dal treno, 17 aprile, ore 15
Il treno è foderato internamente di cuoio scuro, impresso a disegni floreali.
– È di prima dell’altra guerra, – dice Stefano.
Prima dell’altra guerra! quando c’era quell’eleganza ambigua (ma forse ogni eleganza lo è) che ha intravveduto nella nebbia dell’infanzia chi è nato prima del ’14.
Il nostro scompartimento è angusto, ammobiliato, vestito; tempestato di borchie, ganci, rampini lucidi di ottone. Anche la scaletta mobile, ridicolmente piccola, è interamente rivestita di panno blu a disegni.
Mi faccio spiegare da Stefano – come ogni volta – come si fa a ribaltare il piano della toeletta infissa d’angolo. Accanto al lavabo c’è una saponetta verde piccolissima.
Continuo la perlustrazione. Apro lo sportellino in basso, e ne estraggo la coppa di maiolica. Ha un lunghissimo labbro, un lunghissimo manico: sembra uno strano animale o fiore esotico.
La rinfilo, e sale dal basso il vento e il rombo delle rotaie. La custodia in cui la coppa si incastra ha la sua forma precisa ed è rivestita di panno come gli astucci dei gioielli.
Stefano fa buio nel vagone, si accontenta di uno spiraglio; legge i giornali, seduto davanti a me. Io distendo una sciarpa di seta sul traversino cilindrico, durissimo, e mi ci appoggio.
A Parma Stefano si alza, intravede dallo spiraglio il suo Duomo, il suo Battistero. (Là, io lo so, l’anima di lui abita sovente: dove il re Davide suona la cetra, Giuseppe guida la piccola famiglia, e la Primavera di pietra, pudica e un po’ sgomenta, guarda esitante).
Un uomo in divisa, grosso, misterioso (il controllore?) ci informa come se ci ammonisse, che non vi è servizio di ristorante sul treno, ma ci si può prenotare – viene concesso – per l’acquisto di un panino che fanno a Cesena.
Quando annunzia che fra poco preparerà i letti, assume un’aria insolentemente protettiva: tra d’infermiere e di secondino.
dal treno, 18 aprile, ore 6
Ogni campagna intravveduta all’alba dal buio e dal chiuso di un treno è un’apparizione di purezza: esangue, fredda. Ma l’alba nel Sud è calda, piú che non sia nei nostri paesi l’aurora. Una dolcezza d’Oriente è in quell’aria, d’oro verde sono le foglie nuove della vite e del fico.
È la Puglia. Il monte Gargano già si allontana, di un azzurro poco piú intenso del cielo. Si distingue ancora il profilo da cittadella crociata di Monte Sant’Angelo e la falcatura luminosa, celeste, del golfo di Manfredonia.
Trani. Cerco con gli occhi, riesco a vedere – alta, bianca – una fronte del Duomo, volta a guardare lontano sul mare.
Il treno si è fermato. La nettezza marina è nell’aria tra le case bianche. Qualcosa silenziosamente sfreccia, sul terrapieno lungo la ferrovia: un enorme topo grigio.
L’apparizione notturna, sordida e pure in qualche modo domestica, rende patetica quasi fosse minacciata di morte la città che appariva pura, virginea (come il verme nascosto nel cuore di una rosa); anzi, la fa sembrare morta da tempo, vuota: un rudere, asilo di topi.
In Puglia vedo i primi papaveri. Radi frammezzo ad altri fiori selvatici, di un rosso piú intenso dei nostri; non solo di quelli chiari di montagna, anche di quelli emiliani, accesi, che ho visto infuocare intere distese di campi. Questi hanno un colore prezioso: non sensuale, mistico.
Le strade tra i campi, profilate dai muretti a secco di pietre tonde, bianche, sono polverose: strade buone a percorrersi a piedi scalzi o a dorso di mulo, al massimo in biroccio.
Nel mezzo di un campo, ogni tanto, una costruzione conica di pietra, un rozzo trullo non imbiancato: embrionale cupola, affine alle antiche tombe o tesori.
Bari, ore 7
Bari. Il treno ci doveva deporre alle cinque, e sono le sette. Caso fortunato di ritardo che mette rimedio alla durezza dell’orario.
Stefano si trattiene a lungo al deposito sebbene sia il solo viaggiatore. Dietro il banco armeggiano in tre a servirlo. Vogliono mettere i sigilli alle valigie, insistono; poi vogliono che metta la sua firma. Lui dice: – Io mi fido –. Stupiscono, si illuminano; tuttavia insistono, ora per gratitudine: – Avvocato, dovete firmare –. (Si capisce che qui avvocato vuol dire signore).
Attraversiamo di buon passo tutta la città moderna: troppo occidentale, «milanese», per la nostra ansia di Oriente.
Sbocchiamo alla fine in una piazza lunga, ampia, calma. Mi riesce familiare – a me provinciale – quasi l’avessi davvero attraversata, tanti anni fa, un giorno di passeggiata scolastica, «in fila».
Penetriamo, per vicoli, nella città vecchia; viva e insieme remota, piena di infanzia.
Una piazzetta irregolare, strana, meravigliosa. Da un lato casucce in vario movimento e colori, un po’ come una scena (in terra sono sparsi resti di ortaggi, dopo il mercato); e di fronte la mole austera, semplice, chiara, di un castello di pietra. Castello svevo (o normanno: nomi che fanno sognare). Sulla prima rampa corrono giocando, gridando, bambini.
Il Duomo incombe con la sua maestà su un’altra piazzetta paesana, piccola, allegra. È in atto un trasloco di poveri. I mobili miseri vengono calati dal balcone.
Dentro la chiesa trafficano bambine, reggono con le mani qualcosa, hanno nei capelli nastri puliti: lavati o nuovi. Si capisce che si prepara una festa per loro, anzi, che la preparano loro stesse. Accorrono tutte intorno a un prete, hanno un’aria felice d’importanza.
Le strade sono cosí piccole che noi abbiamo l’impressione di essere giganti; tanto piú che esse sono formicolanti di bambini piccoli, i quali ne portano in collo altri piccolissimi.
Qualcuno è incantato davanti a una vetrina; vetrina di panettiere, che espone ovetti per l’imminente Pasqua. Uova col guscio fissate a un disco di pasta che le attraversa. Non sono per me allettanti; scelgo una cialda di forma irregolare, rivestita di un velo opaco di zucchero. Me la figuravo dolce, invece ha un sapore asciutto di pane azzimo. Vergognandomi un poco, metto la cialda nella mano del bimbo piú vicino. Dal modo come la afferra e da come la mangia si vede che lui non è deluso.
Vi è povertà in queste strade, anzi, miseria; ma è miseria bianca, non nera. Le case sono tutte intonacate di fresco, candide.
Ai crocicchi, tavolinetti espongono mercanzia minuscola, quasi inesistente, uguale a quella con cui si giocava da bambine «a vendere»: boccette, polverine, qualche pizzico di semi.
San Nicola, circondato di spazio, è immenso. Fa pensare a un Medioevo luminoso.
Dentro, monaci fraseggiano dal coro. Sopraggiungono anche qui bambini, entrano coi fratellini incollo, li fanno sedere, additano loro i monaci: li portano in chiesa per tenerli buoni.
Fuori, altri bambini corrono, si radunano cheti, ripartono chiassosi. Su un parapetto uno piccolo, di un anno al massimo, già sicuro corre sui piedini nudi e ogni tanto, invece di cadere, fa un piegamento e poggia le palme davanti ai piedi, il culino in aria, nudo.
Andiamo a guardare il mare. È celeste e luccica, presagio di favolosi viaggi.
Rientriamo nelle straducce: per desiderio di ritrovare quella vita che vi abbiamo incontrato.
Esce correndo da un uscio una bambina. Leva alte le mani, stringe in ognuna un pugno di quei fili di velina bianca lucida con cui si usa imbottire le cassette di frutta. È al colmo della gioia e della meraviglia; grida: – La neva! la neva! – Mostra anche a noi, ridendo, la «neva». Scompare correndo, riappare piú in là di sotto un archivolto, sempre impugnando la sua neve. Ci riconosce, ride verso di noi, grida ancora: – La neva! la neva! – e corre via.
Riattraversiamo la città nuova, cosí milanese che c’è perfino «il Motta».
Lungo la via centrale Stefano mi mostra a dito l’insegna di un negozio. Leggo: G. Laterza e Figli. Dio mio! Come ho potuto scordarmene? Le edizioni Laterza sono state il latte, per noi. Vagheggiate, centellinate nelle biblioteche al tempo dell’adolescenza squattrinata, poi i primi gelosi acquisti: l’Estetica di Croce, la Nascita della tragedia.
Attraversiamo la strada, con la reverenza e la curiosità del caso. La vetrina è piena di Santi, di statuine della Madonna e del Sacro Cuore. Dunque tradimento è l’anima del commercio! Ecco una buona signora col suo ragazzetto, vanno ad acquistare da Laterza un catechismo o una Piccola Filotea.
Giriamo l’angolo, e nelle vetrine di là i veri Laterza stanno allineati, distanziati signorilmente, nel sottile rarefatto silenzio del pensiero laico.
Brindisi, ore 14
Al luogo di ritrovo, i capi della crociera si alzano dalla tavola per salutarci premurosi. Hanno l’aria giuliva e un po’ goffa dei cattolici dei miei paesi.
Sediamo a un tavolino. La trattoria è povera, sudicia, affollatissima. Nessuno si cura di noi.
Affamati, interpelliamo l’oste. Apatico, fosco, non risponde, finge di non capire. È già greco, vale a dire forse, turco.
Di un avventore solo, cupo, vestito di nero, a un tavolino in disparte, si sente dire: è un greco.
Ci sono scritte in greco alle pareti, su cartelli, e l’alfabeto è quello da noi appreso al ginnasio.
Andiamo a vedere Brindisi. Quasi non ho guardato il mare. La bellezza – l’attesa di essa – mi fa soffrire. Per difendermi mi faccio inerte, mi affido.
A Brindisi tutto è molto complicato, difficile da trovare tra viuzze, cortili. Bambini interrompono i loro giochi per attorniarci. Chiedono, in inglese. Poi corrono via, come se facesse parte del gioco.
Stefano mi indica un cartello SI AFFITTANO LETTI. Mi faccio spiegare cosa vuol dire. (Del resto se ne vedono anche a Milano; ne ho visto uno una volta nella piazzetta del Carmine).
Vita minuta, paesana. Macerie di guerra che sembrano crolli avvenuti per decrepitezza.
Visitiamo una cripta. Una testa di profeta, frammento di un affresco bizantino, affiora nel buio: a forti linee, dagli occhi terribili.
La chiesa di sopra è piccola come una stanza, vuota. Sopra l’altare una Madonna con la corona in testa, racchiusa in un manto di raso celeste rigido, a forma di cono. Non è leziosa, è – ingenuamente – mistica. Oggi i devoti amano solo gentili madonne e i profeti sono considerati eretici. Tuttavia qui sono due punte, due estremi di purezza religiosa.
dall’Angelika, ore 18
Al momento dell’imbarco non si trovano le nostre valigie. Allarme, ricerche, trambusto. La cosa non si spiega. Alla fine le valigie compaiono, alte sulle nostre teste, recate in una carriola da un inserviente, sulla cima dell’enorme ufficio portuario, tutto ponti scale terrazze, davanti al quale è attraccata la nave.
Dal ponte, mentre aspettiamo guardo il profilo di un molo. La luce si va smorzando. Due persone, due ragazze, camminano discorrendo, confidandosi cose per loro gravi, sentimentali. Ricorderanno nel tempo quella passeggiata di sera, quelle confidenze che la vita avrà reso innocue.
Vi è laggiú un senso di pace e di silenzio. Il mare, calmo, è esso stesso un elemento del silenzio, è uno spazio incorporeo, una eterea pianura che introduce a un viaggio al di là del tempo.
Andiamo a riconoscere la cabina, dove ora sono le due valigie gemelle, di colore blu-nero, lucide, morbide. Riempiono il piccolo spazio della cabina, tra il lavabo e le cuccette. Ne introduciamo una sotto la cuccetta, l’altra la poniamo sul piccolo sedile a parete coperto di cotone stampato.
Dal finestrino rivedo, inquadrato, il molo solitario. Pare già una memoria. E la sua malinconia è occidentale, nordica.
La nave, per quanto lustra e riverniciata, è vecchia, anzi, «vittoriana». Infatti fu inglese, prima di essere greca. Fuori è bianca, dentro è di legno scuro, con modanature di ottone. Si chiama Angelika.
Il nome dev’essere quello della signora il cui ritratto è posto in capo alle scale: tipica fotografia ingrandita di persona defunta (come se ne vedono nelle case dei contadini), in questo caso della moglie o madre del proprietario della nave. Un viso dolce, casalingo, dai tratti imprecisi, come già un po’ dimenticato.
ore 19
Ci stacchiamo dall’Italia.
Un tremito, un trapestio profondo, sussulti: la nave si muove. Ci troviamo nel salone di poppa e le vibrazioni, l’incipiente rullio sono sensibili, eccitanti.
Lo scenario dietro le vetrate si sposta: l’alta città murata, grigio-rosa, scivola all’indietro, s’inclina di sbieco, si allontana.
La nave raggiunge e supera un favoloso castello svevo ormai cupo, notturno, sul mare ancora chiaro, si scioglie dagli abbracci, dai lunghi tentacoli dell’immenso porto e scivola via nel crepuscolo.
A mano a mano che la nave si immerge nella solitudine delle acque e della notte, provo uno sgomento e insieme un’esaltazione: come se avessimo iniziato un viaggio supremo, verso una beatitudine difficile e incorporea.
ore 20
Scendiamo due rampe di scale dagli scalini profilati d’ottone.
I tavoli sono grandi, rotondi. Non vedo, con delusione, le stoviglie correre avanti e indietro sui tavoli come nel vecchio film di Charlot.
Nel mezzo della sala, in piedi, stanno affrontati il nostro capo e il capo della nave: non un capitano, un borghese. Osservo che sono quasi identici, come due gemelli. Entrambi giganti, un po’ panciuti, in abiti larghi color marrone (di gusto levantino), le facce di tipo bull-dog. Discutono, avvicinando le facce, e...