La barca fece scalo innanzitutto a Fuzhou. I malviventi avevano l’abitudine di radunare a Fuzhou e ad Amoy gli uomini e le donne acquistati a Tianjin, Qingdao, Shanghai, Ningbo e Hangzhou, per rivenderli poi come coolie o come prostitute. Da Fuzhou la merce umana veniva spedita all’isola di Formosa e a Luzon; da Amoy, piú al sud, veniva inviata a Batavia e a Singapore.
Chong sbarcò di notte con il resto del «carico». Gli uomini vennero portati da una parte, le donne da un’altra, in una locanda a buon mercato, molto piú grande di quelle di Suzhou e Hangzhou.
Fin dal loro arrivo le donne furono accerchiate da villani che imposero loro di spogliarsi cosí, su due piedi. Le piú esitanti si guadagnarono una scarica di colpi di bambú: le loro braccia e le loro schiene si imperlarono di gocce di sangue. Quelle che avevano subito un’iniziazione destinata a liberarle dal pudore, invece, obbedirono con meno reticenze. Gli acquirenti verificavano meticolosamente, prima di accettare la merce, che non vi fossero difetti nascosti. Si assicuravano che le donne messe in vendita, a cominciare dalle piú vecchie, non fossero malate, e che avessero braccia e gambe robuste. Spalancavano loro la bocca per appurare che i denti fossero sani. Dopo questo esame, ognuna riceveva un vestito tradizionale cinese – un qipao nero o blu scuro – e veniva obbligata a rinunciare a qualsiasi altro abito e agli effetti personali.
Le donne – circa un centinaio – vennero assembrate in un casermone di mattoni. Chong si ritrovò in una delle numerose stanze disposte lungo un corridoio: era abbastanza spaziosa da accogliere almeno una decina di persone. Davanti alla finestra, una lanterna diffondeva un pallido chiarore. La cena – una ciotola di riso avvolta da una foglia di bambú e accompagnata da verdure in salamoia – fu portata in un mastello. Chong fece la coda per avere la sua porzione. Mangiò lentamente, seduta con la faccia al muro. Il riso non era compatto, i chicchi si staccavano, e Chong recuperò quelli che cadevano nell’incavo del palmo; poi avvicinò le mani alla bocca e leccò ciò che rimaneva. Masticò le verdure a lungo, finché non ebbero perduto ogni sapore. Qualcuno nella camerata piangeva, ma Chong aveva gli occhi asciutti.
Tutte le donne disponevano di un guanciale di legno per dormire. Benché si trovassero in una zona a sud, l’aria era fresca, e tutte tremavano nei qipao troppo leggeri. Per un po’ la vicina di Chong non seppe se cedere alla tentazione; alla fine, però, le si attaccò addosso.
– Ho troppo freddo, – mormorò.
– Teniamoci strette, – disse Chong. – Staremo meglio.
La ragazza si rannicchiò tra le sue braccia come una bambina. Mormorò:
– E poi ho cosí paura…
– Come ti chiami?
– Lingling.
– Io sono Chong.
Era tanto tempo che non pronunciava e non sentiva il suo nome. Lingling le ricordava se stessa quando era ancora una ragazzina impaurita. Chong posò le mani sulla spalla scheletrica della giovane. Le lacrime le rigavano le guance.
– Cheng? Jiong? – chiese Lingling. – È difficile da pronunciare, il tuo nome.
Chong si asciugò velocemente le guance e fece un respiro profondo per scacciare la nostalgia:
– È il mio nome d’infanzia, me l’ha dato mio padre… Vengo dall’est. Qui mi chiamano Lianhua.
– Io sono di un piccolissimo villaggio dello Shanxi. Mia madre non sa neanche cosa mi sia successo. Ho seguito una persona che mi aveva proposto un lavoro come domestica a Ningbo. Siamo tanti nella mia famiglia. Non volevo essere un peso per mia madre.
Lingling, che aveva trovato qualcuno con cui parlare, scoppiò in singhiozzi. Chong la scosse dolcemente:
– Basta, non piangere. Hai visto i ragazzi? Li vendono come coolie! Da noi cosa si possono aspettare? Non è cosí drammatico. Vedrai, non c’è niente da temere. E, anche se finiremo all’inferno, ne usciremo, te lo prometto. Dopo i gironi dell’inferno, ne sono certa, c’è un giardino di fiori.
– Ma io ho paura… degli uomini, – disse Lingling con una voce flebile.
Chong rispose come se si stesse rivolgendo a se stessa:
– Questi qui pensano solo al loro arnese. Ma anche loro hanno paura. Io lo so. Ho lavorato come hwajia in una casa di piacere e lo so come sono gli uomini! Non immagini neanche quanta paura abbiano quando si rendono conto che non ce la fanno! Quando sono tra di loro si comportano da sbruffoni; ma non appena si ritrovano a faccia a faccia con noi, diventano piccoli piccoli.
Chong capí, dal respiro regolare, che Lingling si era addormentata; ma continuò a parlare contemplando il volto lievemente illuminato della compagna:
– Sono tutti nati da una donna. A che pro mettersi a discutere della loro presunta superiorità? Li avrò ai miei piedi, lo giuro! Me la caverò!
Durante i pochi giorni che Chong trascorse nell’edificio dei trafficanti, vi furono nuovi arrivi e alcune partenze, perché di tanto in tanto si presentavano gli acquirenti. Certi cerberi li accompagnavano nelle sale dov’erano esposte le ragazze. Gli acquirenti le passavano in rassegna, poi mostravano a dito quelle che avevano scelto. Nell’aspetto erano molto diversi tra loro: alcuni avevano un turbante sulla testa, altri erano neri di pelle, altri ancora, originari dei paesi del Sud, indossavano una specie di gonna pantalone; capitava, ma molto di rado, che venissero interpreti vestiti all’europea, impiegati sulle navi occidentali.
Un giorno si presentò un uomo conciato in modo bizzarro. Era pettinato alla maniera cinese, indossava una camicia cinese, ma somigliava a uno di quei missionari venuti dall’Occidente per diffondere la religione cattolica. Che non fosse veramente un occidentale, lo si capiva guardandolo da vicino. Ma parlava proprio come un cinese. Gettò sulle donne in fila uno sguardo penetrante.
Puntò l’indice verso Chong:
– Tu, di qua!
Lei avanzò con passo deciso. Poi fece, girandosi:
– Lingling, tu verrai con me!
Intervenne il mediatore, che aveva già aperto la porta:
– Abbiamo chiamato te, te e nessun’altra!
Chong alzò il tono di voce:
– È mia sorella, dobbiamo guadagnarci da vivere insieme.
Il finto occidentale le si avvicinò:
– Come ti chiami?
– Mi chiamano Lianhua.
L’altro fece un sorriso beffardo:
– Hai detto che vuoi guadagnare del denaro?
– Certo! Possiedo solo questo qipao, ho assolutamente bisogno di guadagnare.
Chong, che si era intrecciata i capelli, aveva parlato con sicurezza, a testa alta.
– Allora, chi è tua sorella? – domandò l’acquirente.
– È lei… – disse indicando Lingling. – La piú fragile di tutte.
– Sembra molto giovane… Pazienza, dài, vieni anche tu!
Dodici donne furono scelte e condotte nella grande stanza dove Chong era finita il primo giorno. Il trafficante teneva le mani giunte dietro la schiena, mentre alcuni zotici disponevano le ragazze in due file.
– Nude! – ordinò uno di loro.
Si sfilarono i qipao dalla testa, come se si stessero sbarazzando della propria pelle. L’uomo si avvicinò per esaminarle. Ispezionò quelle della prima fila, di fronte, di spalle; poi passò a quelle della seconda. Dopo aver ordinato loro di rivestirsi, si sedette davanti a un tavolo per annotare su un registro nomi, età e paese d’origine. Arrivò il turno di Chong:
– Ti chiami?
– Lianhua.
– Età?
Ebbe un’esitazione:
– Vent’anni.
– Da dove vieni?
– Da Kaoli.
– Dov’è?
– È un paese a est.
– Straniero?
– Sí. Lavoravo in una casa di piacere di Jinjiang.
L’uomo alzò gli occhi verso di lei:
– Allora sarai stata portata qui durante l’attacco.
– Esatto. Ero una hwajia.
Lui annuí, accarezzandosi la barba.
– Bene, allora sarai di nuovo una hwajia.
Su dodici selezionate due furono rifiutate, una per la magrezza, l’altra per l’alito cattivo, che probabilmente dipendeva dai denti cariati.
Sotto l’occhio attento dell’acquirente, il trafficante appose sul braccio di ogni ragazza un marchio grande come una mano. In un’altra epoca si tatuava il titolo di proprietà sulla pelle delle ragazze vendute dopo aver verificato che i loro piedi fossero fasciati ma, non appena le ragazze cambiavano posto di lavoro, si ferivano per cancellare il marchio. Ecco perché era stata messa fine alla pratica del tatuaggio. I protettori non ci guadagnavano nulla ad avere ragazze sfregiate. L’uso dei tatuaggi, tuttavia, era tornato di nuovo in voga tra le prostitute navigate, quelle che attiravano molti clienti; ma erano loro a volerseli fare, per distinguersi dalle altre. Quanto alle donne con i piedi fasciati, agli occhi dei cinesi appartenevano a famiglie rispettabili. Ma all’estero, nei porti e tra le moltitudini cosmopolite, i piedi minuscoli e claudicanti, rinchiusi in scarpe piccolissime, suscitavano un certo disgusto. La gente la considerava una pratica barbara, da disprezzare.
Il finto occidentale si avvicinò a Chong e le disse a bassa voce:
– Partiamo presto domattina. Appena sentirai la campana della Grande Porta, sveglia le altre, verifica che ci siano tutte, e in marcia!
– D’accordo, Signore, – rispose Chong con la stessa discrezione.
Quando l’uomo se ne fu andato, i cerberi raggrupparono le ragazze che erano appena state oggetto della transazione nella stanza adiacente all’ingresso.
– Sorella maggiore, sorella maggiore...
Chong sbatté le palpebre, girò la testa a sinistra e a destra. Lingling la guardava con occhi pieni d’ansia. Era zuppa di sudore. Nello stesso istante suonò la campana della Grande Porta.
– Hai avuto un incubo?
– Forse perché non sono ancora diventata grande…
Chong si rese conto che era ora di andare. La campana smise di suonare dopo tre rintocchi. Lei si stirò energicamente, poi chiamò le altre. Colpí la porta per svegliare il trafficante, in fondo al corridoio, che sarebbe dovuto montare di guardia. Le ragazze si lavarono il viso e, dopo essere andate in bagno, si sedettero disponendosi in due file. Anche se il sole non era ancora sorto, l’uomo dall’aspetto occidentale andò a verificare il marchio di inchiostro nero apposto il giorno prima sul braccio delle ragazze. Alla fine il gruppo lasciò la locanda. Dal porto avvolto nella bruma si sentiva soffiare un vento di mare carico di sale e iodio. Le ragazze salirono su un carro. I sonagli dei muli da tiro cominciarono a scampanellare. L’acquirente camminava accanto al carretto con altri due uomini.
Anche quella volta la barca era una grande giunca a tre vele. E, come nel viaggio precedente, le ragazze dovettero sottoporsi a un controllo prima di salire a bordo. Le fecero scendere in fondo alla stiva. Un marinaio comparve sulla scaletta:
– Chi è la hwajia qui?
Chong fece un passo avanti. Il marinaio le ordinò:
– Sali con altre due ragazze!
– Perché?
L’uomo, che era a torso nudo e aveva un asciugamano di cotone intorno al collo, rispose:
– Bisogna venire a prendere il riso.
Chong fece segno a Lingling e a una ragazza alta, la cui testa spuntava da dietro. Tutte e tre seguirono il tizio, che le condusse nella cambusa al centro del ponte. Alcuni marinai stavano mangiando. Anche l’uomo con la barba era lí, seduto in mezzo agli altri. Disse con un tono burbero allo sguattero:
– Nutrile bene, ne avranno passate di tutti i colori, poverette…
Il cuoco aveva i capelli sale e pepe, e il berretto zuppo di sudore. Riempí un paniere intero di riso, poi mise verdure e pesce su un vassoio. Su un altro impilò alcune ciotole e poggiò una manciata di bacchette.
– Scendi con loro, – disse al marinaio, – per portare la gamella della zuppa.
L’uomo con la barba, che ormai era il proprietario di Chong, intervenne:
– Eh sí, al mattino ci si sente meglio dopo una bella zuppa!
Le tre ragazze presero il paniere e i vassoi, mentre il marinaio si caricava la gamella. Chong allora gli chiese:
– Sentite… Questa barca, dov’è che sta andando?
– Andiamo a Keelung, a Formosa. Poi a Tamsui e a Tainan, fine del viaggio.
Il marinaio aggiunse guardando Chong:
– Voi scenderete a Keelung.
– Formosa è vicino a Canton? – chiese.
– Oh, no, è un’isola lontana dal continente! Ci sono pochissime donne lí. Solo uomini, dappertutto… Guadagnerete un sacco di soldi!
L’uomo salí di nuovo sul ponte. I marinai sembravano gentili, erano cosí diversi dai trafficanti! Anche l’acquirente ...