Aleksandar Hemon
Blind Josef Pronek
& Dead Souls
Traduzione di Angela Tranfo
La sciarpa rossa.
Non appena fu sceso dall’aereo (mentre, stremato, uno steward sgualcito coi capelli bianchi gli augurava un radioso Auf Wiedersehen), Pronek si rese conto di aver dimenticato nella cappelliera la sciarpa rossa con la macchia di senape che si era fatto a Vienna, al caffè dell’aeroporto. Meditò di tornare indietro a prenderla, ma il pistone inesorabile degli altri pellegrini lo spinse in un tunnel sinuoso. Poi vide una fila di gabbiotti che facevano eco l’uno con l’altro. Dentro, funzionari in uniforme esaminavano i passaporti, mentre passeggeri di ogni genere attendevano rispettosi dietro una spessa linea gialla tracciata sul pavimento. Un uomo che aveva in mano un cartello con il nome di Pronek scritto sbagliato (Proniek), osservava la folla che serpeggiava tra i nastri neri, come cercando qualcuno cui assegnare quel nome. Pronek si avvicinò e disse: – Sono io. – Ah, davvero, – fece lui, – Benvenuto negli States.
– Grazie, – disse Pronek. – Grazie mille.
L’uomo lo guidò oltre le file di persone che, passaporto alla mano, spingevano con i piedi le borse tumescenti. – Noi non dobbiamo fare la coda, – disse, annuendo per qualche ragione verso Pronek, come per comunicargli un messaggio segreto. – Lei è nostro ospite.
– Grazie! – disse Pronek.
Lo accompagnò a un gabbiotto colmo fino in cima alla vetrata di un uomo gigantesco. Se qualcuno, pensò Pronek, all’improvviso avesse aperto la porta, la carne sarebbe scivolata fuori lentamente, come pastella morbida.
– Ciao Wyatt! – disse la guida di Pronek.
– Ciao Virgil! – disse l’uomo di pastella.
– È il nostro ospite! – disse Virgil.
– Come va, amico? – disse l’uomo di pastella. Aveva i baffi, e Pronek d’un tratto si rese conto che assomigliava al detective grasso con la cravatta allentata e la camicia aperta di un telefilm americano.
– Molto bene, signore, grazie mille, – disse Pronek.
– Che farai qui, amico?
– Ancora non lo so, signore. Viaggerò. Credo che abbiano dei programmi per me.
– Questo è sicuro, – disse lui, sfogliando il rosso passaporto iugoslavo di Pronek come se fosse un’appiccicosa rivista porno. Poi afferrò un timbro, lo stampò con vigore su una pagina del libretto e disse: – Vedrai che te la spassi, amico, te lo dico io.
– Certo, signore. Grazie mille.
Abbiamo appena visto Jozef Pronek fare ingresso negli Stati Uniti d’America. Era il 26 gennaio 1992. Una volta che si ritrovò su questa sponda dell’Atlantico, non si sentí per nulla diverso. Era perfettamente consapevole, però, di non poter tornare indietro a riprendersi la sciarpa rossa con la macchia gialla di senape.
Virgil cominciò a spiegargli come prendere l’aereo per Washington D.C., ma Pronek in realtà non ascoltava perché improvvisamente aveva messo a fuoco la spettacolare testa di Virgil. Una valle di calvizie si estendeva tra due zolle di capelli che scappavano via inorridite dalla fronte sporgente. E sulla pelle del viso era impresso un reticolo di vasi sanguigni, come un sistema fluviale su una cartina, con due delta rubizzi intorno alle narici. Alcuni peli gli spuntavano dal naso fremendo impercettibilmente, come se una coppia di millepiedi incastrata nelle narici tentasse invano di muovere le zampine. Pronek non sapeva cosa Virgil stesse dicendo però continuò a ripetere – Certo. Certo –. Poi Virgil gli strinse generosamente la mano e disse: – Siamo davvero felici che lei sia qui –. Pronek cosa poteva dire? disse: – Grazie mille.
Si fece cambiare i soldi da uno svogliato ragazzino foruncoloso dietro a una vetrata spessa e si sedette ubbidiente in un bar che lo invitava con una scritta neon: «Have a drink with us». Mentre era intento a leggere le scritte sulle banconote dei dollari («In God we trust») arrivò una cameriera e gli disse: – Sono verdi, eh? Che cosa ti porto, tesoro?
– Una birra, – disse Pronek.
– Che birra? Non siamo mica in Russia, tesoro, abbiamo birre di tutti i tipi. Abbiamo la Michelob, la Miller, la Miller Lite, la Miller alla spina, la Bud, la Bud Light, la Bud Ice. Tutto quello che vuoi.
Gli portò una Bud (Light) e gli chiese: – Per che squadra tifi al Superbowl?
– Non lo so.
– Io sono di Buffalo. E giuro che mi ammazzo se i Bills perdono di nuovo.
– Speriamo di no, – disse lui.
– Sarà meglio, – disse, – perché mi arrabbio davvero.
Al bar c’erano tutti i televisori accesi ma le immagini erano distorte. Le teste squadrate di due uomini col parrucchino che parlavano, si arricciolavano verso l’alto come sbuffi di fumo, poi si distendevano. Pronek li vedeva sorridere davanti ai microfoni, quasi fossero squisiti leccalecca, e tornare ad avvitarsi. Per un momento pensò che i suoi occhi non fossero compatibili con il sistema in cui venivano trasmesse le immagini in questo paese. Si ricordò che i cani vedono in modo completamente diverso dagli umani e che per loro tutto è molto piú scuro. Per non parlare dei pipistrelli che non vedono niente di niente e svolazzano sbattendo contro i pali del telefono, con in testa una specie di sonar, che vuol dire che percepiscono solo gli echi.
Questo era il genere di pensieri oziosi nei quali Pronek spesso si perdeva.
Vide una coppia di anziani seduti sotto uno dei televisori. Lui aveva rughe che gli spuntavano, come raggi, agli angoli degli occhi, e un cappellino dei Redskins. Lei, i capelli cotonati ed era identica allo Washington sulle banconote da un dollaro. Un cartello alle loro spalle diceva «Zona fumatori». Restarono seduti in silenzio; i loro sguardi perpendicolari convergevano su un portacenere di alluminio al centro del tavolo. La cameriera (– Mi chiamo Grace, – disse. – Tutto bene? –) portò loro due Miller Lite, ma non le toccarono. L’uomo estrasse dalla borsa di tela logora un libro nero e lo aprí tra le due bottiglie sudate. Poi si misero a leggere insieme, con le teste che quasi si toccavano, la mano sinistra dell’uomo sulla destra della donna, come rana su rana quando fanno l’amore. Cominciarono a piangere, strizzandosi la mano cosí forte che Pronek vide le dita della donna diventare rosse e le unghie rosa tendersi all’infuori.
Questo fu, per Pronek, il primo di quelli che in genere definiamo shock culturali.
Girovagò per tutto l’aeroporto immaginando che avesse la forma del corpo supino di John Kennedy, le gambe e le braccia divaricate, e gli aeroplani che come sanguisughe gli succhiavano le dita dei piedi e delle mani. Immaginò di viaggiare nel suo apparato digestivo, di navigare, come un batterio, in un fiume che ribolliva di acidi, e di approdare nel bagno gorgogliante dei suoi reni. Uscí dall’aeroporto attraverso una narice di JFK, davanti alla quale c’era un baffo sottile di taxi in fila.
Infine si uní alla coda di persone che sgocciolava nel tunnel verso l’aereo per Washington D. C. – Tutto bene? – chiese uno steward senza preoccuparsi di stare a sentire la risposta. Pronek era seduto vicino al finestrino e al suo fianco c’era un uomo, una specie di pallone, che sembrava essersi appena staccato da un compressore; era cosí grasso che occupava due sedili e doveva allacciare la cintura di sicurezza alla coscia sinistra.
– Non posso crederci, mi perdo il Superbowl, – disse l’uomo esalando un sospiro. – Quest’anno sono andato a ogni maledetta partita dei Redskins e adesso mi tocca perdere la finale. Cazzo, la finale. Lei è dei Redskins?
– Temo di non sapere neanche le regole del football.
– Ah, è straniero! – esclamò trionfante e sospirò di nuovo. – Che ne pensa dell’America? Non è il miglior paese al mondo?
– Temo di non saperlo ancora. Sono appena arrivato.
– È fantastica. La gente è fantastica. La libertà, piú tutto il resto. È il miglior paese sulla faccia della terra –. L’uomo concluse la conversazione d’autorità girandosi di scatto dall’altra parte, poi aprí un libro intitolato Le sette leggi spirituali della crescita. Pronek si mise a osservare la metallica rigidità dell’ala, con il corpo girato e la guancia contro il tessuto del sedile, la cui imbottitura gli ricordò la sciarpa rossa. Poi si addormentò fino a quando, durante il decollo, le budella non gli salirono in gola.
Biglie.
Pronek odiava il suo collo perché si irrigidiva sempre e diventava un groviglio di tendini spessi. Lui li schiacciava, cosa che gli faceva sentire ancora piú male, e i tendini si muovevano sotto le sue dita, duri come cavi d’acciaio. Se mai avessero dovuto decapitarlo, pensava, bisognava che il boia facesse attenzione, perché l’ascia probabilmente sarebbe rimbalzata indietro e avrebbe aperto la testa del poveretto in due, come un’anguria. Avrebbero dovuto immergergli il collo nell’acido per almeno una settimana, se volevano ammorbidire l’acciaio dei tendini e tagliargli la testa.
Pronek scese su Washington con i suoi umbratili compagni di viaggio, e dovette ruotare tutto il corpo verso l’oblò per vedere le fioche luci della capitale «come tizzoni morenti sotto le ceneri di una notte nuvolosa» (questo fu il pensiero di Pronek in quel momento, e dobbiamo concedergli che è piuttosto bello). L’assistente di volo comparve improvvisamente alle sue spalle facendolo trasalire e, dopo aver infilato il viso nel crepaccio tra il petto del grassone e il sedile davanti, gli chiese: «Posso portarle un’altra birra, signore?» Pronek, come una marionetta, ruotò tutto il corpo verso l’assistente di volo – con i tendini che si opponevano dolorosamente – e accettò ancora qualcosa. Pareva che lo steward fosse pagato un tanto a sorriso ed era abbronzato come un pollo arrostito a puntino.
Anche questa volta, Pronek fu sospinto nell’edificio dell’aeroporto dal pistone degli altri pellegrini.
Non appena un capezzolo gigante in cima a un’asta cominciò a lampeggiare e suonare, il nastro girevole ancora vuoto si mise in moto. Da dietro a una tenda nera cominciarono a cadere borsoni e valigie squadrate, per poi – oplà! – scivolare sul nastro che girava immutabilmente. I compagni senza volto di Pronek accorsero quasi fossero batteri in fondo a uno stomaco e la zona della bocca avesse appena mandato giú del cibo da digerire. Il bagaglio di Pronek era stato smarrito. Lui restò a guardare il nastro vuoto che continuava a girare inutilmente finché non si bloccò e rimase lí lustro in lampante silenzio. A Pronek era rimasta soltanto una borsa piena di libri e dépliant dei duty-free, piú un pezzo di burek vecchio di tre giorni, che secondo sua madre avrebbe dovuto nutrirlo durante il viaggio, e sul quale adesso – ne siamo certi – proliferava ogni sorta di agguerrito microrganismo balcanico.
Dietro un lungo e fragile nastro nero, un tale mostrava un cartello con il nome di Pronek (scritto sbagliato «Pronak»), seguito da un punto interrogativo. L’uomo lo reggeva appena sopra l’inguine, con il bordo inferiore che delicatamente gli tagliava il palmo delle mani, e Pronek pensò che gli avessero sottratto il nome per darlo a quello lí, che ovviamente era un individuo onesto, rispettoso e instancabile. L’uomo strinse la mano flaccida di Pronek esitando un po’, forse temendo che gli si volesse portare via il cartello.
Gli diede il benvenuto e con interesse finto – ma sicuramente cortese – gli chiese come era andato il viaggio. – Come quello di Marlow per incontrare Kurtz, – disse Pronek. – Uau! – disse l’uomo, sicuramente senza avere idea di cosa Pronek stesse dicendo, e certo non lo si poteva biasimare. L’uomo aveva i capelli neri tagliati corti che si ritraevano arruffatamente dalla fronte, con chiazze color cenere dietro le orecchie. Gentilmente aiutò Pronek a chiedere notizie del suo bagaglio, ma senza esito.
Fuori nevicava implacabilmente, quasi che un Dio irato, facesse a pezzi tutti i cuscini del paradiso. L’uomo guidò nel dedalo bianco abbagliante della tormenta. Indicò le cose e gli edifici che saltavano fuori dal turbine di neve, tipo pupazzi a molla dalle scatole: uno stuzzicadenti gigantesco, illuminato dal basso, come se fedeli inginocchiati puntassero le torce contro il pinnacolo; una serie di edifici che Pronek pensò di descrivere nelle future conversazioni, a chiunque interessassero le sue impressioni sugli Stati Uniti, come costruiti in stile neo-nazista, neo-classico, neo-soffice (cosa, riteniamo, non del tutto giustificata).
– E questa è la Casa Bianca, – disse l’uomo pieno d’entusiasmo.
– Me lo sono sempre chiesto, – disse Pronek, – perché si chiama Casa Bianca? Bisogna essere bianchi per viverci?
L’uomo non trovò la cosa affatto divertente e disse: – No, è che è fatta di marmo bianco.
Pronek aveva il collo piú rigido del solito, a questo punto praticamente pietrificato, cosí girò tutto il corpo verso l’uomo e mise la mano sul poggiatesta dietro la sua nuca, sulla quale impudicamente spuntavano ciuffetti di peli ribelli. Lui osservò la mano di Pronek, quasi temendo che lo volesse strangolare.
– Hanno usato degli schiavi per costruirla?
– Non so, ma non credo.
L’uomo si chiamava Simon.
Proseguirono in silenzio mentre la tormenta si placava. Quando arrivarono all’albergo, fiocchi di neve grandi come foglie svolazzavano calmi prendendosi una pausa dopo la dura giornata di lavoro. Simon fece i complimenti a Pronek per il suo inglese e – avendo presumibilmente stabilito un legame con lui – lo informò che i Redskins avevano vinto. – A mala pena conosco le regole, – replicò Pronek. – È uno sport fantastico, – disse Simon, poi lo invitò a Falls Orchard, in Virginia, a conoscere sua moglie Gretchen e le loro quattro figlie. Pronek accettò subito pur sapendo perfettamente che non avrebbe rivisto Simon mai piú.
L’albergo era della catena Quality Inn.
Pronek ricordava – e ricorda ancor ogg...