Il sole non si era ancora levato. Il mare non si distingueva dal cielo; era solo appena appena increspato, come un panno gualcito. Pian piano, col cielo che si schiariva, si poggiò sull’orizzonte una linea scura che li divise, e il panno grigio si spezzò a forza di colpi veloci, che da sotto salivano in superficie incalzandosi, uno dietro l’altro, in un movimento perpetuo.
Avvicinandosi alla spiaggia ogni striscia si sollevava, si gonfiava, si rompeva, ricoprendo la sabbia di un velo sottile d’acqua bianca. L’onda si arrestava, poi si ritirava sibilando, come chi respiri lento, regolare e incosciente nel sonno. Pian piano la striscia scura all’orizzonte si fece piú chiara, come se in una vecchia bottiglia di vino il sedimento fosse calato a fondo lasciando il vetro verde trasparente. E dietro, come se pure lí il sedimento bianco fosse sprofondato, o il braccio di una donna distesa sull’orizzonte avesse sollevato una lampada, anche il cielo si schiarí e delle strisce piatte di bianco, di verde e di giallo si propagarono nell’aria a lama di ventaglio. Poi la donna alzò piú alta la lampada e l’aria sembrò farsi fibrosa e strapparsi dalla superficie verde con guizzi e vampe di fibre rosse e gialle come la fiamma fumosa di un falò che sfavilla. Pian piano le fibre del falò si fusero in un solo alone, un’unica incandescenza che sollevò il peso del cielo grigio spugnoso e lo mutò in milioni di atomi di soffice azzurro. La superficie del mare lentamente si illimpidí e brillò mossa, ondulata e spumosa, finché le strisce scure non scomparvero quasi del tutto. Lentamente il braccio che reggeva la lampada la sollevò piú in alto e piú in alto ancora, finché si vide una grande fiamma; un arco di fuoco si accese sull’orlo estremo dell’orizzonte, e tutto intorno il mare avvampò d’oro.
La luce colpí gli alberi del giardino; le foglie si illuminarono una dopo l’altra. Un uccello cinguettò su in alto; ci fu una pausa, un altro cinguettò giú in basso. Il sole, che faceva risaltare gli spigoli delle mura della casa, si poggiò sulla persiana bianca e lasciò un’impronta di ombra azzurra sotto la foglia accanto alla finestra della camera da letto. La persiana si mosse appena, ma dentro era tutto buio e immateriale. Fuori gli uccelli cantavano la loro melodia vuota.
«Vedo un cerchio, – disse Bernard, – che pende sulla mia testa. Oscilla e pende in un anello di luce».
«Vedo una macchia gialla, – disse Susan, – che si allarga finché incontra una striscia viola».
«Sento un suono, – disse Rhoda, – cip, cip, cip, cip; piú forte, piú piano».
«Vedo un globo sospeso, – disse Neville, – che goccia sui fianchi enormi della collina».
«Vedo una nappa rosso cremisi, – disse Jinny, – intrecciata di fili d’oro».
«Sento qualcosa che scalpita, – disse Louis. – Una bestia enorme è tenuta per il piede in catene. Scalpita, scalpita, scalpita».
«Guardate la ragnatela all’angolo del balcone, – disse Bernard. – Contiene delle perle d’acqua, delle gocce di luce bianca».
«Le foglie si raccolgono intorno alla finestra come orecchie appuntite», disse Susan.
«Un’ombra cade sul sentiero, – disse Louis, – sembra un gomito piegato».
«Isole di luce nuotano nell’erba, – disse Rhoda. – Piovono dagli alberi».
«Gli occhi degli uccelli luccicano nelle caverne tra le foglie», disse Neville.
«Gli steli sono ricoperti di peli corti, ruvidi, – disse Jinny, – e gocce d’acqua vi sono rimaste appiccate».
«Un bruco si è arrotolato in un anello verde, – disse Susan, – dalle tacche spuntate».
«La lumaca dal guscio grigio striscia sul sentiero e passando schiaccia i fili d’erba», disse Rhoda.
«A lampi la luce infocata dalla finestra si riversa sull’erba», disse Louis.
«Le pietre, al contatto del piede, sono gelide, – disse Neville. – Le sento una ad una, rotonde o a punta».
«Il dorso della mia mano brucia, – disse Jinny, – ma il palmo è umido e appiccicoso di rugiada».
«Ora il gallo scoppia in un chicchirichí che è un getto d’acqua dura, rossa nella corrente bianca», disse Bernard.
«Tutto intorno a noi gli uccelli cinguettano prima piano e poi forte», disse Susan.
«La bestia scalpita, l’elefante con il piede incatenato, l’enorme animale sulla spiaggia scalpita», disse Louis.
«Guardate la casa, – disse Jinny, – con tutte le tende bianche alle finestre».
«L’acqua fredda comincia a scorrere dal rubinetto del retrocucina, – disse Rhoda, – sul pesce poggiato sul vassoio».
«Nelle pareti si aprono crepe dorate, – disse Bernard, – e sotto le finestre appaiono le ombre azzurre, a forma di dita, delle foglie».
«Ora la signora Constable si tira su le grosse calze nere», disse Susan.
«Quando si leva il fumo, il sonno si arriccia sul tetto come fosse nebbia», disse Louis.
«Gli uccelli prima cantavano in coro, – disse Rhoda. – Ora la porta del retrocucina si apre, e si sparpagliano in volo come una manciata di semi. Uno resta e canta accanto alla finestra della camera da letto, solo».
«Sul fondo della padella si formano delle bollicine, – disse Jinny. – Poi si sollevano in una catenella argentata, sempre piú veloci, sempre piú su».
«Ecco Biddy che su un’asse di legno raschia le squame del pesce con un coltello seghettato», disse Neville.
«La finestra del salotto ora è azzurro scuro, – disse Bernard, – e l’aria si arriccia sui comignoli».
«Una rondine si è appollaiata sul parafulmine, – disse Susan. – E Biddy ha sbattuto il secchio sull’impiantito della cucina».
«Ecco il primo rintocco delle campane, – disse Louis. – Ne seguiranno altri: uno, due; uno, due».
«Guardate la tovaglia, come svolazza, bianca, lungo la tavola, – disse Rhoda. – Ecco i tondi dei piatti bianchi, e accanto ad ogni piatto, le righe d’argento».
«D’improvviso un’ape mi ronza nell’orecchio, – disse Neville. – Eccola, è qui; non c’è piú».
«Brucio, tremo, – disse Jinny, – prima al sole, poi all’ombra».
«Ora se ne sono andati tutti, – disse Louis. – Sono rimasto solo. Sono entrati in casa per fare colazione, e io sono rimasto in piedi contro il muro, tra le piante. È mattina presto, la lezione non è ancora cominciata. I fiori spiccano ad uno ad uno contro il fondale verde. I petali sono arlecchini. Gli steli emergono dai buchi neri sottoterra. I fiori sono pesci di luce che nuotano in acque verdi, scure. Ho in mano uno stelo. Io sono lo stelo. Le mie radici affondano nelle profondità del mondo, in una terra prima secca, dura, poi umida, sempre piú giú, attraverso vene di piombo e di argento. Sono pura radice. Ogni specie di vibrazione mi scuote, e il peso della terra grava sulle mie costole. In alto i miei occhi sono foglie verdi, non vedono. In alto sono un ragazzo in pantaloni di flanella grigia con una cintura che ha per fibbia un serpente di bronzo. Giú in basso i miei occhi sono le orbite senza palpebre di una statua nel deserto del Nilo. Vedo donne con anfore rosse che scendono al fiume; vedo cammelli ondeggianti e uomini in turbante. Sento degli scalpitii, dei tremolii, tutta un’agitazione intorno a me.
Quassú Bernard, Neville, Jinny e Susan (non Rhoda) vanno rasente le aiuole con le loro retine. Staccano le farfalle dalle corolle reclinate dei fiori. Sfiorano la superficie del mondo. Le retine si riempiono di ali palpitanti. “Louis! Louis! Louis!” gridano. Non mi vedono. Sono dall’altro lato della siepe. Ci sono soltanto dei piccoli pertugi tra le foglie. Oh, Signore fa’ che passino oltre. Signore, fa’ che depongano le loro farfalle in un fazzoletto sulla ghiaia. Fa’ che contino le ninfali, le vanesse, le rapaiole. Ma che non mi vedano. All’ombra della siepe sono verde come un cespuglio di tasso. I miei capelli sono foglie. Affondo le radici nel centro della terra. Il mio corpo è uno stelo, che schiaccio. Dal buco della bocca esce una goccia che lenta, densa, via via si ingrandisce. Un che di rosa mi invade la retina. Nella fessura si infila il lampo di uno sguardo. Il suo raggio mi colpisce. Sono un ragazzo con indosso un abito di flanella grigio. Mi ha trovato. Sento un colpo alla nuca. Mi bacia. Va tutto in pezzi».
«Correvo, – disse Jinny, – dopo colazione. Vidi un tremolio di foglie nel buco della siepe. Pensai: “Deve essere un uccello nel nido”. Separai le foglie, guardai; ma non c’erano uccelli nel nido. Le foglie continuavano a tremare. Mi spaventai. Corsi via passando davanti a Susan, a Rhoda, a Neville e Bernard, che erano nel capanno degli attrezzi e parlavano. Mentre correvo sempre piú forte, piangevo. Che cosa aveva mosso le foglie? Che cosa muoveva il mio cuore, le gambe? E mi precipitai e ti vidi, Louis, verde come un cespuglio, fermo immobile come un ramo, con gli occhi fissi. “È morto?” pensai, e ti baciai, col cuore che sotto l’abito rosa batteva forte, come le foglie che tremano sempre, anche se non c’è niente che le muove. Sento l’odore del geranio; il profumo della terra. Danzo. Ondeggio. Sono spinta verso di te come fossi una rete di luce. Ora ti sto addosso tutta tremante».
«Dal buco nella siepe, – disse Susan, – l’ho vista che lo baciava. Ho alzato gli occhi dal vaso dei fiori e ho guardato nel buco. L’ho vista che lo baciava. Li ho visti, Jinny e Louis, che si baciavano. Nasconderò la mia angoscia nel fazzoletto. L’avvolgerò stretta in un gomitolo. Da sola andrò, al bosco dei faggi, prima della lezione. Non mi metterò seduta al banco a fare le addizioni. Non mi metterò a sedere vicino a Jinny e Louis. Prenderò la mia angoscia e la poggerò tra le radici dei faggi. La osserverò, la toccherò con le dita. Non mi troveranno. Mangerò delle ghiande e frugherò tra i rovi in cerca di uova e i capelli mi si aggroviglieranno e dormirò sotto le siepi e berrò l’acqua dei fossi e morirò».
«È passata Susan, – disse Bernard. – È passata davanti alla capanna degli attrezzi con un fazzoletto appallottolato tra le mani. Non piangeva, ma i suoi occhi, che sono cosí belli, sembravano quelli affilati di un gatto pronto a saltare. La seguirò, Neville. Piano piano la seguirò, per esserle vicino, per curiosità, e per consolarla quando scoppierà in una furia e penserà: “Sono sola”.
Ora attraversa il campo dondolandosi, fa finta di niente, vuole ingannarci. Arriva alla discesa, pensa di non essere vista, e comincia a correre con le mani strette a pugno, con le unghie che affondano nel fazzoletto avvolto a palla. Va al bosco di faggi, lontano dalla luce. Ora che é arrivata allarga le braccia e si ripara nell’ombra come farebbe un nuotatore. Ancora accecata dal sole inciampa e cade tra le radici degli alberi, dove la luce pare respiri affannata. I rami si gonfiano e sgonfiano. C’è agitazione, affanno. C’è tristezza. La luce viene e va a sprazzi. C’è angoscia. Le radici disegnano a terra la forma di uno scheletro, con le foglie morte che si ammucchiano ai lati. Susan scarica lí la sua angoscia. Poggia il fazzoletto sulle radici dei faggi, e singhiozza raggomitolandosi dov’è caduta».
«L’ho vista che lo baciava, – disse Susan. – Guardavo tra le foglie e l’ho vista. Danzava ricoperta di scaglie di diamanti, leggera come la polvere. Io invece sono grossa, Bernard, sono bassa. Ho gli occhi che guardano raso terra e scorgono tra i fili d’erba gli insetti. Quando ho visto Jinny che baciava Louis, il calore giallo nel petto si è pietrificato. Mangerò l’erba e morirò, in un fosso d’acqua torbida pieno di foglie morte e marce».
«Ti ho vista che passavi, – disse Bernard. – Davanti alla porta del capanno ti ho sentita gridare: “Sono infelice”. Ho messo giú il coltello. Stavo facendo delle barchette di legno insieme a Neville. Ho i capelli sporchi perché quando la signora Constable mi ha detto di pettinarmi, ho visto la mosca nella ragnatela, e mi sono chiesto: “Che faccio? Libero la mosca? O lascio che se la mangi?” Ecco perché faccio sempre tardi, ho i capelli spettinati e dei trucioli di legno tra i riccioli. Quando ti ho sentita piangere ti ho seguita, e ti ho vista che poggiavi a terra il fazzoletto appallottolato, annodato d’odio e di rabbia. Ma passerà subito. I nostri corpi adesso sono vicini. Mi senti respirare. Vedi anche il maggiolino che trasporta una foglia sulla schiena. Va prima in una direzione, poi nell’altra, sí che mentre lo guardi il tuo desiderio, il desiderio di possedere una cosa sola (è Louis ora), anch’esso ondeggia, come fa la luce tra le foglie dei faggi; poi le parole, muovendo oscure, giú in fondo alla mente, romperanno questo nodo di durezza, aggomitolato nel fazzoletto».
«Amo, – disse Susan, – e odio. Desidero una cosa soltanto. I miei occhi sono opachi. Quelli di Jinny brillano. Gli occhi di Rhoda somigliano a quei fiori pallidi su cui le falene si posano di sera. I tuoi si fanno sempre piú grandi, piú pieni, non cambiano mai. Io so già cosa voglio. Vedo gli insetti nell’erba. Anche se mia madre mi fa ancora i calzettoni bianchi a maglia e mi cuce a mano il grembiule e sono una bambina, amo e odio».
«Ma quando ci sediamo accanto, vicini, – disse Bernard, – ci dissolviamo l’uno nelle frasi dell’altro. Una nebbia ci avvolge. Si crea un mondo immateriale».
«Vedo il maggiolino, – disse Susan. – È nero, lo vedo; no, è verde, io mi attacco a ogni parola. Tu invece con le parole e con le frasi divaghi, scivoli via, ti sollevi sempre piú in alto».
«Ora, – disse Bernard, – esploriamo. Ecco la casa bianca tra gli alberi. È là sotto di noi, lontana. Sprofondiamo come due nuotatori che tocchino il fondo con la punta dei piedi. Sprofondiamo nel verde delle foglie, Susan. Correndo, sprofondiamo. Le onde si richiudono su di noi, le foglie dei faggi si congiungono sopra le nostre teste. Ecco l’orologio della stalla con le sue lancette d’oro che brillano. Ed ecco le linee piatte e verticali dei tetti della grande casa. Ed ecco lo stalliere che nel cortile ciabatta con gli stivali di gomma. Siamo a Elvedon.
Ora dalla cima degli alberi siamo caduti a terra. L’aria non ci travolge piú con le sue onde lunghe, tristi, purpuree. Tocchiamo terra; calpestiamo il suolo. Quella è la siepe ben potata del giardino delle signore. Lí passeggiano a mezzogiorno con le cesoie, spuntando le rose. Ora entriamo nel boschetto recintato con il muro che lo chiude. Siamo a Elvedon. Ho visto il cartello all’incrocio con la freccia che indica ELVEDON. Nessuno di noi c’è mai stato. Le felci hanno un profumo forte, e sotto ci crescono dei funghi rossi. Ora svegliamo le cornacchie addormentate che non hanno mai visto una forma umana; ora camminiamo sulle galle di quercia, rosse di vecchiaia e scivolose. Una cerchia di mura cinge la foresta; nessuno vi entra. Ascolta! È il tonfo di un rospo enorme nel sottobosco; e questa è una pigna primordiale che cade tra le felci.
Metti il piede su questo mattone. Guarda al di là delle mura. È Elvedon. La signora sta seduta tra le due portefinestre, e scrive. I giardinieri spazzano il prato con scope gigantesche. Siamo i primi a giungere qui. Siamo gli scopritori di una terra sconosciuta. Non ti muovere; se i giardinieri ci vedono ci sparano. E dopo ci inchiodano come ermellini sulla porta della stalla. Attenta! Non ti muovere. Attaccati forte alle felci in cima al muro».
«Vedo la signora che scrive. Vedo i giardinieri che spazzano, – disse Susan. – Se morissimo qui, nessuno ci seppellirebbe».
«Scappa! – disse Bernard. – Scappa! Il giardiniere con la barba nera ci ha visti! Ci sparerà! Ci spareranno come alle ghiandaie e ci attaccheranno al muro! Siamo in un paese nemico. Scappiamo nel bosco di faggi. Ci nasconderemo tra gli alberi. Venendo ho troncato un ramoscello. C’è un sentiero segreto. Sta’ giú, piú bassa che puoi. Seguimi senza guardarti indietro. Penseranno che siamo delle volpi. Scappa!
Ora siamo al sicuro. Possiamo rialzarci in piedi. Ora, in questa cupola alta, in questo bosco vasto, possiamo allungare le braccia. Non sento niente, solo un fruscio di onde nell’aria. Un colombo selvatico si lancia dal faggio in fuga. Batte e risbatte le ali legnose nell’aria».
«Ora divaghi, – disse Susan, – con le tue frasi. Sembri il filo di un palloncino che sale tra le foglie sempre piú in alto, fuori portata. Perdi tempo. Ti attacchi alla mia gonna, guardi indietro, fraseggi. Mi sei sfuggito. Ecco il giardino. Ecco la siepe. Ecco Rhoda nel sentiero, che culla i suoi petali nella bacinella marrone».
«Le mie navi sono bianche, – disse Rhoda. – Non voglio i petali rossi della malva rosa e dei gerani. Voglio i petali bianchi che galleggiano quando muovo la bacinella. Da sponda a sponda ora naviga la mia flotta. Ci butterò un ramoscello, come fosse una zattera per un marinaio che sta per annegare. Ci butterò un sasso e guarderò le bollicine che salgono dal fondo. Neville se n’è andato e Susan se n’è andata; Jinny è nell’orto che coglie i ribes, forse con Louis. Per un po’ sarò sola, mentre la signorina Hudson prepara i quaderni per la scuola. Ho un breve intervallo di libertà. Ho raccolto tutti i petali caduti e li ho messi a galleggiare nell’acqua. Su alcuni ho versato delle gocce di pioggia. Qui ci pianterò un faro, un cespo di alisso. E ora dondolerò la bacinella marrone da lato a lato, perché le mie navi cavalchino le onde. Alcune affonderanno. Altre andranno a sbattere contro gli scogli. Una ora naviga da sola. È la mia nave. Naviga dentro grotte di ghiaccio dove ringhia l’orso polare e le stalattiti pendono dal soffitto formando verdi catene. Le onde si gonfiano, le creste si arricciano; in cima agli alberi maestri, ecco le luci. La flotta è dispersa, affondata, tutta eccetto la mia nave, che rimonta l’onda e corre veloce col vento in poppa e raggiunge le isole dove i pappagalli schiamazzano e i rampicanti…»
«Dov’è Bernard? – disse Neville. – Ha il mio coltello. Eravamo nel capanno a fare le barche, è passata Susan davanti alla porta, e Bernard ha lasciato la barca e le è andato dietro col mio coltello, quello affilato per tagliare la chiglia. Sembra un filo che pende, un filo di campanello rotto, vibra in continuazione. Sembra l’alga appesa fuori della finestra, ora bagnata, ora asciutta. Mi pianta in asso, segue Susan, e se Susan piange tirerà fuori il mio coltello e le racconterà delle storie. La lama grande è un imperatore; la lama rotta un negro. Non sopporto le cose tentennanti, umidicce. Non sopporto che si divaghi e tutto si mescoli insieme. Ecco, il campanello sta suonando; faremo tardi. Dobbiamo lasciar perdere i nostri giochi. Dobbiamo entrare tutti insieme. I quaderni sono disposti uno accanto all’altro sul tavolo foderato di verde».
«Non voglio coniugare i verbi, – disse Louis, – se non dopo Bernard. Mio padre fa il banchiere a Brisbane e parlo con accento australiano. Aspetterò Bernard per imitarlo. Lui è inglese. Sono tutti inglesi. Il padre di Susan è un sacerdote. Rhoda non ha padre. Bernard e Neville sono figli di ricchi signori. Jinny vive con la nonna a Londra. Ora succhiano la punta della penna. Ora tormentano i quaderni e guardando di soppiatto la signorina Hudson contano i bottoni color porpora del suo corpetto. Bernard ha tra i capelli un truciolo. Susan ha un lampo di rosso nello sguardo. Sono tutti e due accaldati. Io sono pallido; sono vestito ammodo, coi pantaloncini alla zuava tenuti su da una cintura chiusa da un serpente di bronzo. So la lezione a memoria. So piú di quanto loro sapranno mai. Conosco i casi e i generi; potrei sapere tutto se volessi. Ma non voglio fare il primo della classe e ripetere io la lezione. Le mie radici, come quelle di una pianta dentro un vaso, si intrecciano col mondo. Non desidero essere il primo né vivere alla luce di questo orologio col quadrante giallo che fa tic toc. Jinny e Susan, Bernard e Neville si annodano insieme in un’unica cinghia che mi sferza. Ridono del mio essere ammodo, del mio accento australiano. Ora proverò a imitare Bernard che farfuglia in latino».
«Sono parole bianche, – disse Susan, – come i sassi che si raccolgono a riva».
«Scodinzolano a destra e a sinistra mentre le dico, – disse Bernard. – Scuotono la coda; attraversano l’aria a greggi, vanno ora qui, ora là, ora tutte insieme, ora divise, ora di nuovo insieme».
«Sono parole gialle, sono parole infocate, – disse Jinny. – Mi piacerebbe un vestito colore del fuoco, un vestito giallo, giallo arancio, da indossare la sera».
«I tempi verbali, – disse Neville, – hanno tutti un diverso significato. A questo mondo c’è ordine; ci sono distinzioni; ci sono differenze a questo mondo, sull’orlo del quale cammino. Questo è solo l’inizio».
«Ora la signorina Hudson, – disse Rhoda, – ha chiuso il libro. Comincia il terrore. Ora col pezzo di gesso disegna sulla lavagna dei numeri, SEI, SETTE, OTTO, e poi una croce e poi una linea. Qual è la risposta? Gli altri guardano: guardano come se capissero. Louis scrive; Susan scrive; Jinny scrive; anche Bernard ha cominciato a scrivere. Ma io non so che cosa scrivere. Vedo soltanto dei numeri. Gli altri consegnano le risposte, uno ad uno. Ora tocca a me. Ma non so che cosa rispondere. Gli altri possono uscire. Sbattono la porta. La signorina Hudson esce. Sono rimasta da sola a cercare una risposta. I numeri non significano nulla, ora. Il significato non c’è piú. L’orologio batte. Le lancette sono convogli che marciano nel deserto. Le tacche nere sul quadrante sono oasi di verde. La lancetta piú lunga marcia avanti in cerca dell’acqua. L’altra con fatica arranca tra le pietre arroventate del deserto. Morirà nel deserto. La porta della cucina sbatte. Cani selvaggi abbaiano in lontananza. Guarda, col tempo l’occhiello del numero comincia a riempirsi; contiene in sé il mondo. Comincio a scrivere il numero e il mondo si inscrive in esso, e io ne rimango fuori; ora lo chiudo – cosí – lo sigillo, lo faccio intero. Il mondo è intero, e io fuori, che grido: “Salvatemi, non fate che io sia risucchiata per sempre fuori dall’anello del tempo!”»
«Rhoda seduta in classe contempla la lavagna, – disse Louis, – mentre noi vaghiamo tra i campi, cogliendo ora del timo, strappando ora una foglia di assenzio, mentre Bernard ci racconta una storia. Le scapole le si congiungono sulla schiena come fossero le ali di una minuscola farfalla. E mentre guarda i numeri di gesso la sua mente prende dimora in quei cerchi bianchi, poi da quei bia...