, – dissi a Luisa. – Desidererei che non lo facesse, ma a volte anche sí. C’è il rischio che finisca per perdere, a giudicare da come va il mondo. Credevo che avrebbe imparato a difendersi di piú non appena fosse andato a scuola e avesse assaggiato lí la minaccia, ma ormai sono passati anni e cosí non sembra. A volte mi domando se non sono un cattivo padre per non averlo addestrato, per non avergli insegnato ciò che conviene: astuzie, furberie, intimidazioni, cautele, lamenti; e ancora egoismo. Sarebbe doveroso preparare i propri figli, penso. Ma non è facile inculcare loro quel che è conveniente, se non piace. E lui è meglio di me, per adesso».
«Forse è fatica sprecata nel suo caso, oltretutto, – rispose Luisa. E si alzò come avesse fretta. – Scendo in strada prima che se ne vadano», disse. Per questo non si era tolto l’impermeabile e non aveva svuotato i sacchetti, sapeva di non essere ancora rientrata. «A quella ragazza le lascio di solito qualche moneta quando entro, ha una scatola, anche oggi gliene ho lasciate. Ma quando sono uscita mi ha chiesto una cosa, è la prima volta che mi chiede qualcosa, voglio dire con le parole, in uno spagnolo scarso e curioso, non è un accento riconoscibile e ci ha mescolato qualche espressione italiana. Mi ha chiesto che le comprassi delle salviettine per i bambini, di quelle umide, molto comode per pulirli, che escono in una striscia dalla scatola, insomma. Le ho detto di no, di comprarsele da sola, che già le avevo dato il denaro prima. E mi ha risposto: «No, denaro no, il denaro no». Ho continuato a ripensarci e credo di aver capito. Lei prende il denaro per suo marito, o per dei fratelli, o un padre, non so, per i suoi uomini. Tutto quello che è denaro non osa toccarlo senza il loro permesso, non può decidere per conto suo neppure una spesa, deve consegnarglielo e poi loro faranno fronte alle necessità come riterranno opportuno, forse pensando prima ai fatti loro. Quelle salviettine le riterranno superflue, un lusso, non le daranno i soldi per quello e che si arrangi. Ma io so bene che non lo sono, quei bambini passano ore lí, e saranno molto arrossati se lei non può pulirli in tempo. Perciò adesso vado a comprargliele. Non ci avevo pensato prima, lei non può disporre di quello che guadagna, neppure un centesimo, per questo mi ha chiesto la cosa stessa e il denaro non le serviva. Torno subito».
Quando tornò poco dopo si tolse l’impermeabile. Io avevo svuotato i sacchetti, nel frattempo, ogni cosa già al suo posto.
«Sei arrivata in tempo?», le domandai. Mi aveva suscitato una certa curiosità.
«Sí, devono rimanere lí fino all’ora di chiusura. Sono entrata, le ho comprato una scatola e gliel’ho data. Non immagini che faccia di allegria e di gratitudine. È sempre molto grata quella ragazza, molto sorridente, quando le do qualche moneta. Ma questa volta era diverso, era qualcosa per lei, per suo uso e per i bambini, non era parte dell’incasso comune, il denaro è tutto uguale e mescolato non si distingue. E il bambino piú grande è stato molto contento anche lui, nel vedere lei contenta. Con una faccia… compiaciuta, anche se la ragione non poteva capirla. Che carino che è, com’è vivace, si rende conto di tutto. Se non gli va troppo male, sarà un grande ottimista. Magari abbia un po’ di fortuna».
Io sapevo che Luisa era già stata avviluppata da quella richiesta, soddisfatta tardivamente e quindi con determinazione. Non aggrovigliata né annodata, ma certo avviluppata. Ogni volta che fosse tornata al supermercato e avesse visto la giovane ungherese e il suo piccolo ottimista, avrebbe pensato che dovevano essere ormai finite le salviettine della scatola, mentre ancora non si esauriva lo sporcarsi dei suoi bambini – lungo lungo, negli anni –. E se non l’avesse trovata, allora si sarebbe interrogata su di lei, su di loro, certo non per preoccuparsi o indagare, questo tanto meno (Luisa non è un’esibizionista, neppure di fronte a se stessa, né s’intromette nelle vite altrui). Ma io lo sapevo perché a partire da allora io stesso mi interrogai a volte su di loro, senza averli mai visti, e speravo che mia moglie mi raccontasse, se c’era qualcosa da raccontare al riguardo, in qualche altro giorno.
Alcune settimane dopo, mentre la gente comprava con avidità a causa del Natale ormai molto vicino, mi raccontò che la madre rumena le aveva chiesto di nuovo qualcosa con le parole. «Ciao, carina», cosí l’aveva salutata la giovane, il che ci aveva fatto supporre che prima di arrivare in Spagna doveva aver errato per l’Italia, da dove forse l’avevano espulsa senza tanti riguardi le sue brutali autorità xenofobe pseudolombarde, ancora piú ottuse e sconce di quelle psuedomadrilegne sprezzanti nostre. «Se non vuoi mi dici di no, ma io ti chiedo una cosa», era stato l’educato preambolo, la cortesia consiste in parte nella formulazione di ovvietà, che non sono mai d’incomodo al suo servizio. «Il bambino vuole una torta. Io non la posso comprare. Tu puoi comprarla a lui? Se vuoi? Sta qui, dietrallangolo», e indicò verso un incrocio, dove Luisa individuò subito una pasticceria fine e costosa in cui anche lei andava a comprare. «Se non vuoi no», aveva insistito, come se fosse ben cosciente di come fosse soltanto un capriccio. E di come valesse la pena di chiedere, tuttavia, perché era del figlio.
«Questa volta il bambino capiva tutto, – raccontò Luisa. – Era la trasmissione di un suo desiderio, e lo riconosceva. Insomma: la sua faccia che mostrava come stesse in sospeso non mi lasciò neppure il tempo di esitare, il povero bambino tratteneva il respiro in attesa del mio Sí o del mio No, con gli occhi spalancati». («Allo stesso modo di un reo con il verdetto, – pensai senza interromperla; – certo, un reo ottimista»). «Poiché non sapevo che cosa fosse esattamente per lei “una torta”, e oltretutto sembrava l’avessero assai bene individuata e che volessero proprio quella e non un’altra, dovemmo incamminarci tutt’e quattro verso la pasticceria, perché me la indicassero. Entrai io per prima in modo che quelli del negozio vedessero che il gruppo era con me, e ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Il tuo volto domani. 2. Ballo e sogno
  3. III. Ballo
  4. IV. Sogno
  5. Copyright