Credo che molti non sappiano quanto si celi dietro una storia, quante parti non ne siano state raccontate, quanto di piú sia accaduto rispetto a quello che leggono nel libro che tengono fra le mani e in cui si immergono.
Le storie sono un po’ come le lettere. Dopo avere scritto una lettera, quante volte si pensa: «Ah, perché non ho detto questa cosa?» Scrivendo un libro, si racconta ciò che si ricorda in quel momento, e se si dovesse narrare tutto quello che è davvero successo, non si arriverebbe mai alla fine. Fra le righe di una storia c’è sempre un’altra storia, che non è mai stata ascoltata e può solo essere indovinata da chi ha abbastanza intuizione per farlo. La persona che scrive potrà anche non saperne mai niente, ma a volte lo sa, e vorrebbe poter ricominciare da capo.
Quando scrissi la storia di Sara Crewe, immaginavo che da Miss Minchin fosse avvenuto molto piú di quello che ero riuscita a scoprire. Naturalmente, ero consapevole che dovevano esserci stati capitoli densi di eventi, e quando trassi dal libro un’opera teatrale, che intitolai La piccola principessa, ne vennero fuori tre atti pieni di avvenimenti. Piú di tutto, mi interessò venire a sapere che nel collegio c’erano ragazzine che non avevo mai sentito nominare. C’era Lottie, un tipino divertente; c’era una sguattera affamata, che adorava Sara; Ermengarda era molto piú piacevole di quanto fosse parsa sulle prime; nella soffitta accadevano fatti cui nel libro non si faceva cenno, e un certo Melchisedec era un carissimo amico di Sara e avrebbe certo fatto parte del racconto, se solo fosse comparso per tempo. Lui, Becky e Lottie vivevano da Miss Minchin, e proprio non capisco come mai non si siano fatti vivi con me da subito. Erano reali tanto quanto Sara, ma non si erano presi la briga di uscire dalle ombre della storia per dirmi: «Eccomi, parla di me». Eppure è andata cosÃ, ed è colpa loro, non mia. I personaggi di un libro dovrebbero farsi avanti all’inizio, dare un colpetto sulla spalla dello scrittore e dire: «Ciao, ci sono anch’io». In caso contrario, non resta che biasimare il loro comportamento goffo e pigro.
Quando il musical de La piccola principessa andò in scena a New York, attirando tanti bambini che si appassionarono a Becky, Lottie e Melchisedec, i miei editori mi chiesero di riscrivere la storia di Sara con tutti gli episodi e i personaggi che ne erano rimasti fuori, e io acconsentii. Una volta cominciato, mi resi conto che in effetti c’erano pagine e pagine di vicende che non avevano trovato posto neppure nel musical, perciò in questa versione ho inserito tutto quello che sono riuscita a scoprire.
FRANCES HODGSON BURNETT
In una cupa e nebbiosa giornata d’inverno, con le luci dei negozi e i lampioni accesi come di notte, una bambina sedeva accanto al suo papà in una carrozza che procedeva lentamente per le strade di Londra. Teneva i piedi rannicchiati sotto di sé e si appoggiava al padre, che la stringeva fra le braccia, e intanto osservava dal finestrino i passanti con uno strano sguardo pensieroso nei grandi occhi.
Nessuno si sarebbe mai aspettato di vedere un’espressione simile sul viso di una creatura cosà piccola. Quello sguardo sarebbe apparso troppo serio anche per una bimba di dieci anni, e Sara Crewe ne aveva solo sette. In effetti, passava il tempo a fantasticare, riflettendo sugli adulti e sul loro mondo. Le sembrava di avere vissuto molto, molto piú a lungo della sua età .
In quel momento era assorta nei ricordi del viaggio appena fatto da Bombay a Londra con il padre, il capitano Crewe. Nella mente le scorrevano le immagini del grande bastimento su cui si erano imbarcati, dei lascari che si aggiravano silenziosi, dei bambini che giocavano sul ponte arroventato dal sole, delle mogli di alcuni giovani ufficiali che la invitavano a parlare con loro e ridevano dei suoi racconti.
Soprattutto, pensava a quanto fosse bizzarro essere stata prima in India sotto un sole cocente, poi nel bel mezzo dell’oceano e ora in una strana carrozza che percorreva le vie di una città sconosciuta, dove il giorno era buio come la notte. Tutto questo era cosà sconcertante che la bimba si avvicinò ancor di piú al padre.
– Papà , – lo chiamò con una vocina talmente bassa da sembrare un sussurro. – Papà –.
– Che c’è, tesoro? – rispose lui, stringendola forte a sé e chinandosi per guardarla in viso. – A cosa pensa la mia Sara?
– È questo il posto? – mormorò, raggomitolandosi contro di lui. – È qui, papà ?
– SÃ, bimba mia, è qui. Siamo finalmente arrivati –. E, per quanto fosse ancora cosà piccola, Sara percepà la tristezza che si celava dietro quelle parole.
Erano anni che il padre aveva cominciato a prepararla all’arrivo in quel luogo, che lei chiamava «laggiú». Sara non aveva conosciuto la madre, morta nel darla alla luce, e non aveva perciò avuto modo di rimpiangerla. L’unica persona che aveva al mondo era il padre, giovane, bello, ricco e affettuoso; avevano sempre giocato insieme e si volevano un gran bene. La bimba sapeva che era ricco: lo aveva sentito dire da qualcuno convinto che lei non stesse ascoltando, ma non capiva bene cosa significasse. Avevano detto che anche lei sarebbe stata ricca, da grande.
Aveva sempre abitato in un bellissimo bungalow ed era abituata ad avere intorno molti domestici che si inchinavano davanti a lei, la chiamavano «Missee Sahib» e le facevano fare tutto quello che voleva. Aveva giocattoli, animali e una balia indiana che la adorava; a poco a poco, aveva capito che le persone benestanti vivevano cosÃ, e questo era tutto ciò che sapeva sulla ricchezza.
Nella sua breve esistenza, aveva avuto una sola preoccupazione: quel «laggiú» dove sapeva che un giorno l’avrebbero portata. Il clima dell’India non era salutare per i bambini, che appena possibile venivano mandati lontano, per lo piú in Inghilterra, in collegio. Sara aveva visto partire diversi bimbi e poi aveva sentito i loro genitori parlare delle lettere che ricevevano dai figli. Sapeva che anche lei sarebbe andata via, un giorno, e anche se a volte era incuriosita dalle storie che il padre le raccontava sul viaggio che avrebbero fatto e sul Paese dove si sarebbe trasferita, era molto turbata al pensiero di doversi separare da lui.
– Perché non resti con me, papà ? – gli chiedeva già da quando aveva cinque anni. – Non puoi venire in collegio anche tu? Ti aiuterei a fare i compiti.
– Non rimarrai là a lungo, piccola mia, – rispondeva lui. – Starai in una bella casa, con tante altre bambine, e giocherai con loro. Ti manderò molti libri, e crescerai cosà in fretta che ti sembrerà che sia passato solo un anno, e invece ormai sarai abbastanza grande e istruita per tornate a prenderti cura di me.
L’idea le piaceva: occuparsi della casa del padre, sedere a capotavola quando avevano ospiti a cena, andare a cavallo, chiacchierare con lui e leggere i suoi libri. Era quello che piú desiderava, e se per ottenerlo era necessario andare «laggiú», in Inghilterra, allora era pronta a partire. La prospettiva di vivere con altre bambine non la attirava particolarmente, ma si sarebbe consolata leggendo molto. Aveva una vera passione per i libri e spesso passava il tempo a inventare storie fantastiche; a volte le raccontava anche al padre, che era sempre contento di ascoltarle.
– Be’, papà , – disse piano, – se siamo arrivati, penso che bisognerà rassegnarsi.
Il capitano rise a quelle parole cosà sagge e la baciò. A dire il vero, lui stesso non si era ancora rassegnato alla separazione, ma sapeva di non doverlo dare a vedere. Era un grande conforto avere accanto la sua piccola, originale Sara, e di certo si sarebbe sentito solo non trovando piú quella cara figuretta vestita di bianco ad aspettarlo sulla soglia del bungalow. La strinse ancor piú forte fra le braccia, mentre la carrozza entrava nella grande e squallida piazza dove sorgeva l’edificio cui erano diretti.
Era una vasta casa di mattoni, tetra come tutte quelle che la circondavano, ma si distingueva dalle altre per una targa di ottone lucido con sopra scritto a grandi lettere:
MISS MINCHIN
Collegio esclusivo per signorine
– Eccoci arrivati, – disse il capitano Crewe, sforzandosi di assumere un tono allegro, poi aiutò la figlia a scendere e suonò il campanello.
In seguito, Sara pensò spesso che quell’edificio assomigliava molto a Miss Minchin. Era rispettabile e ammobiliato con cura, ma tutto quello che conteneva era brutto: perfino le poltrone sembravano imbottite di sassi, tanto erano scomode. Nell’atrio tutto era austero e lucidissimo; anche le gote rosse della faccia a luna piena della grande pendola in un angolo erano tirate a lustro. Furono introdotti in un salotto con il pavimento ricoperto da un grande tappeto a scacchi, massicce sedie squadrate e un freddo caminetto di marmo su cui posava un pesante orologio, pure di marmo.
Seduta su una di quelle rigide seggiole di mogano, Sara diede una rapida occhiata intorno a sé.
– Non mi piace, papà . Ma anche ai soldati credo che non piaccia combattere, nemmeno a quelli piú coraggiosi.
Il capitano rise di gusto a questa uscita; era giovane e allegro, e non si stancava mai di ascoltare le riflessioni della figlia.
– Oh, bimba mia, come farò quando non ci sarà nessuno a dirmi queste cose? Solo tu puoi essere cosà solenne.
– E perché le parole solenni ti fanno tanto ridere? – domandò Sara.
– Perché hai un modo molto divertente di dirle, – rispose lui, ridendo ancor di piú. Poi la prese fra le braccia e la baciò con impeto, smettendo di colpo di ridere e sentendosi salire le lacrime agli occhi.
In quel momento Miss Minchin fece il suo ingresso, e subito Sara pensò che era proprio come la casa in cui viveva: alta, cupa, rispettabile e brutta. Aveva occhi grandi, freddi e smorti, come quelli di un pesce, e un sorriso largo, gelido e inespressivo, che si ravvivò alquanto alla vista di Sara e del capitano Crewe. Aveva sentito dire grandi cose su quel giovane soldato, dalla donna che gli aveva raccomandato quella scuola per la figlia. In particolare, sapeva che era ricco e non avrebbe lesinato sulle spese per l’educazione della sua bambina.
– Capitano, per me sarà un onore occuparmi di una bimba cosà bella e promettente, – disse, prendendo una mano di Sara e accarezzandola. – Lady Meredith mi ha parlato della sua eccezionale intelligenza: una ragazzina cosà in gamba è un vero tesoro per un istituto come il mio.
Sara fissava in silenzio Miss Minchin e, come al solito, nella sua testa frullavano strani pensieri: «Non sono per niente bella. Isobel, la nipotina del colonnello Grange, lei sà che è bella, con quelle fossette sulle guance rosee e i lunghi capelli color dell’oro. Invece, i miei capelli sono corti e bruni e ho gli occhi verdi; per di piú, sono magra e non sono per niente aggraziata. Sono una delle bambine piú brutte che ci siano. Perciò, Miss Minchin comincia subito dicendo una bugia».
Sara sbagliava credendo di essere brutta; certo, non somigliava per niente a Isobel Grange, la bimba piú carina del reggimento, ma aveva un fascino particolare. Era snella e flessuosa, piuttosto alta per la sua età , e aveva un visino grazioso ed espressivo, incorniciato da folti capelli scuri che si arricciavano alle estremità . Gli occhi erano di un grigio tendente al verde, grandi e bellissimi, ombreggiati da lunghe ciglia scure, e se quel colore a lei non piaceva, molte altre persone non la pensavano cosÃ. Eppure, era assolutamente convinta di essere brutta, e rimase del tutto indifferente alle lusinghe di Miss Minchin.
«Se affermassi che lei è bella, – pensò, – mentirei, sapendo benissimo di mentire. Nel mio genere, io sono brutta quanto lei. Allora, perché ha detto cos�»
Trovò una risposta a questa domanda dopo avere conosciuto meglio Miss Minchin: scoprà infatti che ripeteva sempre le stesse cose a tutti i genitori che affidavano i figli al suo istituto.
Sara rimase accanto al padre, ascoltando la conversazione fra lui e Miss Minchin. Venne cosà a sapere che il capitano aveva scelto quella scuola perché lady Meredith aveva fatto educare là le sue due figlie, e lui stimava molto quella signora. Sara sarebbe stata un’«allieva interna» e avrebbe goduto di privilegi particolari rispetto alle sue compagne: una camera e un salottino tutti per sé, un pony, una carrozza e una domestica a sua completa disposizione, che avrebbe preso il posto della balia indiana.
– Per quanto riguarda la sua istruzione, non ho di che preoccuparmi, – disse il capitano Crewe con una risata, dando colpetti affettuosi sulla mano della figlia. – Credo anzi che il problema sarà impedirle di imparare troppe cose alla svelta; è sempre con il nasino fra i libri, Miss Minchin, e piú che leggerli, li divora come un lupetto affamato. Non fa che chiederne di nuovi, e vuole opere serie, da grandi, e non solo inglesi, ma anche francesi e tedesche. Volumi di storia, di poesia, biografie… di ogni genere. Cerchi di distoglierla dalla lettura, se esagera: la mandi a fare una passeggiata a cavallo o a comprarsi una bambola. Non gioca abbastanza con le bambole.
– Ma papà , – intervenne Sara, – se mi comprassi una bambola nuova ogni due giorni, alla fine ne avrei troppe e non saprei piú a quale volere bene. Una bambola dev’essere un’amica del cuore, ed Emily sarà la mia.
Il capitano e Miss Minchin si scambiarono un’occhiata.
– Chi è Emily? – domandò la direttrice.
– Rispondi, Sara, – disse il capitano.
– È una bambola che non ho ancora, – spiegò lei. – Me la regalerà mio padre, andremo a cercarla insieme. Si chiamerà Emily e mi farà compagnia quando lui sarà partito, cosà poi potrò parlare del papà con lei.
Il sorriso da pesce di Miss Minchin si fece piú ama...