La piccola schiera al seguito di Enrico ritrovò l’inverno sulle montagne del Tirolo, dopo il sole della pianura lombarda e i campi fioriti sulle rive dei grandi laghi. Ritrovò il freddo e la neve, cui si aggiungeva l’immensa tristezza per l’assenza di Williram, rimasto laggiú, nella buia cripta del castello di Canossa.
Enrico cavalcava distratto, accecato dalla neve gelata che il vento gli gettava negli occhi, assorto in cupi pensieri, con la mente rivolta ai suoi fantasmi. Williram era morto, eppure se lo vedeva davanti, col suo sguardo mansueto, le sue parole sagge: «Previenili alla Dieta di Augusta, prima che possano allearsi contro di te...», le sue ultime parole. Williram era stato l’unico di cui aveva potuto fidarsi, l’umile frate che capiva il modo di vivere dei grandi, le loro trame, i loro intrighi.
E Matilde? Una donna strana. Dopo tante notti d’amore appassionato, Enrico non avrebbe saputo dire se lo amava o se, per lei, era stato solo un gioco. Un gioco perverso per ingannare il papa. Questo era, di sicuro, l’intento di entrambi. Ma per lui, Enrico, c’era qualcosa di piú, che ora, dopo la separazione, andava prendendo un nome ben definito. Per la prima volta in vita sua, aveva amato. Lui, che aveva posseduto tutte le donne piú belle di Germania, aveva conosciuto l’amore con una donna non bella, piú vecchia, legata a filo doppio al papa e al partito dei suoi nemici. Era possibile? E... l’avrebbe mai rivista?
Questo pensiero fisso, quasi un rovello, accompagnava i suoi passi sulla via del ritorno. Di quella donna, di cui aveva conosciuto ogni millimetro del corpo nelle lunghe notti del loro amore, di cui ricordava la voce pacata e come spenta, anche nei momenti in cui avrebbe potuto esprimere liberamente la gioia o il piacere, che compiva i gesti d’amore in silenzio, come un rito, di quella donna lui non aveva mai viso gli occhi. Non sapeva neppure di che coloro fossero. Ma soprattutto non aveva mai visto la loro espressione, la gioia che illumina tutto il viso nell’estasi dei sensi, l’ira che lo rende terribile quando l’animo s’infiamma.
Anche al momento del loro congedo, quando l’emozione avrebbe potuto rendere tremula la voce o addirittura soffocarla, nel pronunciare quella parola che forse le era sfuggita contro la sua volontà , quel «tornerai?», non esprimeva nessun moto dell’animo. E gli occhi erano celati dal cappuccio di pelliccia.
Erano ormai arrivati alla pianura che, superate le Alpi, si stende verso settentrione, immensa, mossa da piccole colline, dolce e fertile. E vi avevano ritrovato la primavera. Il cuore dei cavalieri si apriva alla gioia: era la pianura della loro terra. Il sole scaldava le spalle degli uomini, le mani intirizzite sulle briglie; ghiaccio e neve erano rimasti indietro. Davanti a loro avevano il cielo azzurro e la speranza. Enrico si riscosse dai suoi pensieri, per la prima volta, dopo la partenza da Canossa.
– Fidelio, – disse al suo scudiero, – non è da queste parti che abbiamo incontrato la cascina dei gamberi?
– SÃ, – rispose Fidelio, – e presto la ritroveremo, perché è sulla nostra strada, la via che porta ad Augusta.
Cavalcavano infatti, il piú velocemente possibile, verso Augusta, per giungervi prima di duchi e baroni, che avrebbero potuto far lega contro di lui, rompendo l’accordo che gli concedeva un anno di tempo per ottenere la revoca della scomunica, accordo firmato quando nessuno, neppure lui, avrebbe osato sperare nel perdono del papa. Duchi e baroni, pronti a tradirlo, avrebbero trovato re Enrico già insediato nel palazzo della Dieta, restaurato nella sua dignità di re e finalmente imperatore.
Era assorto in questo pensiero, quando d’un tratto trasalÃ. Anche Fidelio doveva aver scorto qualcosa di sospetto, perché aveva improvvisamente trattenuto il cavallo, provocando cosà il brusco arresto di tutta la schiera.
– Fidelio, – disse il re puntando gli occhi nel fumo che si levava da una capanna bruciata, non molto distante da loro, – non è questo il luogo dove ci fermammo quella volta che fummo ospiti dei contadini? Quelli dei gamberi? Non è questo il ruscello? E quello laggiú il frutteto dove stavano cogliendo le mele?
– Signore, mi pare proprio che sia questo. Che sarà mai accaduto?
– Qualcuno ha dato fuoco alla casa, e anche alle colture, – disse il re indicando gli alberi da frutto che invece di offrire al sole i boccioli rosati dei fiori, levavano al cielo rami stecchiti e neri. Una folata di vento portò fino alla schiera l’odore acre del fumo.
– Non è stato per un incidente che la casa è andata a fuoco, altrimenti quegli alberi in fondo si sarebbero salvati.
– Proprio cosÃ, Fidelio, – gridò il re spronando il cavallo in quella direzione. – È stata un’aggressione. Hanno ucciso tutti e dato fuoco alla casa. Maledetti!
Giunti sul luogo dov’era la cascina, dovettero riconoscere che il re aveva ragione. Resti di corpi bruciati giacevano sul pavimento di terra battuta, alcuni portavano ancora i segni delle trafitture a colpi di spada. Le pareti di legno avevano alimentato il fuoco appiccato certamente con una freccia incendiata e scagliata contro il tetto di paglia. Doveva essere stato un assalto improvviso, prima dell’alba. La cenere era ancora calda.
Enrico ammutolà per lo stupore e il dolore. Poi diede sfogo alla sua collera:
– Maledetti. Li hanno uccisi perché ci hanno ospitati! Devono aver pensato che ci erano amici, e qualcuno che ci spiava avrà portato la notizia a un barone mio nemico, Rodolfo certamente, che sia maledetto! Ma perché loro, poveri contadini? Solo perché mi hanno accolto nella loro casa... Non avessi mai chiesto una mela a quella ragazza! – E a questo punto Enrico non poté trattenere le lacrime.
– Avete ragione, signore, cosa c’entrano loro con la nostra guerra?
– Fidelio, i contadini non c’entrano mai con le guerre dei principi, ma sono sempre quelli che subiscono le conseguenze piú atroci.
Era vero. Proseguendo infatti sulla strada per Augusta, scorsero altre capanne bruciate, arsi persino gli alberi da frutto. Gli armigeri del duca Rodolfo, convinti che tutta la regione fosse partigiana del re, avevano compiuto una strage orrenda, passando a fil di spada gli abitanti, incendiando capanne e interi villaggi. Enrico cavalcava accecato dall’ira e dal pianto. Dagli orti devastati spuntavano qua e là nella terra nera i primi cespi di lattuga, là dove un piccolo spazio era stato risparmiato dalle scorrerie.
– Signore! Signore! – una voce chiamava da una macchia di salici. Enrico arrestò il cavallo e si guardò attorno. Vide una figuretta nera uscire da sotto gli alberi e correre verso di lui. Portava negli abiti e nel corpo i segni dell’incendio, ed Enrico riconobbe in lui il ragazzo dei gamberi.
– Signore! – gridò affannosamente quando fu giunto accanto al cavallo del re, – sono tutti nascosti là , tra quegli abeti. Devono aver saputo del vostro arrivo e vi hanno teso un agguato.
– Qualcuno li avrà informati, – disse Enrico. E, rivolto al ragazzo: – Monta davanti a me e tienti stretto al collo del cavallo – . Poi si volse alla sua schiera e disse:
– Dobbiamo fare un piano di battaglia. Per fortuna siamo stati avvertiti in tempo. Non ci hanno ancora visti. Aggiriamo quella macchia di abeti; li prenderemo alle spalle. Sai quanti sono?
– Una ventina circa, signore, – e cosà dicendo il ragazzo guardò in viso Enrico. Fu allora che il re vide quel piccolo volto fuligginoso, in cui le lacrime aprivano due solchi chiari. Lo carezzò con la sua grande mano e gli chiese:
– Come ti chiami?
– Hermann, ma i miei mi chiamano Manni – . Solo allora dovette rendersi conto che non aveva piú né casa né famiglia. Scoppiò in singhiozzi. Il re lo avvolse nel suo mantello.
– Povero ragazzo! Ti hanno ucciso tutti, – disse il re. Poi, rivolto ai suoi uomini: – Noi siamo dodici. Tredici con me. Se riusciamo a sorprenderli, possiamo avere la meglio. Quei cani devono essere stanchi, perché hanno lavorato tutta la notte, – aggiunse indicando col mento le rovine che li circondavano.
Li trovarono effettivamente addormentati per terra avvolti nei loro mantelli. Non c’era che un armigero di guardia, mezzo assopito sul suo cavallo. Tutto intorno, le tracce di un gigantesco banchetto: ossa di capretto e di agnello, teste di oca, e nel mezzo i resti di un grande fuoco, su cui le prede erano state arrostite. Sparse qua e là , botticelle di birra, alcune rovesciate, tutte vuote. Il cibo e la birra avevano avuto ragione di quell’audace schiera di armati, che avevano mostrato il loro coraggio uccidendo povera gente inerme sorpresa nel sonno, bruciando le loro case e distruggendo i coltivi. Un maialino legato a un albero grufolava stancamente sul terreno calpestato.
– Il mio maiale, – gridò il ragazzo. E il re, mettendogli una mano sulla bocca, sussurrò:
– Taci. Vedrai che adesso ce lo riprendiamo.
Cosà dicendo indicò a uno dei suoi arcieri l’uomo a cavallo. L’arciere tese l’arco, prese la mira, e una freccia passò da parte a parte la sentinella, che cadde da cavallo con un grido soffocato. Un altro gli fu sopra e gli trafisse la gola con la spada. Non fu una battaglia quella che seguÃ, ma una carneficina. Qualcuno, svegliato dallo scalpitio dei cavalli e dai rantoli dei morenti, tentò di fuggire a piedi, ma fu subito raggiunto da uno degli uomini del re, che non erano smontati dalle loro cavalcature, e trafitto dalla lunga spada dei guerrieri franconi.
Quando tutti furono uccisi e la vendetta compiuta, il maialino spaventatissimo fu liberato e affidato a Manni, in cui riconobbe subito il suo padrone, quello che tutte le mattine gli riempiva il trogolo di foglie di cavolo e di altri cibi prelibati. Si calmò tra le sue braccia, sotto gli occhi del re, che disse:
– Manni, questo porcellino è l’unico superstite. Prendi un cavallo e mettilo in groppa davanti a te. Sai andare a cavallo?
– SÃ, signore.
– Manni, ricordi? Ti avevo detto che ti avrei dato in dono un cavallo. Questo che ora cavalcherai non è il cavallo che ti ho riservato. Quello potrò donartelo quando le cose andranno meglio anche per me. È una promessa.
– Grazie, signore, – disse il ragazzo rivolgendo al re uno sguardo d’affetto.
– Allora monta su uno di questi per ora, e stringiti bene il maialino al petto, che ti scaldi un po’ e non ti scappi. E ora, tutti in sella e al galoppo verso Augusta!
In un baleno gli armigeri pulirono dal sangue le loro spade strofinandole con l’erba tenera di primavera. E tosto furono a cavallo. Il rumore della cavalcata si sparse per la campagna, per le collinette e i valloncelli, rompendo il silenzio di morte che la strage aveva diffuso all’intorno.
Era l’ora del mattino in cui i contadini erano soliti uscire dalle loro capanne per andare a coltivare campi e orti, era la stagione che vedeva schiene curve sui solchi, mani che zappavano, sarchiavano, potavano alberi da frutto. Voci si rincorrevano da un podere all’altro, voci di donne che chiamavano i figli, voci di bambini che uscivano a pascolare oche e maiali.
Quel giorno il silenzio di morte non era rotto neppure dal grido degli uccelli.
Udà il rumore della cavalcata un uomo che sedeva in sella al suo cavallo, e procedeva lasciando le briglie abbandonate sul collo dell’animale. L’uomo tese le orecchie. Chi potevano essere quei cavalieri che si avvicinavano al galoppo? Non certo quelli della sua schiera, i compagni che aveva lasciato addormentati nel boschetto di abeti, e che lo avevano mandato ad annunciare al duca Rodolfo l’esito della missione. Anche lui aveva preso parte a quell’impresa di morte, anche lui era stanco.
Quel rumore di zoccoli sempre piú vicino lo preoccupò. Per quanto s’interrogasse, non riusciva a spiegarsi chi poteva venire da quella parte, a quella velocità . I suoi compagni sicuramente ancora dormivano ubriachi di cibo e di sangue. Lasciò il sentiero e si nascose in un folto di pinastri un poco discosto.
Manni, che cavalcava accanto al re tenendosi ben stretto il suo maialino – che per altro non aveva nessuna intenzione di fuggire – e, accarezzandolo ogni tanto, abbassava gli occhi a guardarlo, scorse sul sentiero le impronte del cavallo che li precedeva, ben impresse nel terreno umido di rugiada. Le indicò con una mano al re, il quale fece cenno alla sua schiera di fermarsi.
– Sono impronte di un cavallo che va al passo, – disse Fidelio, – il che vuol dire che cavallo e cavaliere sono stanchi.
– È certo uno della schiera che abbiamo distrutto, forse mandato avanti a portare un messaggio a qualcuno. Avrà senz’altro udito il rumore della nostra cavalcata e si sarà nascosto, – disse Enrico. – Procediamo in silenzio seguendo il suo percorso.
Dopo un breve tratto di sentiero, le orme del cavallo sparirono. Il terreno era intatto. Ma, guardando bene attorno, non fu difficile, al re e ai suoi uomini, scorgere l’erba e i primi fiori del tarassaco piegati, una traccia che portava diritto alla macchia di pinastri. E là si diresse la schiera, e là sorprese il messaggero nascosto, il quale, annichilito dalla paura, non tentò né di fuggire né di opporre resistenza. Consegnò la spada e si diede prigioniero.
– Chi ha ordinato la strage dei contadini? – chiese senza preamboli il re.
– Il duca Rodolfo, signore, – rispose subito l’interrogato. Il quale evidentemente non era un eroe, o non approvava quello che gli era stato ordinato.
– Perché? – chiese di nuovo il re. Ma questa volta non ebbe risposta. Il prigioniero sembrava chiederselo anche lui.
– Per quale motivo? – insisté Enrico. – Che cosa avevano fatto quei contadini?
– Nulla. Forse il duca Rodolfo ha pensato che fossero vostri amici, – azzardò. Poi, accennando a Fidelio, aggiunse: – Siete stati visti uscire da una di quelle cascine, l’anno scorso.
– Hai sentito, Fidelio? Mio cognato ci spia, non vuole perderci di vista. Tanto ci ama... – E rivolto di nuovo al prigioniero:
– Parla. Che altro sai? Parla se non vuoi che ti uccida come abbiamo fatto con i tuoi compagni che russavano pieni di cibo e di birra, le mani ancora sporche del sangue dei contadini che avevano appena finito di sgozzare. Vedi questo ragazzo? – e indicava Manni stretto al suo maialino, – Dio solo sa come è sfuggito alle vostre spade. E ha visto morire tutti i suoi... – La voce del re era andata alterandosi fino alla collera.
Quello guardò il ragazzo, del quale per il gran terrore prima non si era accorto, poi rivolse al re gli occhi pieni di lacrime: – Io non volevo, signore, lo giuro! È stata una cosa orribile... – E tutti si avvidero allora che il prigioniero era poco piú grande di Manni. Videro anche, e lo notò soprattutto il re, che le sue mani, la corazza di cuoio e le sue vesti non erano insanguinate. – Non ho partecipato alla strage, – continuò, – e per questo motivo, accusandomi di vigliaccheria, hanno deciso di mandarmi come messaggero al duca Rodolfo, ben sapendo che avrei potuto essere ucciso nel viaggio.
– Voglio crederti, – disse il re, – ma di’ tutto quello che sai. Che cosa sta tramando il duca contro di me?
– Ha inviato messaggeri ai principi, perché si riuniscano ad Augusta il piú presto possibile. Ha fatto spargere la voce che voi, signore, siete morto in Italia, e che ora la Germania non ha piú re.
– E tu come sai queste cose? – chiese Enrico stupito di udire una tale rivelazione.
– Ero paggio a corte, e confidente del duca, – disse il giovane arrossendo violentemente.
– Ma bene! Il...