
- 512 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Dance Dance Dance
Informazioni su questo libro
Murakami Haruki in uniform edition Super ET, con le copertine di Noma Bar.
***
Il protagonista, un giornalista free lance costretto dalle circostanze ad improvvisarsi detective, si muove tra cadaveri veri e presunti attraverso una Tokyo iperrealistica e notturna, una Sapporo resa ovattata da una nevicata perenne e la tranquillità illusoria dell'antica cittadina di Hakone. Una giovane ragazza dotata di poteri paranormali, lo accompagna nella sua ricerca. Ma troviamo anche una receptionist troppo nervosa, un attore dal fascino irresistibile, un poeta con un braccio solo; e un salotto, a Honolulu, dove sei scheletri guardano la televisione.
Esiste un collegamento fra tutte queste cose, un senso anche per chi ha perso l'orientamento. L'unico modo per trovarlo è non avere troppa paura, e un passo dopo l'altro continuare a danzare.
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Il protagonista, un giornalista free lance costretto dalle circostanze ad improvvisarsi detective, si muove tra cadaveri veri e presunti attraverso una Tokyo iperrealistica e notturna, una Sapporo resa ovattata da una nevicata perenne e la tranquillità illusoria dell'antica cittadina di Hakone. Una giovane ragazza dotata di poteri paranormali, lo accompagna nella sua ricerca. Ma troviamo anche una receptionist troppo nervosa, un attore dal fascino irresistibile, un poeta con un braccio solo; e un salotto, a Honolulu, dove sei scheletri guardano la televisione.
Esiste un collegamento fra tutte queste cose, un senso anche per chi ha perso l'orientamento. L'unico modo per trovarlo è non avere troppa paura, e un passo dopo l'altro continuare a danzare.
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Informazioni
Capitolo ventinovesimo
La mattina dopo Yuki disse che voleva andare a trovare la madre. Siccome aveva il numero di telefono ma non l’indirizzo, fui io a chiamare e dopo qualche breve convenevole mi feci spiegare la strada. Viveva in una villetta in affitto vicino a Makaha, a circa mezzora di macchina da Honolulu. Le dissi che saremmo arrivati non prima dell’una. Andai a un autonoleggio e affittai una Mitsubishi Lancer. Fu un viaggio piacevolissimo. A centoventi all’ora sull’autostrada che costeggia il mare, con la radio a tutto volume, i finestrini completamente abbassati. La luce, la brezza marina, il profumo dei fiori erano dappertutto.
Chiesi a Yuki se sua madre vivesse sola: a un tratto mi era venuta questa curiosità.
– Figurati! – disse lei, storcendo lievemente la bocca. – Non potrebbe sopravvivere in un paese straniero da sola. Non ha il minimo senso pratico. Lei non può fare niente se non ha un uomo che si occupa di tutti i problemi. Sono sicura che starà con qualcuno. Probabilmente bello e piú giovane di lei. Come papà. L’hai visto, no? a casa di mio padre, quel suo amichetto gay tutto pulitino e insopportabile. Quello secondo me si fa il bagno due volte al giorno e si cambia le mutande almeno tre volte.
– Gay?
– Non te ne sei accorto?
– No, che ne so io?
– Come che ne so? Si vede subito, – disse Yuki. – Di papà non sono sicura, ma lui è completamente gay. Al duecento per cento.
Erano in onda i Roxy Music. Yuki subito alzò il volume della radio.
– Alla mamma sono sempre piaciuti i poeti. Poeti o aspiranti poeti, ma sempre giovani. Gli fa recitare delle poesie mentre lei sviluppa le foto o fa altre cose. È il suo hobby. Adora la poesia. È un’attrazione fatale. Peccato che papà non ne scrivesse. Ma la poesia non fa per lui.
Che strana famiglia, pensai. Uno scrittore tutto azione e avventura, una brillante fotografa, una figlia dai poteri medianici, un assistente gay e un giovane fidanzato poeta. E io che c’entravo, che ruolo giocavo in questa grande famiglia psichedelica? Forse quello un po’ ridicolo dell’amico di famiglia che si prende cura della ragazzina difficile? Mi tornò in mente il sorriso cordiale di Venerdí. Non sarà stato mica un sorriso di solidarietà? Ehi, un momento, la mia partecipazione è solo temporanea! Sono qui a prendermi un piccolo break, e finito questo tornerò a spalare la neve come ho sempre fatto per vivere, e non mi resterà piú tempo per giocare con voialtri. Per me questo è un episodio marginale. Voi continuerete la vostra vita, io tornerò alla mia. Io preferisco un mondo piú semplice.
Seguendo le istruzioni di Ame, imboccai l’uscita a destra prima di Makaha, e mi diressi verso la montagna. Su entrambi i lati si susseguivano case dalla struttura un po’ precaria, i cui tetti probabilmente non avrebbero resistito a un grosso tifone. Poi le costruzioni cessavano, e finalmente raggiungemmo il cancello di un parco residenziale. Il custode, che aveva un viso dai tratti indiani, ci chiese dove andassimo. Io dissi il nome di Ame, lui controllò che fossimo attesi e poi ci fece cenno di passare.
Oltre il cancello si stendeva un prato grande e molto ben tenuto. Alcuni giardinieri vi si aggiravano silenziosi su delle specie di golf cart, dedicandosi alla cura dell’erba e degli alberi. Degli uccellini dal becco giallo saltellavano sull’erba come grilli. Mostrai l’indirizzo a uno dei giardinieri, il quale mi indicò col dito una zona del parco dove si vedevano una piscina e un boschetto. Proseguii lungo la strada asfaltata che girava intorno alla piscina, scendeva e poi risaliva, e dopo poco fummo davanti alla villetta. Una costruzione moderna di gusto esotico. Sul davanti c’era una veranda, con una campanella che vibrava al vento. Intorno alla casa c’erano alberi per me sconosciuti, pieni di frutti altrettanto sconosciuti.
Yuki e io scendemmo dall’auto, salimmo alcuni gradini e suonammo alla porta. Il rumore metallico della campanella che ogni tanto vibrava alla brezza si mischiava piacevolmente alla musica di Vivaldi proveniente dalle finestre spalancate. Dopo qualche istante la porta si aprí e apparve un uomo. Un bianco, probabilmente americano, molto abbronzato, non troppo alto, fisicamente ben piantato ma completamente privo di un braccio. Portava una scolorita camicia aloha, calzoncini da jogging e ai piedi infradito di gomma. Poteva avere piú o meno la mia età. Non era esattamente bello, ma aveva un viso piacevole, un’espressione rassicurante accentuata in qualche modo dai baffi. Forse un po’ troppo macho per un poeta. Ma chi ha detto che non possano esserci poeti macho? Il mondo è bello perché è vario.
Mi guardò, guardò Yuki, guardò di nuovo me, sorrise e disse – Hello, – con voce tranquilla. Quindi, in giapponese, – Konnichi wa –. Strinse la mano a Yuki, poi a me. Una stretta di mano non molto vigorosa. – Prego, accomodatevi, – disse, in ottimo giapponese.
Ci guidò in uno spaziosissimo soggiorno, ci fece sedere su un morbido divano, poi andò in cucina a prendere un vassoio con tre bicchieri, due birre e una Coca-Cola. Noi due bevemmo la birra, mentre Yuki non toccò la sua Coca. Poi lui si alzò di nuovo e andò ad abbassare il volume dello stereo. La stanza sembrava uscita da un racconto di Somerset Maugham. Grandi finestre, ventilatori sul soffitto, e alle pareti decorazioni di artigianato hawaiano.
– Ame sta sviluppando. Sarà con noi tra dieci minuti, – disse. – Vi prega di aspettare. Io mi chiamo Dick, Dick North, e vivo qui con Ame.
– Molto piacere, – dissi.
Yuki guardò il paesaggio dietro la finestra senza dire niente. Tra gli alberi si intravedeva il mare luccicante. All’orizzonte, l’azzurro del cielo era interrotto da una sola nuvola, perfettamente immobile, a forma di teschio di pitecantropo. Con il suo bianco abbagliante e i suoi contorni ben definiti, aveva l’aria di una nuvola molto ostinata. Gli uccellini dal becco giallo le passavano davanti cinguettando. Quando il disco finí, col suo unico braccio Dick North lo tolse dal piatto, lo infilò nella custodia e lo ripose su uno scaffale.
– Lei parla un ottimo giapponese, – dissi. Non mi veniva in mente nient’altro da dire.
Dick North annuí, sollevò un sopracciglio, chiuse gli occhi e sorrise. Infine disse:
– Ho vissuto a lungo in Giappone. Una decina d’anni. Ci sono stato la prima volta durante la guerra, la guerra del Vietnam, mi è piaciuto, e finita la guerra sono andato a studiare in un’università di Tokyo, la Jōchi. Adesso mi dedico alla scrittura. Poesia, soprattutto.
Come previsto, pensai. Non era giovane né particolarmente bello, ma era un poeta.
– Traduco anche poesia giapponese in inglese: haiku, tanka eccetera, – continuò. – È un lavoro molto difficile.
– Posso immaginare, – dissi.
Sorridendo amichevolmente mi chiese se volevo ancora birra. Volentieri, grazie, dissi. Andò a prenderne altre due. Le stappò, le versò nei bicchieri e si mise a bere la sua con gusto. Faceva tutto con una disinvoltura e un’eleganza sorprendenti per un uomo con un solo braccio. Poi posò il bicchiere sul tavolo e guardò fisso davanti a sé, come se stesse mettendo a fuoco il poster di Andy Warhol alla parete.
– È buffo, ma pare che io sia l’unico poeta con un braccio solo che esiste al mondo, – disse. – Di pittori con un braccio solo ce ne sono, e anche di pianisti. Ho visto perfino un lanciatore di baseball senza un braccio, ma mai un poeta. Non capisco la ragione. Per scrivere poesie avere un braccio solo o averne tre non fa nessuna differenza.
Effettivamente, anche a me sembrava che il numero delle braccia non c’entrasse per niente con lo scrivere poesie.
– Le viene in mente il nome di un poeta con un braccio solo? – mi chiese.
Scossi la testa. Anche se a essere sincero non mi intendo molto di poesia, e in quel momento non mi veniva in mente nemmeno il nome di un poeta con due braccia.
– Ci sono perfino surfisti a cui manca un braccio, – insisté lui. – Si aiutano con i piedi. Alcuni sono davvero bravi. Io stesso pratico un po’ il surf.
Yuki si alzò, girò per la stanza, diede un’occhiata allo scaffale coi dischi e non sembrò trovare niente di suo gradimento, perché storse il naso con l’espressione di quando diceva «Che palle!» Senza la musica la pace era cosí profonda da essere quasi soporifera. Ogni tanto si sentiva il ronzio ovattato di una falciatrice elettrica, il tintinnio della campanella, voci in lontananza, il canto degli uccelli. Ma ogni rumore era subito riassorbito in quella pace assoluta. Sembrava che la casa fosse circondata da uomini trasparenti e silenziosi, dotati di aspirapolveri trasparenti e silenziosi come loro, pronti ad accorrere al minimo rumore per neutralizzarlo coi loro apparecchi.
– Posticino tranquillo, – dissi.
Dick North annuí, guardò con interesse il palmo della sua unica mano e tornò ad annuire.
– Sí, tranquillissimo. La tranquillità è la prima cosa. Almeno per persone che fanno lavori come i nostri. Sia io che Ame non sopportiamo la confusione, i posti rumorosi. Non le sembra che Honolulu sia tremendamente caotica?
Per la verità a me non era sembrato, ma non avevo voglia di addentrarmi in una lunga discussione su questo tema, quindi dissi che sí, in effetti… Yuki continuava a guardare il paesaggio con l’espressione «Che palle» stabilmente sul viso.
– Kauai è un ottimo posto. Tranquillo, pochi abitanti. Se potessi vorrei vivere lí. Oahu non mi piace: è turistica, troppe auto e molta criminalità. Se restiamo qui è per il lavoro di Ame. Deve andare a Honolulu due o tre volte alla settimana. Ha bisogno di materiali. E poi qui a Oahu è piú facile tenere contatti e incontrare gente. Ultimamente sta fotografando persone comuni, prese dalla strada. Pescatori, giardinieri, contadini, cuochi, operai, mercanti… gente di tutti i tipi. È una fotografa straordinaria. Le sue foto sono geniali, nel vero senso della parola.
Non avevo mai guardato le foto di Ame con particolare attenzione, ma anche questa volta, per buona misura, mi mostrai d’accordo. Yuki fece uno strano suono col naso.
Poi Dick North mi chiese che lavoro facevo. Gli spiegai che ero uno scrittore free-lance. Sembrò interessato. Forse dovette pensare che eravamo in un certo senso colleghi. Mi chiese che genere di cose scrivessi.
Qualsiasi cosa, risposi. Qualsiasi cosa mi chiedano di scrivere. È un po’ come spalare la neve.
Spalare la neve? ripeté serio, e poi ci pensò su qualche istante. Probabilmente non aveva capito. Esitai, non sapendo se era il caso di provare a spiegarglielo, ma proprio in quel momento entrò Ame e il discorso si fermò lí.
Portava una camicia a mezze maniche di tela grezza e degli shorts bianchi un po’ sciupati. Non era truccata, e aveva i capelli in disordine come se si fosse appena svegliata. Ma era ugualmente affascinante e aveva la stessa aura di raffinatezza e arroganza che mi aveva colpito quando l’avevo vista a Sapporo, nel ristorante dell’albergo. Bastava che mettesse piede in una stanza perché la sua presenza calamitasse l’attenzione di tutti. Senza bisogno di parlare, di fare sfoggio, all’istante.
Si diresse subito verso Yuki in silenzio, le mise le dita fra i capelli, glieli scompigliò un po’, poi le strofinò dolcemente il naso contro una tempia. Yuki non mostrò piacere né fastidio. Si limitò a scuotere la testa due o tre volte finché i capelli tornarono come prima, e poi voltò lo sguardo freddamente verso un vaso da fiori che era su uno scaffale. Ma questa freddezza era diversa dalla spietata indifferenza che aveva mostrato nei confronti del padre. Il suo atteggiamento rivelava un misto di affetto e imbarazzo. Tra madre e figlia si percepiva con chiarezza un flusso di corrente emotiva.
Ame e Yuki. Pioggia e neve. Makimura aveva ragione a ironizzare su quei nomi, a dire che erano degni di un bollettino meteorologico. Se Ame avesse avuto un altro figlio, chissà che nome avrebbe scelto.
Non si scambiarono nemmeno una parola. Nessun «Ciao» né «Come stai?» Dopo aver scompigliato i capelli della figlia e averle premuto il naso contro la tempia, Ame venne a sedersi accanto a me, tirò fuori un pacchetto di Salem dal taschino della camicia e ne accese una. Il poeta prese un portacenere e lo posò con garbo sul tavolino. Come chi inserisce un bel verso al posto giusto in un componimento. Ame vi gettò il fiammifero, espirò il fumo e disse:
– La prego di scusarmi, non potevo interrompere, – disse. – Una volta che comincio, non sono capace di smettere.
Il poeta andò a prendere una birra e un bicchiere per lei. E come prima stappò la bottiglia e la versò manovrando abilmente col suo unico braccio. Dopo avere aspettato che la schiuma si posasse, Ame ne bevve metà in un sorso.
– Lei fino a quando resterà alle Hawaii? – mi chiese.
– Non so, – dissi. – Non ho ancora deciso. Credo una settimana. In questo momento sono in vacanza, ma prima o poi dovrò tornare in Giappone e riprendere il lavoro.
– Dovrebbe fermarsi piú a lungo. Qui si sta bene.
– Ne sono convinto, – risposi. Ma era evidente che non prestava attenzione a quello che dicevo.
– Avete già mangiato?
– Sí, abbiamo preso dei sandwich lungo la strada, – dissi.
– E noi non mangiamo? – chiese al poeta.
– Se la memoria non mi inganna, non piú di un’ora fa ho fatto degli spaghetti e li abbiamo mangiati, – rispose lui senza scomporsi. – Un’ora fa era mezzogiorno e un quarto, il che porterebbe a concludere che abbiamo mangiato anche noi.
– Sei sicuro? – fece Ame distratta.
– Sicurissimo, – disse lui. Poi, sorridendo rivolto a me: – Quando lei lavora, si dimentica di tutto il resto. Non si ricorda piú se ha mangiato o no, dove si trova e cosa ha fatto finora. Nella sua mente si fa il vuoto. È per la troppa concentrazione.
F...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Dance Dance Dance
- Capitolo primo
- Capitolo secondo
- Capitolo terzo
- Capitolo quarto
- Capitolo quinto
- Capitolo sesto
- Capitolo settimo
- Capitolo ottavo
- Capitolo nono
- Capitolo decimo
- Capitolo undicesimo
- Capitolo dodicesimo
- Capitolo tredicesimo
- Capitolo quattordicesimo
- Capitolo quindicesimo
- Capitolo sedicesimo
- Capitolo diciassettesimo
- Capitolo diciottesimo
- Capitolo diciannovesimo
- Capitolo ventesimo
- Capitolo ventunesimo
- Capitolo ventiduesimo
- Capitolo ventitreesimo
- Capitolo ventiquattresimo
- Capitolo venticinquesimo
- Capitolo ventiseiesimo
- Capitolo ventisettesimo
- Capitolo ventottesimo
- Capitolo ventinovesimo
- Capitolo trentesimo
- Capitolo trentunesimo
- Capitolo trentaduesimo
- Capitolo trentatreesimo
- Capitolo trentaquattresimo
- Capitolo trentacinquesimo
- Capitolo trentaseiesimo
- Capitolo trentasettesimo
- Capitolo trentottesimo
- Capitolo trentanovesimo
- Capitolo quarantesimo
- Capitolo quarantunesimo
- Capitolo quarantaduesimo
- Capitolo quarantatreesimo
- Capitolo quarantaquattresimo
- Glossario
- Il libro
- L’autore
- Dello stesso autore
- Copyright