La malora
  1. 144 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Informazioni su questo libro

Pubblicato per la prima volta nel 1954 nella collana dei «Gettoni», due anni dopo I ventitre giorni della città di Alba, La malora racconta, con un tono ruvido che nulla concede alla retorica e al sentimento, la vicenda carica di destino del giovane Agostino che, morto il padre, va a servizio in un'altra cascina. Una storia elementare di fatica e di silenzi, di dolore e di violenza che ci riporta al dramma della miseria contadina delle Langhe e che trova il suo linguaggio nello stile scarno e partecipe di Fenoglio, lo stesso stile antiretorico e «barbarico» che procurò allo scrittore l'accusa di aver tradito i valori della Resistenza. Proprio questa asprezza e la continua invenzione linguistica fanno di Fenoglio uno dei massimi scrittori italiani del Novecento.

Con La strada e i paracarri di Paolo Di Paolo, una nota bibliografica e la cronologia della vita e delle opere.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2013
eBook ISBN
9788858409053

La malora

Pioveva su tutte le langhe, lassú a San Benedetto mio padre si pigliava la sua prima acqua sottoterra.
Era mancato nella notte di giovedí l’altro e lo seppellimmo domenica, tra le due messe. Fortuna che il mio padrone m’aveva anticipato tre marenghi, altrimenti in tutta casa nostra non c’era di che pagare i preti e la cassa e il pranzo ai parenti. La pietra gliel’avremmo messa piú avanti, quando avessimo potuto tirare un po’ su testa.
Io ero ripartito la mattina di mercoledí, mia madre voleva mettermi nel fagotto la mia parte dei vestiti di nostro padre, ma io le dissi di schivarmeli, che li avrei presi alla prima licenza che mi ridava Tobia.
Ebbene, mentre facevo la mia strada a piedi, ero calmo, sfogato, mio fratello Emilio che studiava da prete sarebbe stato tranquillo e contento se m’avesse saputo cosí rassegnato dentro di me. Ma il momento che dall’alto di Benevello vidi sulla langa bassa la cascina di Tobia la rassegnazione mi scappò tutta. Avevo appena sotterrato mio padre e già andavo a ripigliare in tutto e per tutto la mia vita grama, neanche la morte di mio padre valeva a cambiarmi il destino. E allora potevo tagliare a destra, arrivare a Belbo e cercarvi un gorgo profondo abbastanza.
Invece tirai dritto, perché m’era subito venuta in mente mia madre che non ha mai avuto nessuna fortuna, e mio fratello che se ne tornava in seminario con una condanna come la mia.
Mi fermai all’osteria di Manera, non tanto per riposarmi che per non arrivare al Pavaglione ancora in tempo per vedermi dar del lavoro; perché avrei fatto qualche gesto dei piú brutti.
Tobia e i suoi mi trattarono come un malato, ma solo per un giorno, l’indomani Tobia mi rimise sotto e arrivato a scuro mi sembrava di non aver mai lavorata una giornata come quella. Mi fece bene. Un po’ come fa bene, quando hai lavorato tutta notte nella guazza a incovonare, non andartene a dormire ma invece rimetterti a tagliare al rosso del sole.
Come la mia famiglia sia scesa alla mira di mandare un figlio, me, a servire lontano da casa, è un fatto che forse io sono ancora troppo giovane per capirlo da me solo. I nostri padre e madre ci spiegavano i loro affari non piú di quanto ci avrebbero spiegato il modo che ci avevan fatti nascere: senza mai una parola ci misero davanti il lavoro, il mangiare, i quattro soldi della domenica e infine, per me, l’andare da servitore.
Non eravamo gli ultimi della nostra parentela e se la facevano tutti abbastanza bene: chi aveva la censa, chi il macello gentile, chi un bel pezzo di terra propria. L’abbiamo poi visto alla sepoltura di nostro padre, arrivarono ciascuno con la bestia, e non uno a piedi da poveretto.
Dovevamo sentirci piuttosto forti se, quando io ero sugli otto anni, i miei tirarono il colpo alla censa di San Benedetto. La presero invece i Canonica, coi soldi che s’erano fatti imprestare da Norina della posta. Nostro padre aveva troppa paura di far debiti, allora.
Adesso mi è chiaro che nostro padre aveva già staccata la mente dal lavorare la terra e si vedeva già a battere con carro e cavallo i mercati d’Alba e di Ceva per il fabbisogno della sua censa, e quando dovette invece richinarsi alla terra, aveva perso molto di voglia e di costanza. Noialtri ragazzi lavoravamo sempre come prima, anche se lui ci comandava e ci accudiva meno, ma a mezzogiorno e a cena ci trovavamo davanti sempre piú poca polenta e quasi piú niente robiola. E a Natale non vedemmo piú i fichi secchi e tanto meno i mandarini.
Nostra madre raddoppiò la sua lavorazione di formaggio fermentato, ma non ce ne lasciava toccare neanche le briciole sull’orlo della conca. E quando seppe che a Niella ne pagavano l’arbarella un soldo di piú che al nostro paese, andò a venderlo a Niella, e saputo poi che a Murazzano lo pagavano qualcosa meglio, si faceva due colline per andarlo a vendere lassú. Dimodoché diventò in fretta come la sorella maggiore di nostro padre, sempre col cuore in bocca, gli occhi o troppo lustri o troppo smorti, mai giusti, in faccia tutta bianca con delle macchie rosse, come se a ogni momento fosse appena arrivata dall’aver fatto di corsa l’erta da Belbo a casa. Quando noi eravamo via, lei pregava e si parlava ad alta voce: una volta che tornai un momento dalla terra, la presi che cagliava il latte e si diceva: – Avessi adesso quella figlia! – Diceva di nostra sorella, nata dopo Stefano e morta prima che nascessi io, d’un male nella testa. Si chiamava Giulia come nostra nonna di Monesiglio, e a Stefano non so, ma a me e a Emilio non ci mancava. Però anche allora io non sono mai passato davanti al camposanto guardando da un’altra parte, come un padrone che passa davanti alla sua terra.
Ci andava male: lo diceva la misura del mangiare e il risparmio che facevamo della legna, tanto che tutte le volte che vedevo nostra madre tirar fuori dei soldi e contarli sulla mano per spenderli, io tremavo, tremavo veramente, come se m’aspettassi di veder cascare la volta dopo che le è stata tolta una pietra. Finí che nelle sere d’autunno e d’inverno mandavamo Emilio alla cascina piú prossima a farsi accendere il lume, per avanzare lo zolfino. Io ci andai una volta sola, una sera che Emilio aveva la febbre, e quelli del Monastero m’accesero il lume, ma la vecchia mi disse: – Va’, e di’ ai tuoi che un’altra volta veniamo noi da voi col lume spento, e lo zolfino dovrete mettercelo voi.
Nostro padre vendette mezza la riva da legna e anche quel prato che avevamo lungo Belbo, ma il denaro di quelle vendite non ci fece pro, andò quasi tutto a pagare le taglie e a far star bravi i Canonica che non ci togliessero il credito alla censa. È allora che i nostri s’indebitarono con la vecchia maestra Fresia di quelle cento lire che hanno poi scritto il destino di mio fratello Emilio.
Per chiedere la grazia di poter tirar su testa, un anno nostra madre andò pellegrina al santuario della Madonna del Deserto, che è lontano da noi, sopra un monte dietro il quale si può dire che c’è subito il mare. Mi ricordo come adesso. Era un po’ che noi, alzata la schiena, guardavamo la processione delle donne sulla strada di Mombarcaro, quando esce di casa nostra madre, vestita da chiesa, e con un fagottino di roba mangiativa. Nostro padre le uscí appresso e le gridava: – Vecchia bagascia, non mi vai mica via con quello stroppo di pelandracce? – Lei si voltò, ma senza fermarsi e solo per guardarlo negli occhi. E lui sempre dietro, con un principio di corsa come per assicurarsi d’acchiapparla. E nel mentre le diceva: – Mi torni indietro fra chissà quanti giorni, con tutti i piedi gonfi e tutto il corpo stracco che per una settimana non mi puoi piú servire –. Allora lei si fermò e gli disse: – Lasciami andare, Braida. Sono sette anni che non esco da questa casa. Lasciami andare, che è per la mia anima.
– L’anima vola! – le gridò lui in faccia, ma poi le disse: – Donna con del buon tempo. Hai almeno lasciato preparato?
Poté partire, e dopo un po’ la vedemmo mischiarsi alla processione. Aveva un buon passo e presto fu tra le prime, e non solo dal passo si vedeva che aveva buona intenzione, ma anche perché non si voltava e non cercava compagne, mentre tutte le altre andavano come per divertimento. Tornò di notte, dopo quattro giorni, e la mattina si levò alla sua ora di sempre e fece il suo lavoro di tutti i giorni. Ma non giovò, Dio non fu mai con noi.
Poi il re chiamò Stefano a soldato, andò alla leva e tirò un numero basso. Nostro padre bestemmiò, nostra madre pianse, ma Stefano lui era contento: lo sentii quella sera, che io ero in pastura vicino a dove lui tutto nudo si lavava in Belbo, gridare d’allegria, ma dei gridi selvaggi che misero paura a me e alle pecore. Basta, stette a casa ancora due mesi, se ne andava al sabato coi suoi soci coscritti a fare il giro delle osterie della nostra langa e tornava solo nella notte del lunedí, ubriaco che dovevamo sbatterlo nella stalla. E poi partí, una notte che noialtri due non fummo neanche svegliati.
Ci scriveva, e leggevamo che era in artiglieria e a Oneglia. Di questa città io non sapevo altro che era in riva al mare, avrei aspettato che venisse in licenza per domandargli qualche cosa sul mare. Ma Stefano in licenza non veniva, mandò solo una sua fotografia, per vederla bisognava entrare nella stanza dei vecchi, era là appesa a un cordino in mezzo ai rametti d’ulivo e alle candele benedette. Una volta ci scrisse che lui non era di quei soldati che sudano a far l’istruzione e le marce, lui piú furbo s’era messo da attendente a un ufficiale e stava benone. Allora i nostri fecero prender la penna in mano a Emilio e scrivere a Stefano che ci mandasse la deca se stava tanto bene. Da quella lettera non ci scrisse piú, da lui non vedemmo un centesimo e in licenza non ci venne mai. Noi a casa non ce la facevamo a scalare uno scudo dal debito con la maestra.
Lo congedarono dopo ventun mesi, s’era fatto piú massiccio e piú superbo, gli ci volle un mese buono per riabituarsi al lavoro e ripigliarlo, adesso andava tutte le sere all’osteria e tante notti rientrava ubriaco del vino che gli offrivano in paga del suo raccontare. Con noialtri suoi fratelli sembrava che crepasse a parlare un po’ del mare e di quei posti che aveva visto, ma all’osteria il mazzo ce l’aveva sempre lui e parlava solo sempre di donne forestiere che faceva schifo. S’era rimesso a lavorare con me dietro le bestie che Emilio conduceva, ma io che avevo i bracci metà dei suoi rendevo il doppio di lui sul lavoro, lui alzava la schiena ogni cinque minuti e guardava sovente al passo della Bossola.
Tornato Stefano in famiglia, venne l’ora d’Emilio di partire: andò a studiare da prete nel seminario di Alba. Avevamo potuto scalare sí e no due scudi dal debito con la maestra, e lei trovandosi con un piede nella tomba e senza nessuna necessità di riavere le sue cento lire, c’era venuta una sera in casa a dire ai nostri che ci rimetteva il debito se le mandavamo il nostro Emilio a farsi prete. Non solo ci rimetteva il debito, ma ci passava uno scudo al mese per il suo mantenimento in seminario e qualche altra lira l’avrebbe fatta sborsare al parroco.
Emilio non disse niente, come niente dissi io davanti a Tobia Rabino che diventava mio padrone, i vecchi dissero di sí abbastanza in fretta.
Il motivo può anche aver offeso nostro Signore, ma però mio fratello Emilio a fare il prete andava bene, prima di tutto perché Emilio era buono, e quello che in chiesa ci stava di piú e meglio, e poi a scuola era il primo di tutto San Benedetto, e i miei, quando avevano qualche cosa da chiedere al cielo, era lui che facevano pregare, perché era il piú innocente. E poi era di poche forze, cosa poteva fare senza penare era solo stare davanti alle bestie.
Partí per il seminario un sabato mattina, sul biroccio di Canonica che andava a fare il mercato ad Alba. Lo baciammo tutti sulle guance, prima che montasse. Nostra madre piangeva, nostro padre le dava dei nomi perché piangeva e le disse: – O stupida, quando io ti mancherò, cosa ti sogni di meglio che andare a star con lui dove sarà parroco e fargli da perpetua? – C’era Stefano, io che non mi capacitavo che tra cinque minuti sarei stato sulla terra senza piú Emilio vicino, c’era la maestra Fresia che parlava italiano con Emilio. Il parroco non c’era, ma Emilio era stato in canonica la vigilia a sentire come doveva comportarsi in seminario i primi tempi.
Canonica non si fidava a dare al cavallo perché sentiva i pianti di nostra madre, le venne vicino la maestra e le disse: – Melina, ma pensate alla consolazione di quando dirà la sua prima messa. E voi sarete la prima a ricevere la sua ostia –. Poi nostro padre fece un segno a Canonica e partirono. Non ci avrei creduto chi m’avesse detto che l’avrei rivisto prima che fosse passato l’anno, e proprio in Alba, dove sarei andato col mio padrone Tobia.
A me toccò che andavo per i diciassette anni e a dispetto della carestia di casa nostra pesavo sette miria, ero tanto grosso d’ossa. Quando mi misi a dormire quella notte, sapevo che l’indomani nostro padre sarebbe andato al mercato di Niella, ma da solo, sicché mi diede uno scrollone la sua voce nello scuro della prima mattina: – Agostino, levati e vestiti da chiesa –. Non dirò sicuramente che fu un presentimento: tutto capitò come se io fossi un agnello in tempo di Pasqua.
Andare ai mercati mi piaceva, ed è a un mercato che ho avuto la mia condanna. Non successe subito, potei girare ben bene il mercato di Niella e m’incrociai piú d’una volta con l’uomo della bassa langa che un’ora dopo m’avrebbe tastato le braccia e misurato a spanne la schiena e contrattato poi con mio padre il mio valore.
Disse Tobia Rabino: – Vi do per lui sette marenghi l’anno.
E mio padre: – Me lo pagate un marengo per miria che pesa.
Io pensavo solamente, in mezzo a tutte quelle parole; che mia madre a casa lo sapeva ed era come se fosse lí con noi sul mercato di Niella. Mi sembrava che mio padre e Tobia giocassero a gridare, e la voce piú forte quella di mio padre.
Si toccarono la mano e Tobia disse ancora: – Se mi contenta, gli regalerò un paio di calzoni per ogni Natale che passa a casa mia. Ma non fateci subito calcolo, non lo metto nei patti.
– E fatelo lavorare! – gli gridò mio padre, ma la sua non era crudeltà verso di me, ma solo una sfida a quell’uomo della bassa langa a spezzare col lavoro la razza dei Braida.
Partii per il Pavaglione una settimana dopo, a piedi, per la strada insegnatami da Tobia. Mi sentivo nelle vene sangue d’altri che avevano già servito.
Quasi tre anni sono restato al Pavaglione, e adesso ci manco da cinque mesi, ma mi sembra ieri sera che ci arrivai la prima volta, e al bordello del cane Tobia mi si fece incontro sull’aia e nel salutarmi mi tastava spalle e braccia per sentire se in quella settimana i miei non m’avevano lasciato deperire apposta.
Di chi proprio non posso lamentarmi è la donna di Tobia. Alla prima vista trovò che avevo l’aria brava e mi prese in stima e a benvolere. Mai una volta che abbia scorciato i capelli ai suoi figli senza poi farmi passar anche me sotto le forbici e la scodella, e tante sere d’inverno, dopo d’aver richiamato alla catena il cane alla larga nel bosco, entrava col lume nella stalla a vedere se ero ben coperto. E m’accudí anche meglio quando seppe che avevo un fratello che studiava da prete. Io che Tobia lo chiamavo per nome, a lei diedi sempre della padrona.
Lei e Tobia hanno tre figli. La prima si chiamava Ginotta, io non l’ho conosciuta tanto perché andò via sposa che io ero a casa sua da solo sei mesi: quando ci arrivai, già due sensali salivano per lei al Pavaglione. Non ho potuto conoscerla tanto Ginotta, ma è stato vivendo quel poco accanto a lei che mi son fatto un’idea di quel che avrebbe potuto valere in famiglia quella nostra sorella se la sua vita fosse durata, e mi sono persuaso che non sarebbe cambiato niente.
I due maschi, uno è un po’ piú vecchio di me e l’altro un po’ piú giovane. Con loro ci facevo quattro parole a testa al giorno, ma nessuno dei due m’ha mai trattato con prepotenza, forse perché sapevano bene che bastava una tempesta un po’ arrabbiata e un piccolo conto nella testa di loro padre per spedirli tutt’e due a far la mia medesima fine lontano da casa. Tant’è vero che delle volte Tobia gli comandava qualche lavoro mentre c’ero io lí magari con le mani in mano e loro se lo facevano senza neanche sognarsi di passarlo a me.
Per venire a Tobia, lui m’ha sempre trattato alla pari dei suoi figli: mi faceva lavorare altrettanto e mi dava altrettanto da mangiare. A lavorare sotto Tobia c’era da lasciarci non solo la prima pelle ma anche un po’ piú sotto, bisognava stare al passo di loro tre e quelli tiravano come tre manzi sotto un solo giogo. Almeno dopo tutta quella fatica si fosse mangiato in proporzione, ma da Tobia si mangiava di regola come a casa mia nelle giornate piú nere. A mezzogiorno come a cena passavano quasi sempre polenta, da insaporire strofinandola a turno contro un’acciuga che pendeva per un filo dalla travata; l’acciuga non aveva già piú nessuna figura d’acciuga e noi andavamo avanti a strofinare ancora qualche giorno, e chi strofinava piú dell’onesto, fosse ben stata Ginotta che doveva sposarsi tra poco, Tobia lo picchiava attraverso la tavola, picchiava con una mano mentre con l’altra fermava l’acciuga che ballava al filo.
Dopo queste cene, Tobia pretendeva che dopo si cantasse; soffiava sul lume e diceva ai figli di cantare. Loro cantavano, e anche allo scuro s’indovinava che Tobia sorrideva come se gli si lisciasse il pelo. Io non potevo aggiungermi perché non sapevo nessuna delle loro canzoni, ma poi le imparai tutte perché cosí volle Tobia, me lo disse come il comando d’un lavoro sulla terra.
Tante di quelle volte, nella stalla, sul mio paglione, aspettando che mi si addormentasse la pancia perché potesse addormentarsi anche la testa, mi sono domandato se alla fine della mia annata non c’era pericolo di non toccar quei sette marenghi. E pensavo anche a come faceva Ginotta, che pativa la nostra stessa fame, ad avere quell’aspetto, che sembrava già una sposa del primo anno.
Venni presto in chiaro del perché lavoravano cosí da demoni e tiravano tanto la cinghia, da un discorso d’interesse che si fecero dietro la casa Tobia e suo figlio piú vecchio. Io ero lí per mio conto, che guardavo il rittano di Sant’Elena e aspettavo...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. La malora
  3. Nota
  4. Cronologia
  5. Bibliografia dei testi narrativi di Fenoglio
  6. Bibliografia critica
  7. La malora
  8. Il libro
  9. L’autore
  10. Dello stesso autore
  11. Copyright