Storie sulla pelle
eBook - ePub

Storie sulla pelle

  1. 240 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Storie sulla pelle

Informazioni su questo libro

Si dice che raccontare la propria vita serva a comprenderla. Ci sono esperienze, però, su cui le parole non hanno presa: si può solo «soffrirle» una seconda volta sulla propria pelle.
I criminali siberiani le loro vite se le portano addosso, incise dalla mano esperta del kol'sik: sacerdote e custode della tradizione, il tatuatore e l'unico a comprendere fino in fondo la lingua arcana dei simboli.
Ma i tatuaggi, mentre raccontano delle storie, ne creano altre: generano incontri ed equivoci, stabiliscono legami, decidono, a volte, della vita e della morte.
Ed è attraverso questo vortice di storie che Nicolai Lilin ci conduce dentro la tradizione dei «marchi» siberiani. Sei racconti diversissimi - comici o disperati, violenti, romantici, rocamboleschi - nei quali ritroviamo alcuni dei personaggi memorabili di Educazione siberiana - la banda di minorenni capitanata da Gagarin, il colossale Mel, nonno Boris e gli altri vecchi fuorilegge di Fiume Basso - e ne incontriamo di nuovi: Oliva, che spara come un sicario e si porta sempre appresso la foto di una donna; Styopka con il suo amore impossibile; Pelmen, che pagherà caro un tatuaggio sbagliato nel posto sbagliato; e ancora Kievskij, criminale di Seme nero; il vecchio hippy Batterista in perenne lotta con una direttrice dittatoriale; il terribile Treno e la virginale Cristina.
A fare da filo rosso, c'è la voce inconfondibile di Nicolai «Kolima» e la storia della sua formazione da tatuatore. Dai primi tentativi in forma di gioco all'apprendistato nel laboratorio di nonno Lësa, fino all'esercizio di una vera e propria professione, il cammino di Kolima si rivela una messa a fuoco progressiva che dalla superficie - l'estetica affascinante dei simboli - si muove verso «il centro esatto del mistero». Per le immagini interne © Stefano Fusaro e Nicolai Lilin

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2012
Print ISBN
9788806214142
eBook ISBN
9788858406878
Argomento
Literature

La storia impossibile

Avevo circa quattordici anni all’inizio della storia che sto per raccontare. Era autunno, per essere piú preciso metà ottobre, e le strade della mia città si riempivano di foglie secche che formavano un enorme tappeto marcio, esteso fin dove arrivava lo sguardo. Gli spazzini erano stati quasi tutti licenziati, perché con la crisi l’amministrazione politica aveva pensato bene di sacrificare i dipendenti statali. Una serie di decreti duri come il martello e taglienti come la falce (simboli che sapevano essere ancora mortali, nonostante appartenessero a un’epoca ormai tramontata) avevano gettato i cittadini in pasto a un mercato libero sempre piú forte e sempre piú affamato di anime umane. Il programma di ricostruzione del Paese era stato sostituito da un concetto vago e, in quel contesto storico, molto pericoloso: la libertà. La gente accettava di combattere nel nome della libertà con tale fervore che era pronta a demolire persino le proprie case, ma bastava scavare un po’ nel profondo per accorgersi che non c’erano due persone che dessero a quel concetto lo stesso significato. Ognuno, questa famosa libertà, la vedeva a modo suo, e il Paese si stava trasformando in un vortice inimmaginabile di caos.
Da un giorno all’altro, intere famiglie non avevano piú i mezzi per procurarsi il cibo; qualcuno si suicidava con un colpo di pistola, qualcun altro sceglieva una morte piú lenta, abbandonandosi all’alcol e alla droga. Celebravamo il funerale delle nostre comuni speranze, ed eravamo tutti afflitti dalla stessa apatia e dalla stessa tristezza: ogni sera andavamo a dormire con un peso insopportabile addosso, una specie di rammarico mischiato a una forte preoccupazione. Il mondo appariva troppo surreale, anche l’autunno sembrava piú freddo e spettrale del solito, macabro, con il cielo sporco e spento e l’aria senza odore. Mio nonno chiamava quel periodo «il purgatorio».
Aspettavamo l’arrivo dell’inverno, per lasciarci alle spalle quei paesaggi malinconici e riempirci gli occhi di neve fresca e ricca. Ci serviva una conferma visiva che il tempo girava e la vita andava avanti, che non eravamo prigionieri di un incantesimo malvagio. Già da qualche giorno erano cominciati i primi geli notturni, e alcune mattine andando a scuola si poteva vedere una sottile crosta di ghiaccio nelle pozzanghere, o attorno ai rubinetti delle fontane pubbliche. L’acqua del fiume diventava cristallina e spariva l’odore di palude, fermato dal freddo. Di sera arrivava un vento pieno di nebbia che inumidiva le strade del quartiere e si addensava sotto le luci dei lampioni; il buio arrivava ogni giorno un po’ prima, i vecchietti lasciavano presto le panchine su cui d’estate si fermavano fino a tarda notte, e le loro riunioni si accorciavano sempre di piú, finché non diventavano cosí brevi che i partecipanti non avevano nemmeno il tempo di sedersi: si radunavano in cerchio vicino a un incrocio, si salutavano, fumavano la pipa o una sigaretta imbottita di tabacco coltivato nei loro orti, e poi se ne andavano ognuno a casa propria.
Gli uomini tiravano a riva le ultime barche, le donne preparavano la verza marinata sotto sale da consumare nei mesi d’inverno. La gente metteva le giacche pesanti, le biciclette sparivano, comparivano gli ombrelli.
Le mie giornate in quel periodo erano molto semplici: mi alzavo presto, facevo colazione con pane, burro e marmellata, mandando giú tutto con il tè bollente al miele. Uno dei cani che abitava nel nostro cortile, battezzato da mia nonna «Gjulik», che in gergo criminale indica un piccolo e furbo ladruncolo, mi accompagnava a scuola, e poi tornava a casa da solo. Avevo preso a frequentare le lezioni con una certa continuità, un fatto abbastanza insolito nella mia adolescenza (riepilogando il mio percorso scolastico, viene fuori che ho passato piú tempo in corridoio, buttato fuori dalla classe per qualche guaio, o al fiume con miei amici, che dietro al banco).
A scuola non portavamo dei veri e propri zaini, ma un sacchetto romboidale di plastica spessa stampata con le foto dei divi americani del cinema e della musica, oppure con le foto di macchine sportive di classe. E quei sacchetti erano considerati un segno di meravigliosa eleganza. Dentro ci stava solo un libro – che nel mio caso non era mai un libro scolastico, ma un romanzo che leggevo per tenermi occupato durante le lezioni – e poi riuscivo a farci stare il quaderno dei tatuaggi, tradizione che stavo imparando a conoscere grazie al kol´šik nonno Lëša, che suo malgrado si era preso l’impegno di insegnarmi con grande pazienza e serietà tutti i particolari del suo lavoro.
Tatuaggi a parte, al centro dei miei interessi c’era la lettura. Mi piaceva soprattutto la letteratura straniera, mi piacevano i libri d’avventura, che raccontavano Paesi lontani e diversi dal mio, vite diverse dalla mia. Non potendo viaggiare, leggere era il mio modo di misurarmi con il mondo.
Quando ero piú piccolo, ispirato dai libri, avevo organizzato vere e proprie spedizioni, come quella che mi era venuta in mente sotto l’effetto della lettura di Kon-Tiki, in cui l’esploratore norvegese Thor Heyerdahl raccontava di come aveva attraversato il Pacifico a bordo della sua mitica zattera. Incantato dalle sue descrizioni, volevo fare qualcosa che mi elevasse a quegli stessi livelli spirituali, ma piú adatto alle dimensioni e alle possibilità del ragazzino che ero: raggiungere il Mar Nero, ovviamente a bordo di una zattera. Con l’aiuto dei miei amici, in due settimane di duro lavoro ho costruito la mia imbarcazione con quattro botti legate insieme che fungevano da galleggianti, e un pavimento fatto di assi di legno e corda. Sopra ci avevo persino montato una tenda in cui si dormiva in quattro. La zattera è affondata a circa un quarto d’ora dalla partenza, ma l’incidente non ha intaccato il mio buonumore né la mia voglia inarrestabile di scoprire il mondo.
Oltre alle avventure «turistiche», io e i miei amici andavamo pazzi per le azioni di guerriglia. Gli scontri avvenivano quasi sempre con i ragazzini degli altri quartieri, e quasi sempre per motivi a noi sconosciuti, perché quello che contava non era avere ragione o torto, era la rissa in sé. Con il tempo, dopo le prime botte serie, i primi coltelli e le prime esperienze nel carcere minorile, molti di noi hanno tentato di darsi una regolata, ma nella maggior parte dei casi ormai era inutile.
All’epoca me ne andavo sempre in giro con la fionda, una manciata di bulloni che usavo come proiettili, e la mia picca,1 che mi teneva legato al mondo dei vecchi come un ponte sottile ma inscalfibile che affondava nelle mie radici. Mi sentivo un cavaliere della tavola rotonda, con le mie armi e le mie missioni da compiere, chiamato a difendere valori di estrema importanza di cui però, spesso, non capivo nemmeno il senso. Al posto dell’armatura indossavo un giubbotto caldo e il cappello fatto a maglia da mia madre, e dei guanti di pelle che mi stavano troppo larghi, ma mi piacevano. Ero uno dei tanti ragazzini che s’incontravano in qualsiasi città di provincia dell’ex Unione Sovietica.
Dopo il crollo dell’Urss la struttura scolastica si era impoverita molto, il programma di studi trasudava vecchiaia e in molti casi era addirittura imbarazzante, perché si basava ancora sui pilastri dell’ideologia comunista che giorno dopo giorno vedevamo scomparire, sepolti dalla nuova potente propaganda del capitalismo e del consumismo occidentale. Durante le lezioni di storia ci insegnavano che la Seconda guerra mondiale l’avevamo vinta noi, e la sera, a casa, guardavamo sui nuovi canali della tv via cavo i film americani ed europei, dove un eroe ricoperto di muscoli (già una bella novità, per noi, perché il culturismo non era tra gli stereotipi estetici del socialismo sovietico) combatteva in Afghanistan per sterminare gli invasori russi, uomini perfidi che parlavano una lingua comprensibile soltanto agli orsi, sorseggiavano instancabilmente una bottiglia di vodka e sorridevano maligni mettendo in mostra i denti marci. Tutto il nostro patriottismo, gonfiato a scuola la mattina, crollava all’improvviso: scoprivamo di essere i cattivi, gli antieroi. Ce ne andavamo a letto confusi e sconfitti, avvolti in una nuvola di dubbi e contraddizioni, senza capire se dovevamo essere felici e orgogliosi di essere nati e cresciuti lí, o se invece dovevamo vergognarci. Eravamo a disagio, costretti a reinventarci ogni giorno.
I nostri insegnanti erano bravi e professionali, e provavano con tutte le loro forze a fare un buon lavoro, tentando di farci diventare persone perbene, però non era semplice dedicarsi completamente a noi quando da mesi non ricevevano lo stipendio. Si vedevano sparire la terra da sotto i piedi. Molti di loro si licenziavano perché non potevano aspettare troppo a lungo gli stipendi congelati, nessuno poteva sfamarsi con le promesse dei politicanti corrotti, ed era meglio dedicarsi a professioni piú proficue.
Ogni tanto capitava che qualcuno oltrepassasse i limiti. Ricordo due scandali, uno riguardava l’arresto di un giovane insegnante di educazione fisica, un atleta, che era entrato in una banda composta tutta da sportivi: pareva che sfruttassero le loro abilità fisiche per compiere furti negli appartamenti, saltando come acrobati tra le finestre dei palazzi.
Protagonista dell’altro scandalo era una maestra di storia, che era andata a prostituirsi nella ricca San Pietroburgo. Qualcuno della mia città l’aveva vista e riconosciuta, e quell’informazione era diventata una sorta di scoop, tutti ne parlavano ed era finita pure sul giornale. La insultavano e la giudicavano come se fosse il nemico pubblico numero uno, nessuno pensava al fatto che aveva ventiquattro anni, una madre malata, un padre sottoterra e nessun reddito.
Molti invece andavano via, abbandonavano il nostro Paese dimenticato da Dio, una roccaforte di miseria che peggiorava sempre di piú.
Ci avevano messo davanti il modello occidentale, come se bastasse guardarlo: nessuno spiegava cosa volesse dire, in che cosa consisteva questo «essere occidentali». E cosí ci stavamo trasformando in caricature che ogni nove maggio riempivano le strade di fiori per festeggiare la vittoria della «Grande guerra patriottica», ma indossavano cappellini da baseball e T-shirt con la bandiera americana.
Nonostante ci rendessimo conto che molte cose non andavano, noi ragazzi non potevamo capire fino in fondo: non avevamo posti di lavoro a cui dire addio, stipendi da ridurre, la nostra adolescenza non aveva perso il suo splendido colorito. Oggi, magari, posso ammettere di aver avuto un’infanzia difficile, ma se me l’avessero chiesto in quegli anni non avrei saputo desiderare nulla di piú.
Nella nostra scuola eravamo parecchi, era un palazzetto di tre piani, con due palestre e un edificio separato dove si svolgevano le lezioni di «lavori manuali». C’erano allievi di tutte le età, dai sei ai sedici anni. Era una normale scuola di periferia d’epoca post-sovietica, con tutto quel che comporta questa definizione.
Il tipico scolaro, innanzitutto, non studiava; era già tanto se di sei lezioni giornaliere ne frequentavamo due, e chi si azzardava a seguirne di piú era considerato una specie di mostro, un malato da cui prendere le distanze per non rischiare di essere contagiati dalla sua voglia d’imparare. Il rimprovero piú comune, che funzionava anche come un’argomentazione infallibile quando si voleva infangare la reputazione di qualcuno, era: «Non vorrai mica diventare il migliore di tutti?»
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I maschi facevano i prepotenti con le femmine, non esisteva nessun rispetto per quello che consideravamo a tutti gli effetti «il sesso debole», e di galanteria neanche a parlarne. Chi aveva l’occasione di imporsi sugli altri con la forza, lo faceva senza tante cerimonie, e in un attimo impazziva tramutandosi in una specie di dittatore locale, ubriaco di presunzione, commettendo gli atti piú disonesti e atroci, finché qualcuno di noi sottomessi non si arrabbiava sul serio. Allora organizzavamo delle azioni per detronizzarlo, solo che non serviva a niente, perché appena un idiota era stato punito e giustiziato, un altro occupava in fretta il suo posto, e si comportava persino peggio. Era un giro infinito d’imbecilli, e come diceva spesso mio nonno «non basteranno mai né gli uomini né le forze per ammazzare tutti i cretini».
Per riscaldare la nostra vecchia scuola si bruciava il carbone dentro una grossa stufa, da cui dipendeva tutto l’impianto di riscaldamento. Spesso, nelle giornate di freddo, quando scappavamo dalle lezioni andavamo a rifugiarci lí, nella cantina nella caldaia.
Il vecchio fochista era un personaggio storico dell’istituto, molto amato e rispettato: nessuno conosceva il suo vero nome, ma lo chiamavamo tutti «Batterista», perché da giovane aveva fatto parte di un gruppo di musicisti hippy. Il fatto che suonasse dei generi musicali importati dall’Occidente era bastato a spedirlo in carcere come dissidente: funzionava cosí in Unione Sovietica, il rock o qualsiasi altra musica che non fosse stata approvata dal ministero della cultura era illegale, e chi la suonava veniva mandato in carcere o in qualche ospedale psichiatrico, come il famigerato Kaščenko. Il nostro Batterista aveva conosciuto sia l’uno che l’altro, in tutto aveva scontato quattordici anni di reclusione per aver suonato con il suo gruppo per qualche mese, prima che gli agenti del Kgb li arrestassero tutti. Batterista li chiamava «gli anni dei campi di concentramento».
Il vecchio hippy era un tipo proprio simpatico, con la barba lunga e i capelli ancora piú lunghi, raccolti in una coda e nascosti dentro il cappello. Quando era solo nella sua cantina se lo toglieva e girava con i capelli sciolti, era la sua piccola rivoluzione, il suo modo di sentirsi libero.
Gli mancavano gli incisivi, e aveva sempre un mozzicone fumeggiante attaccato alle labbra (spesso era una sigaretta di canapa regalata da qualcuno); i suoi occhi erano scuri e molto profondi, ma coperti da una specie di nebbiolina, e avevano un colore impossibile da identificare. Mia nonna avrebbe detto che erano occhi «baciati da Satana», e non sarebbe stato un complimento.
Batterista si vestiva in modo molto banale, per lo piú in grigio (come tutti quelli cresciuti all’epoca della dittatura sovietica: sembravano fatti con lo stampino). L’unico tocco di colore che si permetteva era una vecchia sciarpa di seta indiana, che teneva sempre avvolta attorno al collo, nascosta sotto la barba. Secondo me non se la toglieva mai, neanche quando andava a dormire o in quelle rare occasioni in cui si lavava.
Quando andavamo a trovarlo ci raccontava un sacco di storie sulla musica e su quello che era successo quando i giovani avevano cominciato a suonare il rock. Raccontava, ad esempio, di come lui e i suoi amici avevano organizzato un festival musicale, il Festival della libertà universale, che nonostante il nome, per molti partecipanti, si era tradotto in arresto e reclusione. O di come viaggiavano per il Paese costretti ogni volta a smontare e rimontare gli strumenti, camuffandoli da attrezzi di lavoro, per poterli trasportare senza attirare l’attenzione; e ancora di quando si fermavano a suonare nelle cantine, di nascosto, di notte, nei concerti proibiti organizzati nei boschi fuori città o nei cimiteri, inseguiti dagli agenti del Kgb e dalla polizia. Era molto affezionato al passato, ai ricordi di gioventú, alla sua generazione, agli ideali del movimento hippy che lui chiamava «la scuola dell’amore universale». Diceva che erano «cose da uomini liberi e coscienti», però poi ammetteva che «nel mettere in pratica l’amore, molti si erano fermati all’erba e agli acidi».
Nella cantina della stufa, che per noi era la cantina di Batterista, le pareti erano ricoperte di foto di musicisti stranieri, soprattutto dei Beatles, e soprattutto di John Lennon, il suo mito, «un vero fratello, – diceva, – finito ammazzato da un uomo che aveva perso la strada».
Di solito ci faceva accomodare su un divano lercio che aveva sistemato in mezzo alla stanza, di fronte alla stufa, e su cui dormiva sempre il suo cane, un barboncino malandato che si chiamava Elton. Era una rarità vedere Elton camminare, mangiare, abbaiare, o fare qualsiasi altra attività che non fosse legata al sonno, e non esisteva un modo per svegliarlo o per spostarlo dal divano, insomma, ci accorgevamo che era vivo solo grazie al fatto che spesso, dormendo, si metteva a russare.
Batterista aveva una chitarra acustica decrepita, ricoperta di disegni fatti da lui con il pennarello. Nell’insieme lo strumento aveva qualcosa di primitivo, faceva pensare ai graffiti dei nostri antenati sui muri delle caverne. Purtroppo il suono che produceva era insopportabile, e non si capiva se era dovuto alle condizioni di estrema vecchiaia del legno e delle corde, o se invece Batterista era completamente incapace di suonare. Comunque ci sedevamo sul divano, attorno a Elton, davanti allo sportello aperto della stufa, e Batterista strimpellava un paio di pezzi dei Beatles o di qualche altro gruppo. Gli piacevano molto anche Janis Joplin, i Jefferson Airplane, i Creedence, mentre aveva una pessima opinione dei musicisti rock russi, li chiamava «gente che finge di essere libera», e sosteneva che gli unici che da noi erano riusciti a fare rock senza finire in carcere erano i figli dei pezzi grossi del partito, da lui ribattezzati «figli viziati di sbirri comunisti».
In occasione di questi concerti improvvisati, per...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Storie sulla pelle
  3. Il marchio dei criminali onesti
  4. Il labirinto dei simboli
  5. Niente è per sempre
  6. La storia impossibile
  7. Quello che non dovrebbe succedere
  8. Il marchio del demonio
  9. Copyright