15 luglio.
– … avevi detto che era fatta, Shanmugham. Una settimana fa.
Mentre, di mattina, attraversava Juhu affondato nei cuscini di cuoio nero della sua Mercedes, masticando gutka dalla scatoletta di latta blu, Mr Shah guardava l’unica cosa che c’era da guardare.
Per tutta la notte la pioggia aveva flagellato Mumbai; adesso l’oceano si prendeva la rivincita.
Gonfiato dal temporale, spumoso di una schiuma sibilante come un riflusso acido, dissolveva la forza di gravità e la pietra, prendendo d’assalto le rampe che separavano la spiaggia dalla strada per frangersi sulla terraferma in raffiche incessanti di gocce che provocavano le grida della gente ammassata a guardare sotto ombrelli neri.
Shah disse all’autista di fare un lento giro del quartiere e, quando l’auto invertà la direzione di marcia, si spostò all’altro finestrino, cosà da poter continuare a guardare l’oceano. – Io me ne frego di quel vecchio insegnante e dei suoi sbalzi d’umore. Devi dire all’amministratore che non vedrà una rupia del suo regalino se non se la guadagna. Cosa gli abbiamo promesso, un extra da centomila? Non te l’avevo detto fin dal principio che quell’insegnante ci avrebbe dato dei problemi? E tu, Shanmugham, non venirmi mai piú a dire che una cosa è fatta finché non è fatta davvero, finché non c’è la firma nero su bianco, finché…
Shah scagliò il cellulare in un angolo dell’auto.
Aveva sperato che questa volta nessuno facesse storie. Con un’offerta cosà generosa. Ma c’era sempre qualcuno che faceva storie. La natura di quella stupida, stupida città . Cosa non avrebbe costruito se fosse stato a Shanghai: ospedali, aeroporti, centri commerciali di tredici piani! Invece lÃ, tutti quei casini anche solo per cominciare un semplice caseggiato di lusso…
Il muco nei suoi polmoni si era fatto piú denso; il suo respiro faceva pensare ai grugniti di un cane randagio. Tossà e sputò nel fazzoletto. Controllò con un dito il colore della saliva.
Si chinò a raccogliere il cellulare e fece di nuovo il numero di Shanmugham.
Parvez, l’autista, azionò i tergicristalli. Aveva ricominciato a piovere.
– Aspetta, – disse Shah. – Fermati qui.
I ragazzi alla fermata dell’autobus alla loro sinistra stavano applaudendo.
Dall’altro lato della strada, nella pioggia a catinelle, un uomo vestito di stracci ne stava portando un altro sulle spalle verso la fermata dell’autobus. Il tizio di sopra era coperto da un manto di tela cerata blu che li avviluppava entrambi. Quello di sotto sbandava per il vento, e per il peso che aveva sulle spalle; le auto gli facevano i fari attraverso la pioggia; però lui continuava ad avvicinarsi sempre di piú agli spettatori plaudenti che, grazie alla loro forza di volontà , lo stavano attirando verso la salvezza.
– Signore? – Shanmugham era in linea. – Vuole che passi all’azione con il Vishram? Devo fare quello che ho fatto l’anno scorso con quel progetto a Sion?
Shah guardava gli uomini nella pioggia. Aggiungendo la propria forza di volontà a quella degli altri, incitò i due finché giunsero barcollanti alla fermata dell’autobus.
Il costruttore sorrise; colpà il finestrino con un anello d’oro, e Parvez si girò a guardarlo.
21 luglio.
Sottili rughe si irradiavano dagli occhi di Ram Khare mentre leggeva dal suo compendio sacro, come esemplificazioni in miniatura della rete che il Destino aveva tessuto su di lui.
Da adolescente aveva sperato di giocare a cricket per Bombay nel Ranji Trophy; fra i venti e i trent’anni aveva sognato di comprarsi una casa tutta per sé; fra i trenta e i quaranta di portare in pellegrinaggio gli anziani genitori a Benares.
Adesso che aveva cinquantasei anni, scopriva che la sua vita si era ridotta a tre cose: la figlia Lalitha, ex alunna della scuola St Catherine’s, che ora studiava ingegneria informatica a Pune; il suo rum; e la sua religione.
La mattina era riservata alla religione. In piedi nella guardiola con un rosario di semi neri di rudraksha nella mano sinistra, teneva un dito sulla pagina 23: «Da quali segni si può conoscere un’anima? Ascolta le parole del nostro Signore Krishna: L’anima non è nata e non…»
Dei passi si avvicinavano al Vishram Society. Si voltò verso il cancello e disse: – Un minuto, Masterji. Un minuto.
Aprendo la porta di lamiera della guardiola, Khare si fece da parte, invitando Masterji a entrare. Il vecchio insegnante, che stava tornando a casa con un involto di coriandolo fresco per i Pinto, lo sollevò in alto: un gesto di protesta.
Khare disse: – Solo un minuto.
Disarmato dall’insistenza del servitore, Masterji si arrese, e cosÃ, per la prima volta in trentadue anni, entrò nella guardiola del Vishram Society.
– Ora, se ha solo un secondo di pazienza, signore, le mostrerò l’opera della mia vita.
In un angolo della guardiola c’era una grossa ragnatela; evidentemente Khare non aveva nulla da obiettare alla sua esistenza. Gli oggetti caduti a terra – ramoscelli, gessi, cappucci di penne, frammenti di fil di ferro – erano stati intercettati dalla ragnatela a qualche decina di centimetri dal suolo: sembrava un progetto di innocua magia nera cui Khare si dedicasse nel tempo libero.
– Questa è l’opera della mia vita, signore. L’opera della mia vita.
Le dita di Ram Khare erano posate su un altro oggetto magico: il lungo registro dei visitatori, col suo dorso rigido.
Fece correre l’unghia pulita lungo le colonne.
Nome dell’ospite
Occupazione
Indirizzo
Numero di cellulare
Scopo della visita
Persona da incontrare
Orario di entrata
Orario di uscita
Note (eventuali) / Osservazioni (eventuali)
Firma dell’ospite
Firma della guardia
– Ho preso nota di ogni singolo ospite, e ho registrato il suo numero di cellulare. È da sedici anni che lo faccio… – indicò i vecchi registri stipati in raccattatori di plastica. – Mi chieda chi è venuto in questo edificio la mattina del 1º gennaio 1994, e io glielo dirò. A che ora se n’è andato, e le dirò pure questo. Sedici anni, sette mesi e ventun giorni.
Khare chiuse il registro e tirò su col naso.
– Prima ancora facevo la guardia al Raj Kiran Housing Society di Kalina. Un buon condominio. Anche là hanno avuto un’offerta di riqualificazione da un costruttore. Un uomo ha rifiutato di firmare l’offerta – un giovanotto forte e sano, non come lei – e una mattina è caduto dalle scale e si è rotto le ginocchia. Ha firmato dal letto d’ospedale.
Masterji chiuse gli occhi per un secondo.
– È una minaccia, Ram Khare?
– Nossignore. Le sto solo comunicando che nella mia testa c’è un serpente. Lungo e nero.
La guardia spalancò le braccia.
– E volevo che questo serpente nero lo vedesse anche lei. Ogni giorno Mrs Puri o Mrs Saldanha o qualcun altro vengono a bussare alla sua porta e le chiedono: «Ha deciso? Firmerà ?» E ogni giorno lei dice: «Ci sto pensando». Quanto si può andare avanti cosÃ, Masterji? Ora, per me non fa alcuna differenza che lei dica sà o no. Se l’edificio rimane in piedi, tengo il lavoro qui. Se crolla, lo prendo da un’altra parte. Però…
Ram Khare aprà la porta per il suo ospite: – … c’è la questione del mio dovere verso di lei. E adesso, qualunque cosa accada, io il mio dovere l’ho fatto. Il Signore Krishna ne ha preso nota.
E con ciò tornò al suo compendio sacro: «… non muore. Non può far male e non le si può far male. È invincibile, immortale e…»
Che faccia tosta, pensò Masterji dirigendosi verso l’androne dello stabile. Parlare di un «serpente nero» nel Vishram.
Avrebbe dovuto lamentarsi con l’amministratore. Mrs Rego aveva ragione, Ram Khare beveva troppo. In quella guardiola c’era odore di melassa.
Mrs Puri era alla finestra, e lo guardava da dietro la grata.
– Mrs Puri, – gridò lui, – lo sai cosa mi ha appena detto Ram Khare? Ha detto che dovrei preoccuparmi di cosa potreste farmi tu e gli altri vicini.
Sotto i suoi occhi, lei chiuse la finestra e abbassò gli scuri. Non mi avrà visto, pensò Masterji. Anche a lui capitava spesso di non accorgersi di persone che aveva proprio davanti. Dopo una certa età era inevitabile.
Entrò nell’edificio, con il coriandolo in mano.
Mrs Puri si rifugiò davanti allo specchio della sua camera, e per calmarsi si spazzolò i lunghi capelli neri.
Quella mattina mentre usciva il marito aveva inveito contro di lei. La prima volta che lo faceva in presenza di Ramu. Lui di quel vecchio non si era mai fidato. Era stata lei a definire Masterji «un gentiluomo inglese». Era stata lei a paragonarlo a un fico d’India.
Percependo il turbamento della madre, Ramu le si sedette accanto, e imitò i suoi gesti con una spazzola fantasma. Lei lo vide e, grata, singhiozzò un poco.
Poi diede una pulita al cellulare strofinandolo sull’avambraccio e rifece il numero.
– Gaurav, sono ancora io, – disse. – Perché non vieni qui, Gaurav? Parla con lui. Porta Ronak. Cambierà idea: è tuo padre. Non essere testardo come lui, Gaurav. Devi venire a trovarlo. Fallo per la tua zia Sangeeta.
Si strofinò di nuovo il cellulare sull’avambraccio, lo posò sul tavolo e si voltò verso il figlio.
– Non è incredibile, Ramu? Tutti quei manghi, per tutti quegli anni. Li tagliavo in lunghe strisce sottili e glieli mettevo in frigo. Te lo ricordi, vero?
Udà Masterji che apriva il frigo per versarsi un bicchiere di acqua fredda.
– Che vecchio egoista e avido è diventato, Ramu. Vuole portarci via i nostri armadi di legno...