Michele Mari
La stiva e l’abisso
Einaudi
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L’albatros che avesse sorvolato quel lembo d’oceano per ore ed ore non avrebbe scorto altro che un’immensa distesa d’acqua, e solo dopo numerose volute nel cielo, aguzzando la vista, avrebbe riconosciuto una piccola macchia. Attratto dal segno, l’avrebbe puntato dapprima in obliqua picchiata, poi piú cauto con lente spirali fino a discernere, sbiadita nella foschia, una nave.
Il pesce che ne avesse visto la nera mole passare al di sopra ne ignorerebbe la forma, ma vivrebbe. Questo pesce invece è affiorato, e vede che quella nave è un veliero: un vascello a tre alberi. Un altro guizzo e al suo occhio non sfugge trattarsi di un vecchio galeone da guerra riattato al commercio, con gli sportelli dei cannoni sigillati di pece ed i ponti scorciati; senza farsi distrarre dalle remore e dai cirripedi che l’ondeggiare dell’acqua continuamente scopre e discopre fra le alghe lungo la linea di galleggiamento, il pesce punta deciso verso l’enorme poppa panciuta, bramoso del nome: ed è in questo istante che l’uccello lo coglie e lo strappa nell’aria, davanti a quell’insegna.
Se il pesce fu a tempo a leggere il nome, ora lo sta compitando agonizzante nel cielo.
Oggi è un mese giusto che giaccio nel letto. Se non raggiungiamo al piú presto un porto ove farmi tagliare la gamba, per me sarà finita. Ho visto abbastanza gangrene per sapere che questa infezione non ci metterà molto a mangiarmi tutto come s’è già mangiata la mia gamba. Se Rainerio non fosse stato ucciso dai Wakiki ora gli direi taglia Rainerio, taglia qui in alto, ma attento a non esagerare… Menzio insiste perché mi faccia operare da un altro, ma non mi fido. I migliori son morti, è morto anche Octavio, non rimangon che bruti. Se penso alla mia ciurma mi vengono i brividi: invero non ho mai visto uomini piú sinistri di questi. Il Governatore mi assicurò che provenivano dalla Maestranza di Copa, ma io ho visto i loro tatuaggi, e so che il Governatore ha mentito. Tatuaggi cosà si fan solo nell’Isola del Fuoco, dove stan gli assassini.
Se la bonaccia non cessa io penso che andrà a finire in questo modo: estrarrò a sorte il marinaio che dovrà amputare, quegli non sarà all’altezza e mi maciullerà inutilmente: atroci, inauditi dolori mi negheranno il deliquio. Devo decidere, finché sono lucido, se vale la pena di rischiare o se è piú saggio lasciar dilagare il marciume: in materia di tanto momento non voglio che altri decida per me, a cominciare da Menzio.
– Allora?
– Come ieri signor capitano. Nemmeno una bava di vento. Dalla posizione delle stelle Torriani ha calcolato che in una settimana siamo andati alla deriva per trenta miglia: ha però aggiunto che fino a quando le nubi non gli permetteranno un’osservazione piú ampia e continua non può essere sicuro di nulla. Per parte mia una deriva cosà lunga mi sembra strana, poiché la nave non taglia acqua da prua, né la rompe da poppa.
– Gli uomini? Un’ora fa ho sentito dello strepito sul ponte.
– Ne ho fatto fustigare uno: fu sorpreso con un succhiello in mano nella stiva, vicino ai barili dell’acqua. Per quanto abbia negato, è evidente che voleva procurarsi da bere in aggiunta alla sua razione. Per porre fine a questi tentativi ho bandito che d’ora in avanti ai colpevoli verrà prelevato tanto sangue quant’acqua comune saranno riusciti a bere. A voi piace il sanguinaccio, signor capitano?
– Mi ripugna. Dite degli altri.
– I sei malati sono diventati cinque malati e un moribondo. Dice Palacios che non arriva a sera; i piú scommettono in questo senso.
– E poi?
– E poi, e poi! I soliti mugugni, ecco cosa, ma sempre piú fiochi. I caproni! Delle due l’una, o la bonaccia continua finché saran troppo languidi per emetter parola, o s’alza il vento e ci sarà lavoro per tutti, e allora ah! rimpiangeranno tutto il fiato sprecato. Addio adesso, vi riverisco.
– No Menzio, aspettate, un attimo ancora…
– Vi riverisco vi dico, devo andare. Addio.
Il tanfo della mia gamba è cosà intenso che non riesco ad assuefarmici. Deve avere impregnato ogni pezzetto di legno della mia cabina, ed ogni stoffa. Quando qualcuno entra, gli leggo sul volto il disgusto, piú forte di qualunque scrupolo di cortesia; si trattiene il minimo indispensabile, serrando le labbra per non ingerire quest’aria miasmatica; per non parlare grugnisce, fa cenni, indica le cose con lo sguardo, poi scappa. Come dargli torto, se anch’io, che non respiro aria pura da un mese, sono preso alla gola da questo acerrimo odore? Solo Menzio pare non farci caso. Stamani l’ho osservato attentamente: non ha mosso un muscolo della faccia. Per certo o egli è un validissimo attore, o è uom senza naso.
Da qualche giorno, tuttavia, l’odore mi sembra mutato, piú tagliente, piú ricco: ha un che di nuovo che sente del pesce.
– Caro Menzio, finalmente…
– Non ho tempo signor capitano, devo scendere nella stiva.
– Ma come, subito via, cos� Ditemi almeno qualcosa.
– Niente, non c’è niente di nuovo. Bonaccia e mugugni, mugugni e bonaccia.
– Ebbene riditemi le cose vecchie, nel mio stato mi dimentico in fretta, mi sembreranno nuove, a voi cosa costa, né dovrete sopportarmi ancora per molto…
– Ha detto Torriani, trenta miglia di deriva. Forse. Vi riverisco.
– No no, aspettate…
– Ha detto Palacios, quel tale non giunge a sera. Tra poco è sera. Addio.
– Un altro istante, dannazione, un istante solo, io sono il capitano di questa nave, io devo sapere tutto quello che succede…
– A domani signor capitano.
La mia cabina sa sempre piú di pesce. Eppure se mi chino ad annusare la mia gamba da vicino (azione che mi costa un dolorosissimo sforzo) sento solo il suo antico fetore. È un fetore complesso, di straordinaria ricchezza: uno spirito analitico vi potrebbe riconoscere e separare il lezzo di una carogna enfiata dal sole e brulicante di mosche; l’odore ferruginoso del sangue semirappreso nelle vasche dei mattatoi; l’asprezza dell’urea che impregna i giacigli degli ammalati, nei lazzaretti; l’alito infame dell’epatico; l’amaro sentimento dei poponi marciti; l’effluvio sprigionato dal pozzo nero, chi incauto lo scopra; l’acidulo fermentare del mosto; l’afrore dei lanzi dopo lunga campagna, stipati in una stalla l’inverno; la mattutina ferocia del vomito d’un vinolento… Ecco, questo c’è, e ancora molt’altro, ma di pesce no, di pesce la mia gamba proprio non sa. Eppure se chiudo gli occhi la sfumatura di pesce nell’aria è cosà forte che mi sembra di essere sul ponte, quando si traggon le reti ricolme di preda, e i rosadi e i gappiotti si riversano sul tavolato guizzando come fruste, ed è un piacere guardarli, e sentire come percuotono il ponte – paf! paf! – con le loro code e le pance chiare chiare che splendono al sole… Di pesce vivo, vivissimo, fresco! è l’odore, ma certo, per questo non può venire dalla mia gamba, lo stabilisco per fermo, la mia gamba morta che potrebbe suggerire alle nari solo immagini di corruzione marina, carcasse di tonni decomposte sul lido, la medusa che putrefà sullo scoglio durante la bassa marea, una partita avariata d’aringhe salate, quei tremendi bocconi d’anguilla che furono trovati nello stomaco di AgustÃn, quando Rainerio gli aperse la pancia per capire di che fosse morto…
– Buon giorno, Menzio.
– Buon giorno a voi, signor capitano.
– Ditemi, è tanto che volevo chiedervelo, quando entrate qui dentro, non avvertite uno spiacevole odore? Non mentite, vi prego, non vogliate negar l’evidenza.
– Un certo odore di chiuso, non nego.
– E dunque questo puzzo di gangrena? Non vi attacca la gola?
– Un marinaio ne ha viste, signor capitano, e se si lasciasse impressionare per queste cose come un cittadino…
– Ma insomma la sentite, o non la sentite?
– Cosa signor capitano?
– La gangrena, cos’altro!
– Se è evidente, sarà evidente anche per me. Ma non son uom da curarmene.
– Lo sappiamo. Ma ora ditemi: non percepite in aggiunta, insieme e però separato, un secondo odore, piú lieve e pur (cosa strana) piú insinuante?
– Non capisco signor capitano, se di grazia…
– Pesce Menzio, pesce! Pe-sce. Chiudete gli occhi, concentratevi, e ditemi.
– Ma questo, signor capitano, è l’odor della nave, com’è naturale che sia.
– Volete che io non sappia qual è l’odore della mia nave, di questa nave che io comando da diciannove anni? Non c’è angolo del ponte e delle stive, non lembo di vela o pollice dell’alberatura che io non conosca come me stesso, e questo da molto prima che voi e qualsiasi altro membro dell’equipaggio incominciaste il vostro servizio ai miei ordini, e pretendete di dirmi quale odore deve avere la mia nave? Qui sembra d’essere nel ventre di un capodoglio o al mercato di Cadice, e per voi è tutto normale?
– Non riscaldatevi signor capitano, infiammerete la piaga…
– E ancora non mi soddisfate, ancor deludete.
– La pesca è stata discreta, ultimamente…
– Voi mi fate torto, raccontandomi di codeste storie come fossi un bambino. Sono malato, ma ho ancora abbastanza orecchio per sapere quando le reti son gonfie, e quando invece offrono la grama vista sol di qualche sargasso, e quando non son nemmeno gettate. Il mare non ha piú segreti per me, e non ho bisogno di vederlo per sapere quando è azzurro intenso, appena increspato dalla brezza radente (condizione ideale pei conzi e i gaudiosi, e per gli altri pesci di vasta mole), e quando è grigio come lo stagno, e le onde scorrono senza far spuma, come fossero d’olio (nelle reti, allora, incappano branchi di minuscoli pselli, e i graziosi rosadi); o quando è verde, e l’occhio riesce a frugarlo per parecchie braccia in profondo, ed è inutile gettare la rete; o quando è biancastro perché l’onda si frange in un fiore di schiuma, e sembra che sotto qualcosa ribolla, e si prendono le sòggole, e i flessuosi dorimbi, e tutte le specie eleganti. Quando è giallo, Menzio, e quando è del colore del vino, come si legge in Omero, e quando riflette le nubi e la tinta del cielo. In questi mari io so come la mia nave si porta, quanto rolla e beccheggia, di che forza sono i rivoli che fuoriescono dagli ombrinali, quanto sbatton le vele; e non ho bisogno di udire i vostri rudi comandi, se pure il vento li porta fino a me, per sapere se la randa è appiccata, o se i matafioni terzarolan le vele. Vedete bene, dunque, che su questo punto non potete ingannarmi, come non mi inganno io dicendovi che diversi giorni sono passati dall’ultima pesca degna di tale nome, e che di conseguenza è verosimile si siano ulteriormente assottigliate le scorte di carne salata, come piú di un rumore provenie...