Rotolai sul letto, allungai il braccio per raccogliere il telefono dal comodino. Le 6.05. Numero sconosciuto. Avevo dormito senza fare sogni per quasi tre ore esatte.
– Lehtinen, – risposi e d’un tratto fui completamente sveglio, come non avessi dormito affatto o avessi dormito a lungo, ma senza sapere bene quale delle due.
– Uutela. A quest’ora sarà inutile chiedere se disturbo.
Il cuore mi balzò nel petto. Johanna.
– Tranquillo, – dissi cercando di mantenere un tono di voce uniforme, come se controllando quello potessi controllare anche ciò che mi apprestavo ad ascoltare.
– Notizie non proprio buone, che riguardano Johanna almeno in qualche modo. Ho pensato che probabilmente volessi sapere.
– Certo.
– Il fotografo, quel Gromow, che abbiamo cercato di chiamare ieri sera.
– S�
– È morto.
Mi mancarono le parole. Sentii i battiti del cuore in gola. Presto sarebbero saliti alle tempie.
– Di Johanna non si sa niente, – continuò Uutela. – Gromow era solo, quindi può darsi che non c’entri nulla con lei.
– Dove l’hanno trovato? – chiesi deglutendo.
– Sul ciglio della strada, gettato da un’auto, sulla Tuusulantie. A quanto pare è morto altrove.
– Quando?
– Questo non si sa. Mi hanno spiegato che forse rimarrà un mistero, perché è probabile che nessuno trovi il tempo di indagare.
– E come è morto?
– Non me l’hanno detto.
Mi infilai le calze, afferrai i jeans appoggiati alla sponda del letto e mi fermai a pensare.
– Gromow era vestito? Aveva qualcosa in tasca?
Lassi non rispose subito. Udii chiaramente le sue dita correre sulla tastiera.
– Non si sa, – ripeté. – O per lo meno non aveva dietro né la macchina fotografica né il telefono.
– Pensavo piú che altro a una scheda di memoria. Di solito i fotografi ne hanno in tutte le tasche, sono piccole e possono sfuggire a chi fruga in fretta nei vestiti altrui.
Anche stavolta Lassi non rispose subito.
– Mah, – prese tempo, e sentii ancora il picchiettio sulla tastiera. – Probabilmente me l’avrebbero riferito.
– Chi? La polizia?
– La polizia non mi ha detto nulla, – rispose Lassi, e dopo una pausa breve che sembrò pesare: – Intendo gli uomini della sicurezza che l’hanno trovato.
Scattai in piedi; drizzare la schiena mi procurò un dolore tale da farmi espellere tutta l’aria dai polmoni. Mi sorressi alla sponda del letto.
– Credevo l’avesse trovato la polizia.
– No, – spiegò Lassi. – Mi hanno chiamato quelli di una società privata dicendo che lo avrebbero portato direttamente al reparto di medicina legale. Di questi tempi sono autorizzati a farlo, come forse sai.
– Lo so, lo so, – risposi in tono piú impaziente di quanto volessi. – Non era quello che intendevo.
Feci un respiro, raddrizzai nuovamente la schiena. Il dolore non si era placato.
– Okay, – sbottò Lassi dopo un po’. – Allora devo indovinarlo io cosa vuoi dire?
Raccontai delle ricerche di Johanna e delle mie, e soprattutto del pestaggio che avevo subito. Nel frattempo andai in cucina, mi riempii un bicchiere d’acqua e mi sedetti al tavolo. Quando tacqui, Lassi restò in silenzio per qualche istante.
– Ovviamente può esserci una lontana possibilità che fra le due cose esista una correlazione, – cominciò. Ora parlava molto piú adagio e senza piú il battito delle dita sulla tastiera, mentre la sua voce dava l’impressione di uno che nel bel mezzo del discorso si guarda intorno cercando risposte. – Ma io ancora non la vedo.
– Gromow è morto, – dissi. – E difficilmente l’avrebbero sbattuto in un canale di scolo se fosse morto per un incidente. E poi chi te lo dice che l’hanno trovato sul ciglio della strada? Magari l’hanno ammazzato loro in un posto qualsiasi e trasportato poi all’obitorio.
Mi accorsi di aver alzato il tono. Anche Lassi se ne accorse. La sua voce si tinse di sarcasmo.
– SÃ, certo. Prima lo fanno fuori, poi gli danno un passaggio fino al reparto di medicina legale e infine gentilmente mi chiamano per avvisarmi. Non fa una grinza.
Lassi fece una pausa, io mi tappai la bocca bevendo acqua. Quando riprese a parlare, il sarcasmo andò svanendo dalla sua voce parola dopo parola: – Ti ho chiamato perché pensavo ci tenessi a sapere che almeno per il momento, e almeno alla luce di quel che sappiamo, Johanna sta bene. Oggi stesso mi darò da fare per chiarire cosa sta succedendo. Non ci crederai ma ci teniamo ancora a giornalisti e fotografi. Ci prendiamo cura dei nostri. Per quanto possibile di questi tempi.
Nessuno dei due parlò per qualche secondo. Forse era un silenzio in onore di Gromow.
– Intendi fare qualcosa riguardo a Johanna? – domandai infine.
Ancora silenzio.
– Cosa potrei mai fare? – rispose Lassi. – Davvero, cos’accidenti potrei fare? Qui il personale mi sparisce da sotto il naso sempre piú in fretta, mi scappa di mano tutto il giornale. La mia libertà di manovra è pressoché zero.
Bevvi tutta l’acqua. Mi alzai e andai a riempirmi nuovamente il bicchiere. Quando l’acqua c’era e non bisognava bollirla, la vita sembrava un po’ piú facile. O meglio lo sarebbe sembrato, in altre circostanze, in un altro momento. Appoggiai il bicchiere pieno sul lavandino.
– Grazie di aver chiamato, – dissi. – In ogni caso.
Lassi parlò con voce piú bassa e, cosa sorprendente, piú dolce: – Mi dispiace, Tapani. Vorrei davvero poter aiutare te e molte altre persone.
– Ti credo, – dissi cercando di suonare anch’io il piú sincero possibile, mentre guardavo fuori dalla finestra il mattino ancora privo di luce.
– Ma di questi tempi…
– Lo so.
– Tieni duro.
– Grazie, – dissi. – Anche tu.
Allontanai il telefono dall’orecchio, asciugai il sudore su entrambi.
Scaldai il porridge d’avena nel microonde, aggiunsi un cucchiaio di miele e lo mangiai. Mi sentii meglio. Mi versai subito una seconda porzione, e mentre mangiavo aprii il computer di Johanna.
Lessi un po’, finii il porridge, preparai il caffè e andai in soggiorno. Lontano, dall’altra parte della baia, si vedevano alcuni fuochi, per il resto il paesaggio era buio, eccezion fatta per il bagliore elettrico della città che sulla sinistra andava perdendosi nel cielo senza stelle. Su quello sfondo i rami neri degli alberi spogli che si innalzavano davanti al palazzo parevano bruciati.
Dovevo ricominciare daccapo, perciò mi concentrai sul computer, aprii il browser e nel campo di ricerca scrissi Pasi Tarkiainen. Fra i risultati non trovai nulla di nuovo. Provai altri metodi: Pasi Tarkiainen e varie annate. L’anno precedente non diede alcun risultato, quelli ancora prima solo cose già note. Poi decisi di abbinare a Tarkiainen svariati elementi: gli indirizzi di casa, i luoghi di lavoro. Nulla. Tentai con coppie di nomi: Pasi Tarkiainen Harri Jaatinen. Nessun risultato. Pasi Tarkiainen Vasili Gromow. Nessun risultato. Pasi Tarkiainen Johanna Lehtinen. Un piccolo trafiletto richiamò la mia attenzione. Nuova ricerca con il cognome da nubile di Johanna: Pasi Tarkiainen Johanna Merilä.
Tombola.
Sentii una mano gelida artigliarmi il petto, una sensazione di vuoto e di dolore prendermi lo stomaco, le dita sulla tastiera cominciare a tremare e i polpastrelli intorpidirsi all’improvviso.
L’articolo risaliva a tredici anni prima.
Nella foto Johanna era giovane, lo stesso valeva ovviamente per Pasi Tarkiainen. Lui le teneva un braccio intorno alle spalle e la stringeva forte a sé. L’espressione di lei era neutra, c’era forse un’ombra di disagio, per il semplice fatto di essere fotografata o per quell’abbraccio anche troppo entusiasta. Il sorriso di Tarkiainen era anche qui ampio e accattivante, ma nei suoi occhi non si percepiva ancora l’intensità che invece emergeva dalla foto di alcuni anni dopo.
Sopra l’immagine era riportato un titolo: Primi inquilini per le minicase ecoefficienti.
Il pezzo non parlava tanto di Johanna e Pasi Tarkiainen quanto della nuova zona residenziale di Kivinokka. Al posto degli ex orti di Herttoniemi era stato costruito nello stesso spirito un piccolo quartiere residenziale progettato per aprire la strada all’edilizia del futuro. Sotto ogni punto di vista, però, l’avevano realizzato una ventina d’anni troppo tardi. Anche se le case producevano l’energia di cui avevano bisogno e tutto era riciclabile, stoccabile e smaltibile senza emissioni, ormai il clima era già cambiato abbastanza perché il quartiere e il suo sviluppo non avessero piú la minima importanza. Inoltre, a quell’epoca le abitazioni erano troppo care per la gente comune. A chi se le poteva permettere non passava neanche per la testa di trasferirsi a Kivinokka. Adesso invece ci abitava chi ne aveva il coraggio: la zona, rimasta isolata, aveva una pessima fama per varie ragioni. In riva alla baia di Vanhankaupunginlahti sorgevano gli scheletri di una decina di palazzi, i cui costruttori erano rimasti senza piú tempo né soldi. Non che fossero disabitati. E per quegli inquilini la posizione isolata non era certo un problema.
L’articolo, apparso quasi un decennio e mezzo prima, raccontava che la giovane coppia studente-giornalista aveva trovato in quel quartiere la dimora ideale. «Qui c’è davvero tutto: ecologia, natura, città , collegamenti». Le parole erano attribuite a Pasi Tarkiainen.
Mi soffermai ancora un po’ sulla foto.
Di cosa ero piú sorpreso?
Che in passato Johanna aveva vissuto insieme a Pasi Tarkiainen? Che aveva abitato a Kivinokka, a non piú di qualche chilometro da dove stavamo ora? O che io non ne sapevo nulla?
Mi alzai, andai in soggiorno, aprii la portafinestra e uscii sul balcone. Guardai in direzione di Kivinokka. Ovviamente era buio, come quasi sempre. Qua e là si scorgeva un falò, ma per il resto l’intera penisola non era che notte impenetrabile e rigidi profili neri di palazzi enormi.
Per quale motivo Johanna non mi aveva raccontato di Tarkiainen o di Kivinokka? Ma d’altra parte, perché avrebbe dovuto? Quando ci eravamo conosciuti dieci anni prima e sposati sei mesi piú tardi, era stato per entrambi l’inizio di una nuova vita. Dunque perché mai avremmo dovuto parlare anche solo un minuto di Pasi Tarkiainen o di un trasloco dal quale erano passati tredici anni?
Johanna non era rimasta poi molto tempo a Kivinokka. Quando ci eravamo conosciuti viveva a Hakaniemi in un monolocale con cucina dove aveva già trascorso almeno un anno e mezzo. Perciò tra la pubblicazione dell’articolo e il trasferimento a Hakaniemi non rimaneva che un altro anno e mezzo circa.
Era successo qualcosa, e anche piuttosto in fretta. Certo non per forza doveva essere qualcosa di diverso dalla fine di un amore giovanile, ma in effetti il ritrovamento del Dna di Tarkiainen sulle scene dei crimini del Guaritore e la scomparsa di Johanna proprio mentre indagava su di lui facevano venire in mente ipotesi diverse.
Tornai in cucina, e massaggiandomi le dita dei piedi intirizzite osservai ancora la fotografia. Johanna Merilä e Pasi Tarkiainen si vedevano dalla cintura in su e occupavano la metà sinistra dell’immagine. Sulla destra campeggiava una casetta gialla coi pannelli solari sul tetto, che poteva essere la loro o una delle prime realizzate. Sotto c’era una didascalia: «Johanna Merilä e Pasi Tarkiainen si sono trasferiti da Kallio a Kivinokka».
Ricontrollai gli ex indirizzi di Tarkiainen; uno era Pengerkatu 7. Lanciai una ricerca per indirizzi anche col nome Johanna Merilä, ma ottenni solo quello di Hämeentie che già conoscevo.
Riflettei un istante e presi in mano il telefono.
Erano quasi le sette.
Nonostante l’ora, Elina rispose quasi subito, con la voce di chi non aveva chiuso occhio tutta la notte e non di chi si era appena svegliato.
– Hai trovato Johanna? – chiese prima che finissi di salutarla.
– No, – dissi. – Siete ancora a Helsinki?
Elina rimase in silenzio per un po’. Forse doveva verificare dov’erano.
– SÃ, – rispose poi a voce bassa.
Aspettai qualche istante che aggiungesse qualcosa, ma non lo fece. In quel silenzio mi parve di vederla a occhi chiusi e capo chino.
– Elina, va tutto bene? – domandai.
– No, – rispose subito brusca, e dopo una breve pausa continuò piú posata, piú delicata: – non partiamo piú, almeno per ora.
– Cos’è successo?
Di nuovo silenzio p...