1º dicembre
Ci sono giornate in cui le cose piú belle – l’attenzione, la cura, l’affetto, persino l’amore – mi arrivano dallo spam.
Oggi ho ricevuto la mail di un avvocato malese che si chiama Peter Marajin. Mi scriveva che un suo cliente col mio stesso cognome è morto per un problema di cuore. Mi chiedeva di contattarlo a un indirizzo di posta elettronica – diverso da quello da cui mi stava scrivendo – perché a quanto pare ho ereditato una cifra importante in una valuta misteriosa.
Quando ricevo queste mail, dopo averle lette resto sempre a guardarle per un po’ domandandomi se conosco qualcuno in Malesia, se per caso ho dei parenti che si sono trasferiti da quelle parti: cerco presupposti reali che giustifichino queste micronarrazioni immaginarie.
Scarto la possibilità che chi ha inviato la mail stia dicendo la verità . Poi però ci ripenso: forse un parente piú lontano, uno zio di un mio nonno o qualcosa del genere, un centinaio di anni fa è partito da Palermo senza dire niente a nessuno e si è trasferito in Malesia, probabilmente per lavoro oppure per amore.
Per amore, mi dico.
Ma perché?
Cioè, in che modo questo zio di mio nonno avrebbe potuto incontrare una ragazza malese?
In Erasmus?
Nel 1895?
Oppure c’è stata una guerra di cui non sono a conoscenza, un contingente è stato mandato dalla Sicilia alla Malesia per combattere contro qualcuno, lo zio di mio nonno ha conosciuto una giovane donna locale e dalla loro unione, tra Palermo e Kuala Lumpur, è discesa una stirpe che ha attraversato silenziosa il Novecento rivelandosi soltanto adesso, un pezzo di storia familiare che si è sviluppato carsico, verticale, correndo dal basso in alto ed esplodendo oggi in un patrimonio meraviglioso che potrebbe sottrarmi all’attuale arcipelago di lavori senza fissa dimora concedendomi una mezza età – al posto di questa età dimezzata, di questo tempo ferocemente decapitato – piú tranquilla e stanziale.
Rileggo la lettera di Peter Marajin, ci penso su.
Mio malgrado accetto che deve trattarsi di una truffa e cancello la mail con un senso di rammarico, con la sensazione di stare sprecando un’occasione importante. E dunque comincio dicembre in Italia, tra Torino e tanti altri posti, senza una forma familiare, senza eredità possibili, incredulo e disperso al largo del lavoro contemporaneo.
2 dicembre
C’è il Torino Film Festival. Ho cercato di tenere un po’ di giorni liberi, al mattino sbrigo rapidamente il lavoro piú urgente e poi vado al cinema. In sala prendo appunti a matita. Nessun motivo particolare se non il fatto che me la sono ritrovata in tasca e la uso. È nera e lunga, credo arrivi da qualche manifestazione letteraria. Durante le proiezioni, vergognandomi un po’, la tiro fuori e scrivo cercando, nella penombra, di non sovrapporre le righe.
Forse perché faccio troppa pressione sulla carta, forse perché il suo midollo di grafite ha una malformazione congenita, fatto sta che la punta si piega nel piccolo alveo conico, sta per spezzarsi. Quando è quasi del tutto staccata – durante un film russo in bianco e nero, larghe distese di neve che illuminano la sala – sollevo la matita e la guardo. Se non sembrasse impossibile direi che la guardo in faccia. Perché le matite lunghe e sottili somigliano alle ragazze alte e dinoccolate, quelle che muovendosi devono articolare membra infinite, braccia tronco e gambe che se ne vanno dappertutto. Come Hildur quando a ReykjavÃk giocava con i suoi figli-fratelli sul prato sotto casa. Come Mariangela Melato quando si infilava una maglietta conficcando i gomiti in giro per la mia stanza o quando una volta in Svezia abbiamo visitato il museo delle navi e lei un po’ protestando e un po’ curiosa si è infilata nei budelli delle sale macchine e lungo le strettoie delle cuccette e per le botole e i cunicoli orizzontali di un sottomarino (alla fine era cosà stanca e silenziosamente orgogliosa che quando è sbucata fuori sul ponte esterno del sottomarino – io ero già in piedi sullo scafo e la aspettavo – l’ho guardata e non sembrava semplicemente uscita: sembrava appena nata).
Sullo schermo adesso c’è una festa, moscoviti ubriachi che cantano e rimpiangono. Cercando di non dare nell’occhio scuoto la matita, la punta è ormai scollata dal resto della mina ma resiste traballante nell’alveo.
A volte, a casa mia, fumando spalle alla finestra del soggiorno Mariangela Melato piegava la testa da una parte, per ascoltare, per parlare, per non prendere il fumo in faccia. Seduto sul divano la guardavo e ignoravo che cosa sarebbe stata la mancanza. Ignoravo che anni dopo l’avrei ritrovata in una matita. Qualcosa che adesso, mi dico fissando il cilindro di legno che tengo tra indice e pollice, dovrei semplicemente decapitare per poi temperarla daccapo.
Questo è quello che dovrei fare.
Invece, mentre i moscoviti escono per le strade bianche sempre piú cantando e rimpiangendo, penso a Mariangela Melato, al suo corpo lungo e stretto che mi manca e ancora a lungo mi mancherà .
Allora mi appoggio la matita in grembo, la guardo baluginare e scomparire nei bagliori.
3 dicembre
Mi sveglio, preparo il caffè, lo bevo, lo preparo di nuovo perché ho dormito poco e male e a forza di gocce; mi serve tenermi in piedi, devo costruirmi un endoscheletro di caffeina nerissima.
Mentre la seconda caffettiera è sul fuoco vado nello studio, leggo la posta.
L’oggetto di una mail dice: ho diluito loro pensieri sentimenti.
Comincio a leggere:
Caro Giorgio,
il mio nome e Natalia! Io penso che Lei dovrebbe sapere che io dall’Ucraina ed io vivo in citta sotto nome Kiev! Abbastanza il grande e la bella citta!
Sono incantato. So che non è vero, che è spam, che da qualche parte deve esserci un software che genera un testo standard, un altro che lo traduce in un determinato numero di lingue e un altro software ancora che fa diramare quel testo verso un’indefinita moltiplicazione di indirizzi di posta elettronica, tra i quali il mio. Ma se la mail falsa che ho ricevuto comincia con «Caro Giorgio», se parla con me e ho dormito male e chimicamente ed è il dicembre di un anno pieno di separazioni, io allora guardo, leggo, leggo «Caro Giorgio, il mio nome e Natalia», e sono già commosso.
La mail prosegue dispiegando un’epica privata e quotidiana.
Dice Natalia:
Ora a me di 26 anni e come Lei probabilmente ha indovinato io ora coltivo e solitario! Quindi ha risultato che io non potessi incontrare correttamente la persona con cui potrebbe gettare nel destino!
Io non so che io ho spinto su esso un passo ma io ho deciso ciononostante di provare la felicita! Ora io non so che da questo esso per risultare ma io spero che tutti saranno buoni!
Seminascosta all’interno del suo caos linguistico Natalia mi confessa un desiderio di cambiamento. Ed è significativo che me ne renda conto nonostante, appunto, la palude espressiva prevalente. Natalia vuole «provare la felicita» con la stessa franchezza con con cui un sabato mattina si decide di andare a provare una macchina.
Io sono la concessionaria del suo destino.
La mail va avanti, stavolta tra il pragmatico e il confidenziale.
Voglia dargli la piccola rappresentazione sul mio carattere. Puoi dire quello amichevole e socievole. Io molto raramente adirato ed a tutto io non amo disputa.
Attualmente io lavoro ed io lavoro come il direttore! Ho molti hobby, per esempio io raccolgo monete antiche. Io posso dire circa me che io attivo lo sportivo. Piaccia giocare a tennis di tavola e mi piaccia un gioco degli scacchi!
Sono stordito ma mi concentro sulle monete antiche. Sul «tennis di tavola» e sul gioco degli scacchi.
Alla fine di una dura giornata di lavoro, dopo la fatica dell’auto-rappresentazione sociale (fra l’altro in qualità di direttore, con tutto ciò che questo comporta), immagino Natalia nel semibuio di una veranda a vetrate (presumibilmente in una dacia fuori città raggiunta in un’ora di treno suburbano), un raccoglitore di velluto rosso leggermente scolorito aperto sulle ginocchia, i piccoli dischi grigiomatto delle monete allineati come pianetini unidimensionali. Il tramonto dell’est sugli sterminati campi di patate, un frammento di sole che sopravvive contro i denti di un forcone, l’odore del legname che prude dentro il naso, il ruzzare nell’aia della gallina pazza, l’orto di fragole sul retro e un uccello nero che fruga col becco nel rosso, il cane a tre zampe che si avvicina saltellando, la prima penombra, la gleba soda, la malinconia, le ortiche.
Natalia non è piú Natalia ed è già – meraviglia dello spam! – una delicatissima figura cecoviana, una martire infinita, il corpo e la mente colmi di crepuscolo.
Questo il suo congedo.
Ancora cordiale, dignitoso.
Io spero che la nostra amicizia comincera con questa lettera ed io non chiedero Lei mi aiuta con soldi. Se Lei scrivera a me, Lei capira che io non sono tale ragazza! Io sono la semplice ragazza in Ucraina che vuole vivere all’estero. Io voglio abbia marito e famiglia di destra. Io tenterei moltissimo per questo. Io ho intenzione molto seria.
Io voglio finire questa lettera e ora io aspettero la Sua risposta.
Il Natalia di distinti saluti!
Per essere qualcuno che non esiste – o forse proprio perché non esiste – Natalia è una donna splendida.
Io – mi dico senza sapere cosa fare della mail, se conservarla o disperderla nella posta eliminata – invece esisto. Esisto male. Esisto sempre peggio. Esisto rendendomi conto di una cosa: il mio amore – quello che ricevo ma, temo, soprattutto quello che provo a dare – è una specie di spam.
4 dicembre
È domenica. Nel tardo pomeriggio, dopo essere stato al cinema a guardare le repliche dei film che hanno vinto il festival, raggiungo casa di Chiara. Marta mi aspetta nascosta dietro la porta: questa paura a orologeria, una paura che serve a divertirsi comparendo all’improvviso, è un rituale collaudato.
Dal pianerottolo scosto piano la porta socchiusa, spingo la testa dentro, mi guardo intorno e da dietro la porta viene fuori Marta che ride, si piazza subito di fronte alla porta-finestra e prendendo ad alitare contro il vetro forma macchie di fiato e mi invita a fare lo stesso. Mi avvicino, alito sul vetro una volta, due volte, poi Marta cambia idea e mi conduce fino all’ingresso della sua camera. Appeso agli stipiti c’è il teatrino di stoffa che le ho regalato per il compleanno insieme ai burattini di Cappuccetto Rosso. In realtà dove li ho comprati c’erano Cappuccetto Rosso, la nonna, il lupo, non c’era il cacciatore perché il cacciatore è diseducativo.
Davvero?, avevo domandato al negoziante, un ragazzo in maglietta verde e la testa accerchiata da un sistema di mezzelune gialle che si allungavano dal soffitto appese a fili di cotone.
È armato, mi aveva risposto.
Anche il lupo, avevo detto.
Ma le armi del lupo, aveva obiettato lui, i denti e le zampe, sono naturali. Il fucile del cacciatore no.
Come faccio a raccontare la storia se mi manca un personaggio?, avevo chiesto.
Si può raccontare anche senza il cacciat...