Nel tempo di mezzo
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Nel tempo di mezzo

  1. 272 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Nel tempo di mezzo

Informazioni su questo libro

Vincenzo Chironi mette piede per la prima volta sull' Isola di Sardegna - «una zattera in mezzo al Mediterraneo» - nel 1943, l'anno della fame e della malaria. Con sé ha solo un vecchio documento che certifica la sua data di nascita e il suo nome, ma per scoprire chi è lui veramente dovrà intraprendere un viaggio ancora più faticoso di quello affrontato col piroscafo che l'ha condotto fin lì. A Nuoro trova ad attenderlo il nonno, Michele Angelo - maestro del ferro, che gli farà da padre e da complice in parti uguali -, e soprattutto sua zia Marianna, che vede nell'inaspettato arrivo del nipote l'opportunità per riscattare un'esistenza puntellata dalla malasorte.
Anni dopo, quando ormai a Nuoro la presenza di Vincenzo Chironi sembra scontata, naturale come il mare e le rocce, la forza del sangue torna a far sentire il suo richiamo. Perché quando Vincenzo conosce Cecilia, che ha «gli occhi di un colore che non si può spiegare», innamorarsi di lei gli sembra l'unica cosa possibile. Anche se è promessa sposa di Nicola, con cui lui è mezzo parente... Se è vero che «la disobbedienza chiama il castigo», forse è anche vero che quell'amore è l'ultimo anello di una catena destinata a non aver fine.
Dopo l'epopea di Stirpe, Marcello Fois - con una lingua capace di abbracciare l'alto e il basso, e di potenziare lo scorrere del tempo - dipinge un mondo in cui i paesaggi sono vivi come i personaggi che li abitano. Una Sardegna nitida e soprattutto mai oleografica. E lo stupore continuo della natura - che osserva impassibile gli amori degli uomini e le loro sconfitte, i dolori dietro ai quali si affannano così come le gioie fugaci - diventa lo sguardo che permette a quelle storie di appartenere a ciascuno di noi.
«Nemmeno quelli che sembrano cambiamenti improvvisi, improvvisi lo sono veramente. D'improvviso c'è solo il momento in cui ne prendiamo coscienza». *** «Il ponte costruito da Fois con questo romanzo è una struttura salda e oscillante, integra e vibratile. Ha in sé una selvatichezza animale e una misura vitruviana: la qualità sostanziale che appartiene a chi sa pensare il mondo in forma di frasi, a chi si prende cura del vuoto e lo trasforma in trama». Giorgio Vasta, «la Repubblica» *** « Nel tempo di mezzo di Marcello Fois è uno dei più robusti romanzi di questa stagione (...) È un romanzo dalla solida epica, una storia dove le azioni originano fatti definitivi, dove il narrare di Fois è intessuto di forti echi omerici». Michele De Mieri, «l'Unità»

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2012
Print ISBN
9788806202651
eBook ISBN
9788858405543
Parte seconda

1946-1956

La mente è il suo proprio luogo, e dentro di sé
può fare dell’inferno il cielo, e del cielo un inferno.
J. MILTON, Paradiso perduto.

Il mondo visibile

Tutto il primo anno trascorse a mostrare in giro quel Chironi ritrovato. Marianna aveva ripreso a uscire rinnovando camicette e gonne che non indossava dai tempi in cui, in quanto commendatoressa, contava ancora qualcosa. Prima cioè che suo marito, il commendator Biagio Serra-Pintus, venisse ucciso in un tentativo di rapimento. Lei era una di quelle che veniva rubricata in quanto fascistona, ma come si fosse trattato di un peccato venialissimo. Finita la guerra poi era d’obbligo dimenticare, per chi poteva permetterselo. In ogni caso di quello che dicesse la gente sul suo conto a lei non importava, ora l’imperativo era mostrare questo figlio, questo nipote, questo fratello che li avrebbe ripagati di qualunque privazione subita.
Da quando la febbre del ritorno del Chironi straniero si era sparsa prima in casa poi nell’intero quartiere, la pace sembrava finalmente finita, tanto che Marianna cominciò persino a fingere di lamentarsene. A Michele Angelo parvero benedetti quei giorni in cui c’era qualcosa di cui lamentarsi.
Qui la felicità assunse i contorni misurati di coloro che, di fronte a una vincita colossale, non vogliono umiliare gli avversari.
Perché il ritorno a casa di un nipote insperato, sconosciuto, persino ignorato per tanto tempo, significava che tutto, tutto poteva ricominciare. Già si mormorava che di lí a poco il fabbro avrebbe riaperto l’officina e che l’impresa dei Chironi sarebbe passata al giovane continentale, che, dicevano, aveva studiato. In quanto alla somiglianza col padre morto in guerra si diceva che fosse una prova indiscutibile, qualcosa che non si poteva negare, e come tale, un premio alla modestia con cui i sopravvissuti di quella famiglia avevano accettato gli strali della sorte.
Vincenzo non tardò ad abituarsi all’adorazione silenziosissima con cui era costantemente osservato dalla zia. E all’incredulità che costringeva suo nonno a toccarlo, sfiorarlo, tutte le volte che gli passava accanto.
Tra padre e figlia nascevano discussioni a proposito del fatto che lei, la zia, trattasse come un bambino quel nipote che era un uomo fatto, e che lui, il nonno, facesse ancora fatica a rendersi conto che c’era. Qualche volta, con segreto senso di colpa, rimestava nel calderone del passato e si diceva che quell’opportunità, e cioè la vita che rinasceva in quella casa, non era nient’altro che uno scherzo del destino, e che sarebbe stata portatrice di ulteriori sofferenze piuttosto che di gioie.
Dal punto di vista di Michele Angelo, il purgatorio dentro il quale aveva vissuto con la figlia fino a quel momento era stata una benedizione di nulla di fatto. Una stasi, una sonnolenza, un torpore da cui, forse, non era stato positivo risvegliarsi.
Che guardasse con diffidenza il corso degli avvenimenti era comprensibile. Sarebbe stato comprensibile per chiunque tranne che per Marianna la quale, al contrario, considerava l’arrivo di Vincenzo una rinascita e un premio. Acqua per la radice disseccata e zucchero per mondare i tempi amarissimi.
Due anni scarsi erano passati a guardarsi e misurarsi come avrebbero fatto preda e predatore; certo non c’era dubbio che fosse amore, ma, alle volte, si manifestava come diffidenza. Vincenzo non capiva fino a che punto quel luogo, dove era arrivato per destino, fosse anche il suo luogo. Poi si diceva che un luogo vero e proprio lui non l’aveva avuto mai, a meno che non si considerasse casa l’istituto dove aveva trascorso gran parte della sua vita.
E Michele Angelo questo sentimento in particolare lo capiva, lo leggeva e sapeva interpretarlo. Lui stesso, all’età di nove anni, era stato portato via dall’orfanotrofio. Lui stesso aveva guardato intorno a sé nella casa di Giuseppe Mundula – l’uomo che lo aveva allevato e instradato verso il mestiere di fabbro – con gli stessi occhi con cui, ora, Vincenzo guardava casa sua. Ma Marianna come avrebbe potuto capire tutto questo? Lei procedeva come procedono le donne di questa terra, senza tentennamenti di fronte all’amore. E che Marianna fosse innamorata del nipote non c’era alcun dubbio.
Qualche volta si spaventava lei stessa del grado di furioso attaccamento con cui considerava quell’uomo fatto, quel ragazzo, quel bambino. Di volta in volta poteva vedere quante sfumature lo legassero al padre, suo fratello. Per questo gliene parlava ogni volta che poteva. E a tavola le capita di ricordare quel giorno in cui lei e «mamma», la nonna che Vincenzo non ha conosciuto e che oggi sarebbe troppo contenta del suo arrivo, insomma quel giorno in cui accompagnarono al postale suo padre Luigi Ippolito che allora era anche piú giovane di lui e se ne andava al fronte. Con la divisa perfetta e il viso assorto di chi va a fare qualcosa di meraviglioso e terribile insieme. Sí insomma, quella volta, quando lei non aveva ancora quindici anni. E si ricorda tutto, tutto proprio: la luce del mattino, l’odore di carburante, lo sguardo del fratello che era insieme deciso e incerto… Non so se capisce… E Vincenzo fa segno che sí, che è comprensibile. In fondo si trattava di qualche mese, neppure un anno, prima che lui fosse concepito… Cosí a Marianna si rompe la voce perché arriva al punto in cui devono salutarsi e Luigi Ippolito, meraviglioso in divisa, le dice di badare ai vecchi, e glielo dice con quella dolcezza ferma che aveva lui, quella specie di attenzione distratta, quello sguardo concentrato e perso. Perché suo padre aveva studiato e quanto sapeva lo faceva esistere lí e altrove contemporaneamente, non come gli ignoranti che si trovano in un posto per volta. No, lui è lí, ma è come se fosse già partito. E poi parla con una voce strana, che è la sua, ma allo stesso tempo è quella di un altro. Capisce? Vincenzo fa cenno di sí, con un sorriso. Marianna si entusiasma: ora, lo sguardo che ha ora, è esattamente lo stesso di suo padre: lí e altrove. Proprio adesso, con quella luce, se si guardasse allo specchio vedrebbe Luigi Ippolito. Oh, come può non considerarsi una benedizione quest’opportunità che la vita le sta offrendo? Vincenzo obbediente si alza e va alla porta finestra dove può specchiarsi nel riflesso dei vetri, ma non vede nulla di diverso da quello che si aspetta. Ha messo su qualche chilo rispetto al suo arrivo, ma niente di che, è come una pianta succulenta che abbia ottenuto finalmente il giusto grado di annaffiatura.
Oltre i vetri la piccola foresta nel cortile è diventata piú fitta, perché è primavera inoltrata, e tutto fiorisce sboccia cresce a vista d’occhio. Da lí quella natura pare prepotente, restia a qualunque moderazione: i gelsomini si contorcono e diffondono un profumo violentissimo, le ortensie, che Marianna tiene in ombra, debordano dallo spazio loro assegnato, una piccola prateria di aspidistre, con enormi fiori che altro non sono se non fiori di fiori; e cosí le invadenti siepi di passiflora che fanno frutti ovali e fiori carnosi e che contengono in sé gli strumenti del martirio di Cristo. Lo sapeva questo? Vincenzo fa cenno di no. E Marianna corre in cortile, attraversa i sentieri che solo lei conosce per raggiungere quei fiori e strapparne uno e portarlo al cospetto del suo principe. Lo vede? Ecco il martello e i chiodi con cui il Salvatore è stato inchiodato alla croce, vede? E questi peli azzurri, raggi celesti, intensi, sono il Paradiso dove i giusti saranno accolti. E tutto questo in un fiore, ci pensa? Ci pensa a quanto perfetta sia la natura nel suo concentrare e sviluppare? Nel segnalare se stessa in ogni cosa, nel suo immenso, costante variare partendo da pochissime cose? Sí, sí, certo che sí. Lo sa bene Vincenzo che viene da un posto altrettanto sobrio e altrettanto magniloquente. Certo, ha capito da subito che concentrazione è la parola chiave di quel posto che ora lo accoglie. Concentrazione nel senso che quanto avviene in piccolo produce immensità, improvvisamente. Visibile, non dispersa. Potrebbero volare uccelli del paradiso e colibrí tra le fronde di quel cortile; potrebbero riposare scimmie nane tra i rami delle prugne di san Giovanni o dell’alloro; strisciare serpenti corallo sulla terra battuta e arrampicarsi vigogne fino all’apice del muro di cinta. E sarebbe perfettamente logico. Tutto potrebbe succedere in quello spazio che è limitato e immenso insieme. E produce segnali come le file di formiche che si arrampicano lungo il tronco del melo cotogno per indicare che in cima, tra i germogli freschi, si sono annidati parassiti mellifori, sicché quegli eserciti in marcia, per la conquista del miele prodotto dagli invasori, indicano senza dubbio che l’albero, apparentemente rigoglioso, è, nei fatti, in preda al morbo, esattamente come il mondo fuori da quel cortile. Questo Vincenzo lo capisce. Ha studiato e lo capisce. Come la comparsa a frotte dei pipistrelli che volteggiano all’imbrunire in masse scure scattanti, segno che il delirio ronzante non si è placato, che, fuori di lí, dilagano le piaghe terribili di anofeli e dociostauri. Ora che la guerra degli uomini si è spenta per sfinimento, per impossibilità di trovare un senso, ecco che prosegue ostinatissima la guerra delle conseguenze: quella dei campi trascurati, del bestiame abbandonato, del banchetto degli insetti, appunto. Le zanzare a milioni di milioni hanno infettato le zone costiere attraverso febbri malariche che dilagano ormai da anni raggiungendo livelli di cronicità; ma non basta: spinte dal vento africano caldissimo sono arrivate, a cumulonembi talmente compatti da oscurare il sole, le cavallette.
Lui adesso, in piedi davanti a lei, è l’espressione dell’invisibile. Ciò che per anni ha covato sotto la cenere. Lui, adesso, è la dimostrazione che lei ha fatto bene a resistere per tutto questo tempo. Ha fatto bene a non cedere quando tutt’intorno impazzava la carneficina. C’erano tante cose che avrebbe potuto raccontare a questo nipote: quella sua vicenda personale che l’aveva fatta «fascistona» agli occhi della gente, per esempio. Per esempio provare a spiegargli di come gli avvenimenti convulsi del mondo circostante si fossero manifestati per lei sotto forma di «prendere o lasciare». Anche il destino di sposare un uomo che non si ama avrebbe potuto cercare di raccontargli; persino il miracolo di mettere al mondo una figlia e l’orrore di vedersela morire addosso.
A Vincenzo tuttavia quella vicenda l’aveva raccontata Mimmíu qualche tempo prima. Grazie a lui, grazie alla sua parentela certificata e per via della sua provenienza esotica, Vincenzo era stato accolto nella comunità dei nuoresi. Qualche volta aveva pensato che si trattasse di un club talmente esclusivo da considerarsi davvero fortunato a essere stato ammesso. Tuttavia era stato Mimmíu a dirgli della zia, del perché fosse «fascistona» e del perché, nonostante questo, fosse rispettata dalla gente.
Era capitato per caso, al bancone di un bar, quando un giovanotto poco piú che adolescente gli era passato accanto.
– Quello è Nicola Serra-Pintus, siete parenti di entratura.
Vincenzo aveva guardato Mimmíu con curiosità e una certa punta di sgomento da questo improvviso affastellarsi di parenti. – Parenti di entratura? – aveva ripetuto.
L’altro, dopo aver scrollato le spalle, si era versato da bere: – Suo zio era il marito di tua zia, – aveva detto con semplicità arcaica. – Loro erano gente importante, ma povera, si sono mangiati tutto… Non te l’hanno raccontato? – aveva chiesto. Vincenzo aveva fatto segno di no. – Insomma un matrimonio importante, famiglia importante e famiglia ricca. Perché voi siete ricchi davvero: te l’hanno detto? – Vincenzo si era limitato a fare una smorfia col labbro inferiore. – E comunque lui era amico dei fascisti, era podestà di Ozieri, ma a Ozieri non c’è mai arrivato –. E qui si era interrotto. Vincenzo aveva atteso che proseguisse, ma Mimmíu non l’aveva fatto. – Vado, – aveva detto invece a sorpresa, – che domani mattina devo alzarmi presto perché dall’Ispettorato agrario stanno cercando gente per la lotta contro le cavallette, hai sentito?
Vincenzo aveva sentito anche lui quanto stava succedendo.
Marianna trema al solo pensiero di vedere il suo giardino in preda alle cavallette. Vincenzo in piedi davanti a lei ne percepisce il tremore. – Tu hai avuto una figlia, – dice, e basta. Marianna risponde col capo sperando che lui la veda nel riflesso dei vetri della porta finestra. – Avrebbe vent’anni adesso, – sussurra, e basta.
Il silenzio diventa compatto, zia e nipote sono congelati in una specie di discorso sotterraneo. In una fissità totale che si spezza solo quando devono spostarsi per fare entrare in casa Michele Angelo.
È stato in officina. Sono passati abbastanza mesi da accarezzare l’ipotesi che la vita possa ricominciare anche da quel punto di vista. Eppure c’è andato da solo, per paura che una simile eventualità potesse essere fraintesa dal suo preciso interlocutore e considerata una sfida. Cosí, in silenzio, mentre Vincenzo e Marianna, in cucina, parevano avere cose da discutere fra loro, Michele Angelo ha deciso di rientrare in officina. Superando le piante di limoni e assottigliandosi per occupare lo spazio tra il vaso e la porta, ha infilato le chiavi, ha aspettato in quella posizione assurda un tempo lunghissimo poi, finalmente, ha aperto.
La prima cosa che ha percepito è stata l’odore. Lí, in quel momento, la vista ha come abdicato finché i polmoni del vecchio non hanno potuto accumulare tutto l’aroma asciutto e piccante del ferro. La magia dell’olfatto si è sviluppata come un’immagine istantanea di fornaci e sudore, di suoni, di squilli, di sfrigolii, di soffi… E poi di freddo e caldo insieme, di gelo e incandescenza, di nerezza e luminosità, di morbido e duro.
Tutto vorrebbe in quel momento Michele Angelo fuorché vedere. Perché sa che quando finalmente anche la vista interverrà non ci saranno appelli. Infatti ecco, improvvisamente, la vista, ed ecco che ciò che temeva si concretizza: è dolore feroce per quella solitudine, per quel silenzio, quella stasi. La polvere ha ricoperto gli attrezzi di una nebbia sottile, come se anche lei volesse contribuire ad addolcire quella visione terribile di forza che diventa inerte, di potenza che si è spenta, di vita che è definitivamente morte.
Michele Angelo cade a sedere. Ora sa perché, per tutto quel tempo, non ha mai trovato il momento adatto per parlare col nipote dell’ipotesi di riaprire l’officina. Lo sapeva anche prima, lo sapeva da sempre, ma vederlo incarnato, quel motivo, ora fa male.
Nella postazi...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Nel tempo di mezzo
  4. Parte prima. 12-17 ottobre 1943
  5. Parte seconda. 1946-1956
  6. Parte terza. 24 dicembre 1959
  7. Parte quarta. 1972 e 1978
  8. Il libro
  9. L’autore
  10. Dello stesso autore
  11. Copyright