© 2012 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino
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Ebook ISBN 9788858405444
A mio padre
Le vicende e i personaggi di questa storia sono di fantasia, frutto della libera elaborazione dell’Autore.
Le auto dei carabinieri sono ferme in fila a bordo strada. Un’ambulanza manovra di fronte al cancelletto metallico del mio palazzo. In ordine sparso sul marciapiede e nel parcheggio interno una decina di carabinieri si muovono inquieti, lo sguardo a terra in cerca di qualcosa. Sullo spiazzo del bar dall’altra parte della strada c’è un gruppo di curiosi. Sono fermi, immobili, attoniti. Quando mi vedono arrivare ammutoliscono.
Parcheggio dietro la colonna di auto, mi presento al carabiniere di guardia al cancello e gli dico che sono appena stato contattato dal maresciallo. Mi chiede di mostrargli un documento, quindi chiama il suo superiore.
Non è la prima volta che incontro il maresciallo Marino, un uomo imponente, sui sessant’anni. Il viso severo contrasta con le folte basette rosse che spuntano da sotto il berretto d’ordinanza. Mi rivolge il solito saluto militare e annuisce stringendo le labbra in una smorfia che sembra di pena o addirittura rimorso.
– Ha capito di che si tratta? – esordisce. Poi continua: – Mi dispiace tanto.
No, non ho capito. Quando mi ha chiamato è stato telegrafico e mi ha semplicemente invitato a tornare subito a casa. – Cos’è successo? – riesco a dirgli. E inizio come al solito a tremare, chiudo le mani a pugno e stringo, fino quasi a conficcare le unghie nei palmi.
– Mi segua, – dice il maresciallo abbassando la voce. Grazie a lui ci facciamo largo tra le guardie davanti al cancello e raggiungiamo il parcheggio del condominio, dove possiamo parlare lontano dai curiosi.
Ha un’espressione seria. Si guarda intorno, prende tempo e studia il cortile invaso dai suoi uomini come un vecchio generale studierebbe il campo di un’atroce battaglia. Quando riprende a guardarmi, sembra usare gli occhi per capire dalla mia postura, dal tremore delle mie mani, dalla mia aria sfiancata, il mio grado di tolleranza alle notizie che sta per darmi. Cerca il tono giusto. Si fa piú vicino.
– Si tratta di sua moglie, – inizia.
– Mia moglie?
– È successa una tragedia.
Da questa distanza vedo bene la pelle grossa del suo viso, le vene che si raggrumano alla base del naso, i piccoli occhi che mi studiano veloci. Sfila il berretto d’ordinanza e lo stringe con entrambe le mani per la visiera, un gesto che gli ho già visto fare in altre occasioni. Conosco quest’uomo da qualche mese e all’improvviso mi pare che tra noi ci sia una specie di familiarità antica.
– Una tragedia, – ripete. Prende una boccata d’aria, appoggia il berretto alla pancia e continua a stringerlo fino a quando la punta delle dita inizia a sbiancare. – SÃ, purtroppo.
Non so dove trovo la forza ma anche in un momento come questo sono in grado di trattenermi e non reagire, non gridare, non fare nulla. Immagino che qualsiasi cosa faccia, qualsiasi frase dica o qualsiasi espressione attraversi il mio viso potrebbe un giorno ritorcersi contro di me. Resto immobile a contemplare la scena e mi perdo a osservare i dettagli piú marginali, il tessuto liscio del suo berretto, la ghiaia silenziosa ai nostri piedi e le nostre ombre proiettate dal sole biancastro. Studio i dettagli perché questo mi permette di resistere e prendere tempo. Non crollare. Ho paura di me, soprattutto.
– Mi dica per favore cos’è successo, – dico misurando le parole. Alzo gli occhi verso il terrazzo del mio appartamento e vedo carabinieri che entrano ed escono con naturalezza da casa mia. Uno di loro scatta foto col flash.
Nell’appartamento a fianco, i miei due vicini anziani appoggiati sui gomiti alla ringhiera di metallo. Lei, Emma, si asciuga gli occhi con un fazzoletto. Lui, il vecchio Dante, accenna un saluto con la mano e l’accompagna con un movimento rallentato del viso. Scuote la testa e non si dà pace.
– Sua moglie è stata trovata morta, – riprende il maresciallo Marino.
Mi gira la testa, ho bisogno di sedermi. – Mi sento male, – gli dico. Lui chiama due giovani guardie che mi prendono sottobraccio e mi accompagnano a sedere sul muretto vicino al portone d’entrata. Il maresciallo ci segue da poca distanza. – Le faccio portare qualcosa da bere, – dice.
– Grazie, – rispondo.
– Lei ora pensi solo a stare tranquillo.
Una delle due guardie si allontana e torna di corsa con un bicchiere. Bevo troppo velocemente, poi sputo con un colpo di tosse.
– Si sforzi di stare tranquillo, – ripete il maresciallo Marino. Appoggia una mano sulla mia spalla. Stringe con una forza morbida e allo stesso tempo decisa e io sento tutta la pressione del suo corpo su di me.
Finalmente chiudo gli occhi. Respiro lentamente e l’oscurità improvvisa sembra regalarmi qualche istante di stabilità .
Porto i palmi delle mani sugli occhi e ascolto il vociare sgraziato dei carabinieri. Sento i loro passi sulla ghiaia. Li sento sciamare intorno, impegnati nelle loro mansioni, occupati nel tentativo di ristabilire l’ordine rassicurante delle cose, scovare cause verificabili, tracce possibili sulle quali costruire una qualche possibile oggettività . Suppongo sia questo il loro lavoro. La promessa della Legge.
Chiedo al maresciallo che mi racconti cos’è successo. Gli dico che non tema di dirmi la verità . Non ho alcuna paura di sentirla, la verità . Anzi, la verità mi farà bene, ne sono sicuro.
– Avevamo tutti gli elementi per prevenire questa tragedia, – inizia. – Ma abbiamo sottovalutato.
Fa allontanare il giovane carabiniere che ha portato l’acqua e mi siede vicino, sul muretto.
È una giornata molto calda. Siamo nel pieno di un afoso pomeriggio di luglio e dalla terra sale un’umidità che impregna i pantaloni, si appiccica fastidiosamente alla camicia.
Io sudo. Cerco solo di stare immobile e di trattenermi come da tempo ho imparato a fare. – Cos’ha detto?
– Abbiamo tutti sottovalutato la situazione, – ripete quasi sentisse il dovere di scusarsi.
– No, non tutti l’abbiamo sottovalutata, – gli dico con un filo di voce. – E poi cos’è successo?
Un carabiniere che sta vicino al cancello, forse lo stesso che mi ha accolto all’inizio, chiama il maresciallo e lui gli risponde infastidito. Fa cenno con la mano di non disturbare.
– Poi c’è sua madre, – continua.
Io ricomincio a tremare. – Mia madre? – alzo la voce. – Mia madre cosa? – Sento che non ho piú le forze e mi afferro al muretto come se ora, davvero, una corrente irresistibile e spietata potesse risucchiarmi lontano, strapparmi via per sempre.
Il maresciallo sta per riprendere a parlare quando io lo interrompo. – Dov’è mio figlio? – gli chiedo.
– Suo figlio è al sicuro, – risponde. – È in custodia dagli assistenti sociali. Sta bene, suo figlio, non si preoccupi.
– È ferito?
– No. Le ho detto che sta bene. Non si preoccupi per lui, non ci pensi, suo figlio è in salvo. Nessuno gli farà piú niente.
È un uomo a cui l’esperienza ha insegnato a seguire i tempi del copione nel migliore dei modi. Non accelera e non rallenta la cadenza. Capisce dai miei gesti, dal mio sguardo e dalle mie domande qual è il momento delle frasi da pronunciare. È un professionista e sa come agire anche nelle situazioni umanamente piú complesse. Intanto mi sta vicino e mi tiene d’occhio perché ha imparato a diffidare di quelli in grado di controllarsi come me.
– Suo figlio ha visto tutto, ma lo aiuteremo noi, – riprende il maresciallo. – Lei può contare su di noi in ogni momento.
– E mia madre?
– L’abbiamo sedata. È a letto e sta bene. C’è un medico con lei. Non si preoccupi, sua madre è fuori pericolo, ormai. Cosa c’è? – mi chiede. – Si sente male?
Tossisco. La gola è tornata secca e poi, all’improvviso, una fitta mi prende allo stomaco. – Mi viene da vomitare, – mi sforzo di dirgli. – Mi scusi.
– Ce la fa? – mi chiede. – Non c’è niente di cui scusarsi. Sono qui per lei.
Nel frattempo attira l’attenzione di una delle guardie e anche se io dico che sto meglio lui non sembra convinto. – Chiama il medico, – ordina alla guardia.
Il medico scende trafelato dopo pochi minuti, il camice aperto sul davanti. È un volontario della Croce Verde di appena trent’anni, magro, capelli stopposi sopra la fronte. I suoi occhi si muovono veloci e spaventati.
– Come si sente? – chiede tastandomi il polso.
– Non lo so.
– Se posso permettermi... – dice il medico. – Se lo desidera, potrei darle qualcosa. Qualcosa di leggero, non le farà male.
– No, grazie –. Il maresciallo gli fa cenno di andare. – Voglio vedere mia madre.
– Sua madre sta dormendo. Adesso non è possibile.
– Voglio vederla, – insisto. – Dov’è mio figlio?
– Senta… – inizia il maresciallo. Torna subito a stringere le labbra con un’espressione di rimorso. – D’accordo, l’accompagno io, – concede infine, – anche se non sarebbe consentito.
Entriamo nel palazzo. Nell’atrio non c’è nessuno. Si sente solo un mormorio lontano, dai piani superiori, probabilmente da casa mia.
In ascensore gli istanti scorrono infiniti. Non mi ero mai accorto della lentezza di questo ascensore. È un modello nuovo e sembra fermo anche quando si muove.
Le porte si aprono al quinto piano.
Esce prima il maresciallo, poi io, infine la giovane guardia che ci ha seguiti.
La porta del mio appartamento è spalancata, uno spiraglio di luce dentro il buio polveroso del pianerottolo.
Sento i nostri passi rimbombare nel corridoio. Adesso nessuno parla, i carabinieri che stazionano davanti alla porta mi guardano.
Sulla soglia, prima ancora di entrare vedo il corpo di mia moglie disteso di traverso sul pavimento, sopra il tappeto con motivi indiani che avevamo scovato in un mercatino equosolidale.
È crivellato di colpi e io ne riconosco il viso nonostante sia coperto di schizzi di sangue.
Anche i muri del nostro soggiorno sono schizzati di sangue. – Sto male, – dico al maresciallo.
La giovane guardia mi si avvicina. – Vuole uscire?
– No.
C’è sangue sullo stereo e sui suoi cd di musica etnica. C’è sangue sul suo quadro, quello che chiamavamo la Tuffatrice, appeso sopra il divano. Sangue sul divano. Sangue sul tappeto. Ci sono schizzi sulle tende della portafinestra. C’è sangue sul suo corpo morto.
Le gambe sono leggermente divaricate, sembra distesa in una posizione comoda, quasi naturale. Indossa la tunica marocchina che aveva acquistato durante un viaggio in Nordafrica con delle amiche prima che ci conoscessimo. È scalza.
Inizio a prendere coscienza di me. Inizio a pensare per la prima volta con lucidità a ciò che sta succedendo. Questa è la mia casa, mi ripeto quasi dovessi convincermene, questo il mio tappeto, questo il mio salotto. Questa mia moglie.
Saranno passati pochi minuti da quando ho varcato il cancello sulla strada e sono stato accolto dal maresciallo, eppure sembra trascorsa un’eternità . Il tempo si è rappreso addensando insieme ogni elemento della mia vita per spararmelo addosso ora, con tutta la violenza di cui è capace.
Pur faticando a guardare ciò che mi sta davanti agli occhi, riconosco questa scena come l’unico esito possibile di una serie di eventi che nessuno ha saputo fermare. Né io, né il maresciallo.
– È stata ferita anche mia madre?
– No, – dice il maresciallo. – Sua madre sta bene. Ha avuto una crisi di nervi e l’abbiamo sedata, gliel’ho detto.
Mia madre sta bene, mi ripeto ossessivamente come servisse a stabilizzare le cose. Mia madre sta bene.
Il maresciallo nel frattempo ci ha ripensato e dice che è impossibile vederla ora. Penso che mi piacerebbe avere qui Sara, il mio avvocato, con le sue braccia nervose e il suo atteggiamento pratico, ma ho il sospetto che se chiedessi di farla chiamare, il maresciallo e i suoi uomini lo prenderebbero come un affronto. Ci sono loro qui. Ci sono loro a vegliare su di me, a cercare di rimettere ordine nelle cose.
Allora non faccio niente, lascio scorrere altri istanti e abbasso lo sguardo.
E finalmente la vedo, seminascosta ai piedi del divano, morbida, la pelle di daino sfrangiata dentro la quale mio padre custodiva la sua vecchia pistola.
È proprio finita, penso.
Tra me e mia moglie Isabel iniziò tutto nel migliore dei modi, poco meno di quattro anni fa. Io avevo trentasei anni, e da qualche tempo la mia vita era entrata in una sorta di stallo che pareva dover durare per sempre. Ero socio in una piccola agenzia di comunicazione che pur non brillando mi garantiva una certa stabilità economica e mi ero costruito negli anni un’indipendenza sentimental...