Tutti i racconti
  1. 480 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Informazioni su questo libro

Il libro raccoglie tutti i racconti scritti da Yehoshua: dodici storie pervase da atmosfere surreali, nelle quali i personaggi si muovono in bilico tra sogno e realtà, preda di un disagio che si trasforma in stanchezza, in un bisogno incontrollato di dormire. Sono dei perdenti, gli «eroi» di Yehoshua; uomini stanchi, incapaci di raggiungere i propri scopi, privi di certezze, e quando le certezze sembrano esistere sono destinate a soccombere. Nemmeno i sentimenti sono un'ancora di salvezza, gli equilibri familiari sono fragili, gli amori disillusi. Eppure, il tormento e la disperazione appaiono lontani: ironia e divertimento sono la cifra di una prosa intensa, coinvolgente e tuttavia leggera. Una prosa che, ancora una volta, dimostra il talento narrativo che ha fatto di Yehoshua uno dei maggiori esponenti della letteratura israeliana.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2013
Print ISBN
9788806181857
eBook ISBN
9788858409183

Tre giorni e un bambino

Risveglio.
Pensavo che avrei dovuto scusarmi. Ma le cose sono andate ben diversamente.
Il figlio di tre anni della donna amata mi è stato affidato negli ultimi giorni delle vacanze, i primi giorni d’autunno a Gerusalemme.
All’inizio avevo certe idee sul bambino, alla fine avrei voluto ammazzarlo. Devo ancora esaminare i motivi che me lo hanno impedito. Il tempo e il luogo, comunque, si sarebbero prestati.
Il tempo: una fine d’estate, venti caldi e pesanti soffiano sulla terra, un miscuglio di nuvole e azzurro, un’illusoria attesa di pioggia. Struggimenti e tristezza di un nuovo anno.
L’inizio delle vacanze era stato diverso. Voglio dire, si erano risvegliati dei desideri. Pensavo addirittura che durante queste vacanze mi sarei sposato. Era stata Yael, la mia compagna, ad accennare qualcosa in proposito. Poi ce n’eravamo dimenticati tutti e due, sommersi dalla stanchezza. La terra si era coperta di rovi, e Yael aveva cominciato a sparire in luoghi diversi: svelleva rizomi, metteva steli a seccare, pestava calici, analizzava suoli. Gli ultimi capitoli della sua tesi in botanica, il cui soggetto è: «I rovi della nostra terra».
Invece la mia tesi di matematica è lontana dalla fine perché la scrivo da solo, senza terra, né cielo. Sono inchiodato dalla primavera in un groviglio che mi sono creato da solo, alla mercé di una contraddizione logica che si è rivelata all’improvviso. Ho bisogno di un’ispirazione, di un tipo particolare di luce. Ho scritto una specie di romanzo. Ogni sviluppo dell’equazione è fonte di sofferenza.
E il caldo torrido comincia ad avvolgere Gerusalemme, senza requie. I fiori che Yael ha piantato davanti a casa mia sono ormai paglia spezzata.
E all’improvviso, lei: lei e suo marito. Quando le vacanze erano al culmine ho ricevuto una loro lettera, poi una seconda. Mi chiedevano consiglio, che li aiutassi se era possibile. Perché a Gerusalemme non avevano altri conoscenti. Avevano deciso di lasciare tutti e due il kibbutz in Galilea (non si preoccupavano di specificarne i motivi), volevano studiare all’università, insieme. Potevo essere cosí gentile da… potevo trovare i moduli... ottenere informazioni... riempire questionari... Le lettere erano scritte con stile contorto dal marito, come se fossi suo amico, come se gli dovessi qualcosa.
Mi sono detto: ma cosa c’entro io con loro? Però qualsiasi cosa legata al suo nome mi mette in subbuglio. Sono ormai cinque anni che ho lasciato il kibbutz, lei non la vedo da tre, e penso di esserne ancora innamorato.
Ho fatto tutto quello che mi richiedevano. Rapidamente, in modo chiaro ed efficiente. Ogni tanto sono capace di rendermi utile in modo straordinario.
Sono andato alla facoltà di Lettere e Filosofia, e anche se non ne conosco bene il funzionamento ho ottenuto i chiarimenti di cui avevo bisogno. Mi è stato detto che dovevano passare gli esami preliminari, mi hanno persino lasciato i programmi d’esame. Ho messo in una busta i questionari e i programmi, aggiungendovi qualche parola di spiegazione scritta con tono obiettivo, perché sapessero che potevano fidarsi di me.
Ho spedito il tutto a loro due insieme, come se fossero stati un’unica persona.
Gliel’ho spedito per espresso.
Non mi hanno scritto nemmeno una frase di ringraziamento.
La sua cortesia dubbia e la sua trascuratezza mi erano ben noti. Ma il marito, che non è giovane, avrebbe potuto mostrarsi piú generoso.
Yael è tornata dalla Galilea abbronzata, coperta di polvere e graffi. Ha svuotato nella mia cucina uno zaino pieno di rovi e all’alba è ripartita per un’altra regione, alla ricerca di altri rovi.
Il nostro giacere insieme al pomeriggio, tutti sudati.
Non le ho detto nulla degli arrivi previsti. Non la riguarda. E poi non siamo mica sposati.
Iniziò l’agonia delle vacanze. Gli abitanti di Gerusalemme, arrossati e impregnati di sale, cominciarono a fare ritorno in città. D’un tratto un cielo nuvoloso, quasi pioggia. La gente si scuote e va a comprare come per abitudine quaderni nuovi, calendari, matite. Quanto a me, avevo quasi dimenticato il loro arrivo imminente. Ma, all’improvviso, una lettera concitata.
La facoltà aveva comunicato loro direttamente che quest’anno gli esami erano anticipati. Perciò venivano rapidamente a Gerusalemme. Dovevano rinchiudersi nelle biblioteche due o tre giorni prima degli esami per prepararsi, per farsi un’idea del contenuto della prova. Ma il bambino... Dove potevano lasciare il loro figlio piccolo? (Per qualche motivo non lo volevano lasciare al kibbutz)... Avrei accettato di tenerlo quei giorni? Semplicemente perché a Gerusalemme non conoscevano nessun altro...
Erano disposti a sostenere tutte le spese. E mi sarebbero stati molto riconoscenti.
Non ero forse ancora in vacanza?
Si scusavano tanto per il disturbo, ma non conoscevano nessun altro a Gerusalemme.
Ho risposto di sí.
Non posso dire che in me si fossero ridestate nuove speranze. Non sono cosí ingenuo. Mi ero innamorato di lei cinque anni prima in un modo duro, sofferto, perdente fin dall’inizio. Avevo rinunciato a lei da tempo. Ogni tanto mi sembra di aver rinunciato da subito.
Non sono una persona ostinata, non sono un violento. Non si può sempre stare a pensare a un unico amore. E scappai dal kibbutz, mi iscrissi all’università e ho studiato per cinque anni superando anche i difficili esami finali. È stato solo un caso che sia ancora bloccato alla tesi.
Quello che ho ottenuto fino a ora, non me lo può togliere nessuno.
È sicuramente per pigrizia che continuo a esserne innamorato. Non mi ricordo nemmeno piú del suo viso. Capita che debba intavolare una lunga discussione interiore per ricordarmi il colore dei suoi occhi, l’altezza, il modo di parlare.
È sicuramente per pigrizia che continuo a esserne innamorato.
Prima chiamata.
Tre giorni dopo, di pomeriggio, i vicini del piano di sotto mi chiamano perché c’è una telefonata per me.
La voce dura e sgraziata del marito.
– Buongiorno. Siamo arrivati a Gerusalemme.
– Bene. Benissimo. Avete portato il bambino?
– Sí... – una lieve esitazione. – Abbiamo contato sulla tua promessa e lo abbiamo portato.
– E allora lo prendo, come promesso. Spero che non sia un gran furfante...
Silenzio all’altra estremità del filo. Desiderio evidente e non dissimulato di pesare le parole. Alla fine la risposta: – No, non è un furfante. È un bambino sveglio, non un monello. Lo potrai controllare facilmente.
Rimango in silenzio, triste, spossato. Ma cosa ho a che fare in fondo con loro?
Sento dall’altra parte del filo la preoccupazione per il mio silenzio. La voce del marito esita.
– Volevamo soltanto sapere... quando te lo possiamo portare?
– Oh, quando volete.
– Domani? Domani mattina?
– Va bene.
– Al mattino presto?
– Come volete... – Sono già stufo di questa faccenda.
– Grazie, te ne siamo veramente grati. Non abbiamo parole...
– Sciocchezze.
– Allora arrivederci. A... domani...
– Arrivederci... – e stavolta è la mia voce che esita. – Saluta Haya...
– È qui accanto a me. Ricambia il saluto.
Il bambino.
Pensavo che intendessero alle otto del mattino. Ma loro avevano in mente l’aurora, la prima rugiada, i piú lievi cenni di chiarore. Naturalmente mi hanno svegliato. Il marito, con il bambino. Ha suonato in modo insistente e con forza, e siccome tardavo ad aprire si è messo ad agitare la maniglia. Ha quasi fatto irruzione in casa mia. Il passaggio dal kibbutz alla città lo aveva completamente frastornato. Voleva buttarsi negli studi come se gli avessero chiesto di sarchiare un campo di rovi. Non avevo ripreso ancora completamente coscienza che una valigia era già stata deposta in camera mia, su di essa sedeva un bambino che poteva avere tre anni. Un cucciolo pallido, vestito di azzurro. E io, accigliato, peloso, pesante, con gli occhi semichiusi, mi sono piegato senza forze sul bambino per guardarlo in faccia.
Era immerso in un fascio di luce che veniva da oriente.
La somiglianza con la madre era sorprendente, inquietante, riempiva di felicità. Lo stesso taglio del viso, la stessa bocca screpolata, sempre assetata. E gli occhi, quegli occhi infossati nelle orbite. Mi aggiro insonnolito ma già emozionato, è tutto il mio amore che irrompe. Mi informo sulle cose fondamentali.
Cosa mangia? Cosa beve? Come lo devo lavare? Quando dorme? Che cosa devo farne?
Ricevo risposte semplici.
Mangia di tutto e beve di tutto, ma non bisogna obbligarlo. Posso portarmelo dietro ovunque, e se dice che gli fanno male le gambe non bisogna credergli. Gli piace stare a cavalcioni sulle spalle. Durante il giorno è meglio che non dorma, per evitare problemi di notte. E qui il padre si china, sposta il bimbo dalla valigia, la rovescia, ci fruga dentro fino a estrarne un telo di plastica. Con un sorriso imbarazzato il padre spiega che va messo sotto il lenzuolo, perché il bimbo, in confidenza, fa ancora la pipí a letto...
Me la rido sull’educazione comunitaria, ma accetto le istruzioni con entusiasmo, sento accendersi in me una scintilla di piacere. Sono già impaziente di rimanere da solo con il bambino.
Ma dallo sguardo del padre trapela la sfiducia. E a quest’ora del mattino non sono proprio degno di fiducia.
Uno scapolo massiccio, accaldato, che gira discinto in pigiama in una camera in disordine.
Perciò mi affretto a congedare il padre. E il bimbo ci segue come un cagnolino. Il padre si ferma, si china sul figlio, lo bacia con forza, lo accarezza, si sfila un pettine dalla tasca e lo passa tra i riccioli del piccolo. Gli dà una quantità di istruzioni:
Che si comporti come si deve.
Che non disturbi.
Che non chieda troppe cose.
Perché deve sapere che nessuno lo vuole abbandonare. Ma se non farà il bravo, chi verrà a riprenderlo?
Avanziamo verso la porta ma il bambino, serio e ostinato, non molla suo padre. Il quale non può far altro che tornare indietro, rovesciare di nuovo la valigia e spargere sul pavimento dei giocattoli da kibbutz: rozzi trattori di legno, aratri, falciatrici, figurine di agricoltori bloccati in pose assurde.
Mentre il bambino si getta sulla preda noi sgusciamo verso l’ingresso, stabiliamo il modo in cui ci terremo in contatto (telefonate, e nient’altro). Tutt’a un tratto mi è chiaro – con sgomento – che hanno proprio l’intenzione di lasciarmi il bimbo per tre giorni filati. Posso soltanto augurare loro buona fortuna per gli esami. Do qualche consiglio in base alla mia preziosa esperienza, e saluto. Ma il padre esita all’improvviso, sembra ripensarci, come se si rifiutasse di lasciare suo figlio nelle mie mani. Mi sussurra che ieri, quando sono arrivati a Gerusalemme, hanno avuto l’impressione che il bambino covasse una malattia. Haya aveva anche proposto di lasciarlo in albergo, di provare a studiare anche se lui rimaneva lí. Ma lui si era impuntato. Malattia? Macché! Il bimbo è solo stordito per il viaggio.
Osservo la sua faccia ossuta, la pelle scura appesantita da un volto mal rasato. Tra i suoi denti robusti scintillano e si disintegrano faville di sole. Le finestre di casa brillano di una luce violenta. Dobbiamo aspettarci una giornata di scirocco, non c’è dubbio.
Riaccosto delicatamente la porta dietro al padre, lo mando dritto verso le montagne che si innalzano al di sopra del nostro quartiere.
Quando rientro in camera mi getto a corpo morto sul letto, che è ancora caldo. La debolezza per l’alzataccia. Osservo il bimbo con attenzione: ha già attaccato l’aratro a un trattore e si appresta ad arare in silenzio le mie povere piastrelle. Non potevo immaginarmi una tale rassomiglianza. Ho l’impressione che la natura stessa si stia prendendo gioco di me. Come ha fatto a stampare sul figlio le fattezze di lei?
Il piccolo continua ad arare, e mi lancia sguardi furtivi.
Lo chiamo, gli dico di avvicinarsi al letto. E lui lasci...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Tutti i racconti
  3. La morte del vecchio
  4. Sonno diurno
  5. Il rapido serale di Yatir
  6. Le nozze di Galia
  7. L’ultimo comandante
  8. Alta marea
  9. Di fronte ai boschi
  10. Tre giorni e un bambino
  11. Il poeta continua a tacere
  12. Un giorno lungo e afoso, la sua disperazione, sua moglie e sua figlia
  13. All’inizio dell’estate del 1970
  14. Base missilistica 612
  15. Nota dell’autore
  16. Il libro
  17. L’autore
  18. Dello stesso autore
  19. Copyright