Quasi una preghiera
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Quasi una preghiera

  1. 200 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Quasi una preghiera

Informazioni su questo libro

La preghiera è spesso intesa come un recitar formule e un domandar cose. Per Adriana Zarri, invece, le formule sono soltanto il vestito che ci mettiamo addosso ma la sostanza resta sotto. La preghiera è piuttosto un parlare portando con sé tutte le nostre interrogazioni, osservazioni, lamenti. Con dolci abbandoni e fantasiose svagatezze più ancora che con calcolate richieste.
In queste pagine c'è un interlocutore costante, un «tu». Questo tu è il Signore, naturalmente, e nello stesso tempo è un uomo vicino agli altri uomini e alle loro vite. Perchè queste non sono preghiere, ma quasi preghiere, sono un diversamente pregare. Sono conversazioni, canti, riflessioni, indignazioni e meditazioni sul mondo e sulla natura. «Perchè io amo pregare seguendo il ritmo stagionale», dice Adriana Zarri, e proprio le stagioni sono le quattro grandi articolazioni di questo libro.
C'è l'inverno con cui inizia e si chiude l'anno: i giorni sono freddi e corti, eppure l'inverno e utile e la neve è bella: «Sotto la neve pane», dice il proverbio. Già a febbraio il filo d'erba inizia a premere tenacemente sotto la cresta della terra per vedere il sole.
C'è la primavera, il momento dell'anno in cui il terreno che pareva morto rivive, il cielo cambia di colore e si celebra la Resurrezione che, come accade nella natura, è un riaprirsi alla vita. C'è l'estate, stagione panica, in cui è bello distendersi per terra e sentire il suolo crepitare sotto i nostri corpi.
C'è l'autunno che un po' è morte e gli alberi sono spogli, ma è anche il periodo in cui si spilla il vino nuovo e si celebrano i santi. Non i santi «deboli e dolciastri», ma piuttosto quelli che tengono gli strumenti dei mestieri in mano e sono proprio come noi: «Gente che si accorge del sole che nasce e che tramonta, che vede quando viene l'inverno e ripone gli abiti estivi nell'armadio».
Quasi una preghiera è una sorta di calendario dall'eremo che, con estrema naturalezza, mette insieme le occasioni liturgiche e quelle quotidiane, perchè nel mondo di silenzio e contemplazione di Adriana Zarri il ritmo della natura e dell'anima scorre insieme. Così come Un eremo non è un guscio di lumaca, anche questo è un libro che parla a tutti: credenti e non credenti, a chi ama starsene in silenzio e a chi invece vuole far sentire alta e forte la propria voce.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2013
Print ISBN
9788806215101
eBook ISBN
9788858407202

Primavera

La terra che pareva morta ora rivive

Signore, è proprio marzo, e il ventuno inizia primavera. Una stagione, si sa, non ha scadenze brusche, come un taglio di netto; anche se il ciclo astronomico ha un inizio che si misura in giorni e in ore, e si può segnare sul calendario. Ma, nella concretezza della terra, il cambio di stagione è graduale e noi già ne avevamo notato molti segni (cosí come forse noteremo qualche avanzo d’inverno, qua e là, anche dopo il ventuno, come toppe di neve, rimaste negli angoli piú ombrosi). Però la primavera ormai s’impone. L’avvertiamo nell’odore dell’erba appena nata che inverdisce ogni angolo di prato e lo decora di pratoline bianche. Poi, via via, tutti i fiori e le farfalle e il tepore dell’aria.
La terra che pareva morta ora rivive e, proprio in primavera, noi celebriamo la resurrezione. Il cristiano non ama la morte. Nessun uomo, Signore, ama la morte e tutti ne hanno un orrore comprensibile. Ma il cristiano, al di là dell’orrore naturale, non può amarla perché essa è «lo stipendio del peccato» come dice la Bibbia. E il nostro non è il Dio dei morti ma dei viventi. La morte è l’ultimo nemico che Cristo è venuto quaggiú a vincere. E l’ha vinta per lui e per noi. Ma l’ha vinta attraversandola e restandone preda, per tre giorni.
Noi pure dobbiamo entrare in questo ventre nero che ci partorirà alla nuova vita. E saremo affidati alla terra, come l’agricoltore a lei affida la semente, fiducioso nella germinazione.
I cimiteri, dove i morti non si murano in celle di cemento ma si depongono sotto la terra, in primavera fanno tenerezza. Anche sul morto cresce la vita e questo è simbolo della resurrezione. Però i fiori e l’erba e le lucertole appena uscite dal letargo e saettanti tra le tombe non basterebbero a consolarci, se non credessimo che, al di là del simbolo, la resurrezione è una realtà vissuta dal Cristo e attestata dalla fede.
Forse, per chi non crede, questo risorger della terra ha l’amaro sapore di una beffa o, al piú, è una consolazione transitoria che dura il tempo di una stagione breve, presto bruciata dall’arsura estiva e appassita dall’autunno. Perché ci saranno ancora autunni, e inverni, e geli, e morte sulla terra; ma, alla fine, sappiamo che vincerà la vita.
E la vita, Signore, è il piú grande di tutti i sacramenti: quello che regge tutti gli altri e al cui interno i mezzi di salvezza si dispiegano, seguendo i ritmi dell’anno solare e del calendario liturgico, segnando le tappe esistenziali di ciascuno di noi. E, in queste tappe, c’è il nascere, il crescere, il peccare e il venir perdonati, l’aver fame e il venire sfamati, l’innamorarsi e il formare famiglie, e, alla fine, l’essere consolati dal morire, mediante l’unzione degli infermi.
In queste tappe c’è il nascere e il morire, e in mezzo l’arco della vita. Ma, dopo la morte, c’è un altro ponte che trasborda di là: nella vita risorta e senza fine.
Alimenta, Signore, ti preghiamo, la nostra fede nella resurrezione perché, senza, saremmo disperati. E noi, invece, abbiamo sete di speranza.
Quando ci prende il dubbio (anche un credente ha dubbi) mostraci queste pratoline, queste lucertole, riemerse dal buio della terra e ritornate a crogiolarsi al sole.
Non è una dimostrazione filosofica – lo so – e neanche un grande argomento teologico. Ma neanche il dubbio dispone di argomenti: piú spesso si nutre di scetticismo e di paure. A esso facci opporre fiducia e speranza: fiducia in te, Signore, che hai parlato e ci hai promesso quella vita che non conoscerà mai piú la morte. Speranza e attesa di poterti raggiungere, in quel beato regno, dove ci aspetti.
C’è uno dei canoni della messa che dice proprio cosí: che tu ci aspetti. Tu, che non hai bisogno di nulla, aspetti noi; e da noi quasi poi hai voluto farti dipendente, in quest’attesa che noi potremmo anche deludere.
Ma noi non ti deluderemo.
Cammineremo per le vie del mondo, attraverso primavere ed estati e autunni e inverni. Quante cene concederai, Signore? Potremmo avere davanti anni e anni; o questo marzo potrebbe anche essere l’ultimo. Non lo sappiamo né te lo chiederemo. Opereremo con l’impegno di chi ha davanti molta vita e col distacco di chi ha davanti la sua morte.
Tu, Signore, conservaci in questa disposizione di vigilante attesa; e, quando ci chiamerai, dacci di saperti rispondere con serena fiducia e di incamminarci lietamente verso quel mondo dove «non ci sarà piú la morte, né lutto, né pianto, né dolore» ma solo la tua paziente attesa, la tua pietosa misericordia, la primavera eterna del tuo amore.

Io ti ho portato in braccio

La natura, Signore, si risveglia e ci racconta la gioia di vivere e di ricominciare, ogni momento. Si risveglia la terra dal lungo sonno dell’inverno, si risveglia l’aurora dal nero manto della notte; la terra si riveste di verde, l’aurora si riveste di luce; «tutto canta e ride di gioia», recita un salmo.
Gli animali escono dal letargo e le lucertole riprendono a saettare sui muri; l’aria si anima di piccoli insetti e le farfalle riprendono a posarsi sui fiori.
Le api ricominciano la loro dolce fatica, alla ricerca del miele, nascosto nel cuore delle corolle colorate. Anche le vespe, con pungiglione piú maligno, ronzano la loro felicità di vivere. E gli uccelli preparano il nido per la cova.
Davvero tutto canta di gioia; eppure non sempre il nostro cuore canta in unisono col mondo; a volte ci sono sfasature, quasi diremmo incomprensioni tra noi e la terra rifiorente. Perché non sempre noi abbiamo voglia di rifiorire, di continuare il ritmo della vita: quel ritmo sempre nuovo che, a volte, ci sembra sempre vecchio.
Dobbiam mettere in conto anche questa stanchezza, questa polvere che si è posata sulla vita e che non siam capaci di detergere. Quando la polvere si posa sulle foglie dura poco; il cielo, prima o poi, se n’accorge e manda un acquazzone a lavare la terra; e gli alberi nuovamente risplendono di verde lustro e ripulito.
Dovremmo imparare, a questa scuola, a lavarci dalla stanchezza e dalla noia per riprendere alacremente lo stupendo mestiere della vita. Ma non sempre ci mettiamo alla scuola delle cose, che è poi la scuola tua, o Signore dei vivi.
Dopo il peccato antico la morte noi l’abbiamo dentro e ci rosicchia, poco a poco, come un tarlo nascosto. Tutto ci appare triste e faticoso; e il rinascere lieto della terra quasi un’offesa alla nostra perduta volontà di vivere.
In queste ore buie noi, Signore, ti chiediamo ragione di questo nostro penare e faticare. Come Giobbe ti poniamo domande alle quali tu non sempre rispondi in modo convincente.
Forse vuoi metterci alla prova, o forse le tue risposte sono diverse da quelle – logiche, razionali – che noi ci attenderemmo: sono risposte esistenziali piú profonde che abbiamo disimparato a cogliere, come se ne avessimo perso l’alfabeto, noi cosí intellettualisti e tecnicisti che sappiamo comprendere quasi solo le ragioni della ragione e non quelle del cuore e della vita.
Noi vorremmo sempre una presenza palese; e la tua invece è spesso silenziosa, misteriosa, nascosta; sia questa una tua scelta o sia una nostra incapacità di coglierti in dimensioni piú sottili. E ce ne lamentiamo. Dobbiamo rimproverare te o di noi stessi dobbiamo lamentarci? È certo che, tra la tua presenza e la nostra percezione, sovente c’è una sfasatura come tra il risvegliarsi della terra e il nostro torpido dormire.
C’è un apologo orientale che ben descrive questa situazione. Un uomo, sul finir della vita, ha come una visione o un sogno: vede il percorso della sua esistenza segnato da due orme parallele che procedono, di pari passo, lungo gli anni e gli eventi di quella sua passata stagione. E comprende che si tratta della traccia lasciata dal suo cammino e da quello di Dio, che lo ha accompagnato.
Però, in uno dei percorsi, ci sono dei punti vuoti e, guardando a ritroso, l’uomo si accorge che essi coincidono coi momenti piú dolorosi della sua lunga vita. Il fatto lo lascia perplesso e, varcata la soglia della morte e trovatosi faccia a faccia con Dio, gliene chiede ragione: «Perché, Signore, proprio nei giorni piú desolati, non mi sei stato, come sempre, vicino ma anzi mi hai abbandonato? Ecco lí le mie orme solitarie; e tu dov’eri in quei momenti?»
Gli risponde il Signore: «Tu vedi un’orma soltanto perché, in quei giorni, io ti ho portato in braccio».
Ecco, facci comprendere, Signore, che, anche quando non ti vediamo, tu sei lí; facci credere, con incrollabile fiducia, alla tua presenza costante, al tuo amore perennemente vigile. Perché tu ti sei innamorato di noi; e non si può essere innamorati a giorni alterni. Tu ci ami ogni giorno, anche se noi non sempre lo vediamo.
Dacci occhi, Signore, per vederlo, e dacci cuore per crederlo, al di là d’ogni umana percezione. Dacci forza per camminare; ma quando la nostra forza si esaurisce, dacci fede per credere che tu cammini anche per noi.

Ti ringrazio per tutti i passi che vanno

Dietro al fogliame scuro delle piante l’aria rabbrividisce, si allontana, si dirada in un albore di perle pallida. Il cielo latteo rileva il profilo delle cose che si protendono e si allungano, in un’esilità ansiosa e affascinata, nel silenzio di una luce quasi lunare.
L’alba pallida e bianca trascolora la densità della notte. La compattezza del cielo si ammorbidisce e naufraga in una lontananza di luce sperduta, tremante di trasparenze fragili come sottile vetro. Un lago limpidissimo di acqua sommerge le fioriture astrali.
Nel cielo il giorno avanza lento e timido; e sulla terra ogni ombra si fa luce, ogni macchia colore. I fantasmi dalle nere braccia accennanti si schiariscono in rami lucidi di scorza giovine e di tenere foglie, i mostri chini in agguato fioriscono in cespi accesi di petali aurati. E la rugiada, appesa a ogni stelo, è dolce lacrima nell’occhio di un bambino consolato.
La luce è scarsa come al tramonto ma il suo colore è diversissimo: piú vergine, piú bianco. La sera il sole è stanco e il cielo consumato dal lungo splendore meridiano; la terra impolverata di passi e l’aria densa di respiri. Ora tutto è lavato e come in un bagno d’acqua lucida, fatto duro e splendente da una corazza di gelo mattinale. La notte ci ha puliti dalla polvere e ci ha rifatto le strade sotto ai passi. Abbiamo lasciato al giorno morto la nostra stanchezza di vivere e ci troviamo fanciulli, ancora all’inizio del cammino.
Al sommo delle case gli embrici si sono accesi come gerani in fiore. Le donne si affacciano spalancando le braccia nell’aprire le finestre e gli uomini escono dalle porte e incominciano a camminare.
Exibit homo ad opus suum
et ad operationem suam usque ad vesperum.
E io ti ringrazio, Signore, per quelle donne che si affacciano e per questi uomini che camminano; per questa strada che si perde, lunga come la vita, e per tutti i passi che vanno.
Voglio anch’io abbandonarmi a questo giorno che è una pagina nuova, che si è aperta nel cielo, che è una strada di ore che porta vicino alla tua casa. Voglio passare, tra questa piantagione di ore come un mietitore tra i covoni di grano per giungere, stasera, con le braccia ricolme.
Ma tu stammi davanti, Signore, per liberarmi la strada, per difendermi dalla stanchezza affinch’io giunga, stasera, dietro alla traccia dei tuoi passi.
Scuoti la polvere dal vestito e l’abitudine dal cuore; liberami dal male del tempo, tu che sei nuovo in eterno. Come cancelli la notte e vesti l’aria di luce, cosí anche con me, Signore: dispogliami di tutto per rivestirmi della novità. La novità sempre vecchia e sempre giovine, la novità che non ha piú tempo né casa, la novità che sei tu, perennemente te.
Essere me, senza sviarmi né perdermi, essere me, senza forzarmi e falsarmi, essere me senza alienazioni e fanatismi, senza la superstizione dell’esser me stessa perché anche questa – lo so bene – è una forzatura che falsa. Essere me che è semplicemente essere: senza aggettivi, dove tu mi hai messa a vivere e a guardarti. Non voglio esser niente di piú: appena una piccola cosa, nel tuo pugno. E quando verrà la sera che mi trovi nascosta, Signore, nel cavo della tua mano!

Grazie per il giallo, il viola, il rosso, il verde

Ed ecco, Signore, che stamane comincerò in maniera insolita, lodandoti per il rosso e per il viola. Perché stamane, nell’ora che di solito dedico alla meditazione, ho visto, dalla finestra, il bucato steso dai miei vicini; e c’eran panni rossi e panni viola accostati, con le tinte esaltate dal sole. L’aria attorno vibrava, come di onde cromatiche, e il cielo, il prato, l’erba erano tutti rutilanti.
Ho cercato di mettermelo dentro, questo tripudio di colori, e di farne l’oggetto di una meditazione che fosse, ancora piú, contemplazione.
I bravi padri gesuiti insegnano a fare la «composizione di luogo». Ebbene, ho cominciato a immaginarmi come sarebbe stato un mondo senza colori. Non dico un mondo grigio perché anche il grigio è un colore, aristocratico e raffinato (pensiamo a certe sinfonie di grigi diversi, quali si possono godere nelle giornate di nebbia, pericolose per la viabilità, ma tanto belle da vedere!) Intendo proprio senza colori affatto; e non riuscivo neanche a immaginarlo, tant’è distante dalla nostra esperienza. Ma una cosa capivo: che un mondo simile sarebbe stato molto brutto.
Ho poi cominciato a immaginare lo sgrovigliarsi lento dei colori dal gran gomitolo del caos. Alcuni studiosi sostengono che il primo colore emerso al mondo fosse il giallo, nelle sue varie sfumature (che è poi il colore prevalente dei primi fiori della primavera). E poi, via via, l’azzurro del cielo, il verde dei prati, il giallo delle messi, il viola dei mari tempestosi, il rosso delle nuvole al tramonto: tutti i colori dell’arcobaleno: quel grande arco del cielo, reso, da Dio, simbolo dell’alleanza. Il mondo si anima, vibra e prende vita proprio grazie ai colori; e penso allora quanto sia giusto, Signore, ringraziarti per questa bellezza che hai seminato sulla terra.
E come Francesco compose il Cantico delle creature, esprimendo la sua riconoscenza per il sole, la luna, l’acqua, il fuoco e tutto quanto popola l’universo, io vorrei comporre un canto, tanto piú piccolo e modesto, rendendoti grazie per il giallo, il viola, il rosso, il verde e tutti i colori coi quali hai tinteggiato il mondo.
Non sono realtà a sé stanti, però nessuna realtà ne è priva. Non esiste un colore con una sua consistenza, come sospeso sul vuoto; però nemmeno esiste un oggetto senza questo apporto cromatico. I colori sono come la buccia delle cose, l’esterno che irradia vibrazioni luminose. Perciò ringraziarti dei colori significa ringraziarti di tutto ciò che esiste ed esiste colorato (e, senza colore, sarebbe quasi inconcepibile).
Perciò, Signore, ti ringrazio perché hai fatto belle tutte le cose, dando loro varietà non soltanto di forma ma anche di tinte. E ti ringrazio per il mio germano che tanto verde ha sulle piume del capo e pennellate di viola sulle ali. Quando – ondeggiando come fanno le anitre – si sposta verso il sole i suoi colori si accendono e le anitrelle sue consorti gli fan corona intorno, felici di uno sposo cosí bello. E ti ringrazio anche per le anitrelle femmine, per il loro piumaggio meno acceso ma fors’anche piú fine e piú discreto: del color della terra e dei canneti, dov’è il loro ambiente originale. Con quella tenuta mimetica si confondono tra le ramaglie e cosí sfuggono ai nemici. Perché tu, o Dio, hai dato a ciascuno il proprio rischio e la propria difesa: e alle anitre hai dato quel loro piumaggio sale e pepe, del color della terra.
Ed anche ti ringrazio per il mio gatto grigio-tigrato che ha pennellate nere sul fondo argento del pelame (ed un altro ne ho, di un mantello piú caldo, color delle castagne che, in autunno, si colgono nei boschi).
E ti ringrazio per le fioriture degli alberi da frutto: il bianco dei ciliegi, il rosa dei peschi e il bianco-rosso dei meli. E poi, dopo la fioritura, sui rami nudi, ecco il mantello delle foglie, con tutte le sfumature del verde.
Ti ringrazio per le messi di giugno, macchiate di fiordalisi e di papaveri. E, in autunno, per la terra bruna e per la dolce sinfonia dei grigi. Poi, in inverno, c’è il bianco della neve. Il bianco è la somma dei colori, è la somma d...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Quasi una preghiera
  3. C’è chi ti cerca nel vento e chi ti trova nella brezza
  4. Inverno
  5. Primavera
  6. Estate
  7. Autunno
  8. Copyright