1. Nascita, sviluppo e caduta della città di Jūnitaki.
Sul treno per Asahikawa partito da Sapporo il mattino presto, aprii una birra e diedi un’occhiata al libro che avevo appena comprato, uno spesso volume con tanto di cofanetto intitolato Storia della città di Jūnitaki. A Jūnitaki aveva sede il municipio dov’era registrato il pascolo del Professor Pecora. Leggere la storia del luogo probabilmente non mi sarebbe servito a granché, ma non poteva nemmeno farmi male. L’autore era nato a Jūnitaki nel 1940, si era laureato in letteratura all’Università dello Hokkaidō, dopodiché si era attivamente dedicato allo studio della storia locale, diceva la prefazione. Per essere stato tanto attivo, non aveva pubblicato granché, solo quel volume. Quella era la prima edizione, del maggio del 1970, e probabilmente anche l’ultima.
Secondo l’autore, i primi abitanti dell’attuale Jūnitaki si erano insediati nella zona nell’estate del tredicesimo anno del periodo Meiji, il 1880. In tutto erano diciotto, dei contadini poverissimi che venivano da Tsūgaru e possedevano soltanto pochi attrezzi agricoli, lo stretto necessario per dormire, qualche vestito, qualche pentola e qualche coltello.
Passando da un villaggio ainu vicino a Sapporo, in cambio di un po’ di denaro avevano ingaggiato un giovane del luogo perché facesse loro da guida. Si trattava di un ragazzo magro dagli occhi scuri, il cui nome in lingua ainu significava «Plenilunio mancato» (l’autore suggeriva che potesse alludere a una sua tendenza a crisi depressive).
In ogni caso si rivelò una guida ben piú affidabile di quanto ci si sarebbe aspettati. Nonostante non dicesse una parola di giapponese, condusse quei diciotto contadini cupi e terribilmente sospettosi verso nord, lungo il fiume Ishikari. Sapeva bene dove avrebbero potuto trovare ottima terra agricola.
Vi arrivarono il quarto giorno. Erano vasti, bellissimi prati irrigati da acque abbondanti, in quel momento tutti in fiore.
– Questo è il posto adatto, – disse il ragazzo con aria soddisfatta. – Ci sono poche bestie selvatiche, il terreno è fertile, e si pescano salmoni in abbondanza.
– No, – fece scuotendo la testa l’uomo che sembrava il capo del gruppo, – andiamo ancora avanti.
Probabilmente quella gente era convinta – pensò il ragazzo – che piú ci si inoltrava verso l’interno, migliore era la terra. Bene, allora in marcia!
Camminarono verso nord per altri due giorni, e arrivarono a un altopiano dove il suolo non era fertile come nel primo posto, ma almeno non c’era pericolo di inondazioni.
– Anche questa terra mi sembra adatta all’agricoltura, – disse. – Cosa ve ne pare?
I contadini scossero la testa.
La stessa scena si ripeté piú volte, finché arrivarono al luogo dove attualmente sorge la città di Asahikawa. A circa centoquaranta chilometri da Sapporo, un viaggio di sette giorni.
– Di questo posto cosa ne dite? – chiese il ragazzo senza farsi troppe illusioni.
– Non ci piace, – risposero i contadini.
– Ma se continuiamo, dovremo valicare le montagne, – insistette lui.
– Per noi va bene, – dissero quelli con aria soddisfatta.
Cosí attraversarono il passo di Shiokari.
Naturalmente i contadini avevano un valido motivo per rifiutare i ricchi campi pianeggianti e cercare una sistemazione nelle zone selvagge al di là dei monti. Schiacciati dai debiti, erano scappati nottetempo dal loro villaggio, e ora facevano sforzi disperati per allontanarsi quanto piú possibile dalla pianura, dov’erano facilmente reperibili.
Il ragazzo però questo non lo poteva sapere. Era rimasto giustamente stupito nel vedere che rifiutavano le fertili terre agricole, poi preoccupato, perplesso, confuso, e infine aveva perso fiducia in se stesso.
Tuttavia, avendo un carattere piuttosto complicato, dopo aver superato il passo di Shiokari accettò il suo incomprensibile destino di condurre quei contadini sempre piú a nord, sempre piú a nord. Per farli contenti sceglieva apposta i sentieri piú malagevoli e le paludi piú pericolose.
Dopo il passo di Shiokari il gruppo camminò ancora quattro giorni verso nord, finché si trovò davanti a un fiume che scorreva da est a ovest. All’unisono i contadini decisero che sarebbero andati a est.
Percorsero sentieri impraticabili in una zona impervia. Per giornate intere si arrampicarono su ripidi pendii rocciosi, si tagliarono una strada attraverso lussureggianti boschi di bambú, praterie dove l’erba era alta come una persona, acquitrini dove il fango arrivava al petto, sempre avanti verso est. La notte piantavano le loro tende sulla riva del fiume, e dormivano tendendo l’orecchio all’ululato dei lupi. Moscerini e zanzare si attaccavano alle loro braccia scorticate dai bambú, si infilavano persino dentro le orecchie per succhiar loro il sangue.
Il quinto giorno di marcia arrivarono ai piedi di monti invalicabili. – Al di là, – dichiarò il ragazzo, – non ci sono luoghi dove gli esseri umani possano vivere –. E finalmente i contadini decisero di fermarsi. Era l’8 luglio del tredicesimo anno del periodo Meiji e si trovavano a duecentosessanta chilometri da Sapporo.
Considerarono la topografia, la qualità del terreno, l’afflusso d’acqua, e ne conclusero che il luogo era adatto all’agricoltura. Attribuirono un appezzamento a ogni famiglia e nel bel mezzo costruirono una capanna di tronchi che fungesse da sede collettiva.
Il ragazzo si imbatté per caso in un gruppo di cacciatori ainu che si erano spinti fin lí, e chiese loro come si chiamasse quel posto.
– Come vuoi che si chiami questo buco del culo? – risposero quelli.
Cosí per un certo tempo quel nuovo insediamento restò senza nome. E in effetti che bisogno ne aveva? Intorno non c’erano abitazioni umane nel raggio di almeno sessanta chilometri, e anche fossero esistite, gli scambi non sarebbero stati graditi. Nell’anno ventuno del periodo Meiji un funzionario dell’Ufficio regionale arrivò fin lassú per fare un censimento dei membri della comunità e li ammoní che il villaggio avrebbe dovuto avere un nome, ma loro fecero orecchie da mercante. Anzi, si riunirono nella sede collettiva portandosi appresso le loro pentole e le loro zappe, e decretarono che «non avrebbero messo un nome al villaggio». Il funzionario si dovette rassegnare. Allora prese lo spunto dal fatto che il fiume che scorreva a poca distanza formava dodici cascatelle e decise di chiamare l’insediamento Jūnitaki – dodici cascate –, e con questo nome lo fece registrare all’Ufficio regionale. Da allora Jūnitaki restò la denominazione ufficiale del villaggio, che in seguito divenne comune. Questo però successe piú tardi, torniamo all’anno tredici del periodo Meiji.
Dal punto di vista paesaggistico, la definizione «buco del culo» era azzeccata: il luogo si trovava in fondo a una valle che si apriva fra due montagne a un angolo di circa sessanta gradi, percorsa da un fiume che scavava una profonda gola. Il terreno era ricoperto di bambú nani, mentre nel sottosuolo le radici delle enormi conifere formavano un reticolo. Lupi, alci, orsi e ratti erravano nei dintorni per procurarsi il cibo – le scarse foglie degli alberi, animali, pesci –, c’erano uccelli di ogni dimensione e nugoli di mosche e zanzare.
– Davvero volete vivere qui? – chiese il giovane ainu.
– Sí, proprio qui, – risposero i contadini.
Per ragioni non chiare, il ragazzo, invece di tornare al suo villaggio, rimase con loro su quella terra. Forse per semplice curiosità, suggeriva l’autore (dava continui suggerimenti). Se non fosse rimasto, è molto probabile che i coloni non avrebbero superato i mesi freddi. Insegnò loro tante cose – coltivare un orto invernale, difendersi dalla neve, prendere pesci nel fiume gelato, costruire trappole per i lupi, cacciare via gli orsi famelici prima del letargo, capire le variazioni di clima dalla direzione del vento, evitare i geloni, arrostire i germogli dei bambú selvatici, abbattere le conifere nel senso voluto... –, cosí tutti finirono col riconoscere il suo valore, e anche lui ritrovò la fiducia in se stesso. In seguito sposò la figlia di uno dei coloni, ebbe da lei tre bambini, e prese un nome giapponese. Ormai non era piú «Plenilunio mancato».
Nonostante il suo aiuto, la vita dei coloni era durissima. Verso agosto ogni famiglia era riuscita a costruirsi una casa, ma trattandosi di semplici capanne fatte di tronchi irregolari messi insieme alla meglio, in inverno non costituivano un riparo contro le bufere che soffiavano implacabili. Non era raro svegliarsi il mattino e trovare mezzo metro di neve accanto al cuscino. Di futon ne avevano piú o meno uno per famiglia, cosí gli uomini dovevano dormire raggomitolati davanti al fuoco. Quando finirono le riserve di cibo che si erano portati, mangiarono i pesci del fiume e le radici annerite che trovavano scavando sotto la neve. Fu un inverno particolarmente rigido, ma nessuno morí. Non ci furono liti, non ci furono pianti. La loro arma era la povertà nella quale erano sempre vissuti.
Arrivò finalmente la primavera. Nacquero due bimbi, che portarono la popolazione del villaggio a ventuno persone. Le puerpere avevano lavorato fino a due ore prima del parto, e il mattino seguente erano già nei campi. Vennero piantati granoturco e patate, gli uomini abbatterono degli alberi e bruciarono le radici per creare nuove terre coltivabili. La vita sbocciava, portava giovani frutti, e i coloni cominciavano finalmente a respirare. Fu allora che arrivarono le cavallette.
L’enorme sciame giunse dai monti, sulle prime sembrò una grande nuvola scura. Poi si sentí un potente brusio. Cosa stava succedendo? Nessuno riusciva a capire. Solo il giovane ainu sapeva di cosa si trattava. Ordinò agli uomini di accendere falò in vari punti dei campi coltivati e di bruciare fino all’ultimo mobile, gettandovi sopra tutto l’olio che avevano. Alle donne disse di picchiare a piú non posso con i pestelli contro le pentole. Fece quanto era in suo potere, come in seguito riconobbero tutti. Ma fu inutile. Centinaia di migliaia di cavallette piombarono sui campi e divorarono ogni cosa, facendo piazza pulita.
Quando le cavallette se ne andarono, il giovane ainu si accovacciò in un campo e pianse. Fu l’unico, nessuno degli altri seguí il suo esempio. Raccolsero le cavallette morte, le bruciarono, poi ricominciarono subito a dissodare nuova terra.
Passarono un altro inverno nutrendosi di pesce e di radici. In primavera nacquero tre bambini, si seminarono i campi. In estate di nuovo arrivarono le cavallette. E di nuovo divorarono tutto. Il giovane ainu questa volta non pianse.
Gli assalti delle cavallette durarono tre anni, finché lunghe piogge ne fecero marcire le uova. Ma purtroppo piovve tanto da rovinare il raccolto. L’anno seguente ci fu un’invasione di scarafaggi, e quello dopo ancora l’inverno fu terribile.
Arrivato a quel punto chiusi il libro, bevvi un’altra birra, tirai fuori il bentō di riso e salmone e mi misi a mangiare.
Sul sedile di fronte la mia ragazza dormiva a braccia conserte. Attraverso il vetro, i raggi mattutini del sole autunnale deponevano sulle sue ginocchia una lieve coltre. Una piccola farfalla entrata da chissà dove svolazzava come un pezzetto di carta mosso dal vento. Alla fine le si posò su un seno, vi restò un momento a riposare, poi se ne volò via. Quando la farfalla la lasciò, lei sembrò un pochino piú vecchia.
Fumai una sigaretta, riaprii il libro e mi rimisi a leggere la Storia della città di Jūnitaki.
Si dovette aspettare il sesto anno perché finalmente le nuove terre cominciassero a vive...