
- 248 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Quell'anno a scuola
Informazioni su questo libro
È il 1960, JFK è appena stato eletto, ma alla Hill School la notizia è la visita di Hemingway: il grande scrittore consegnerà il premio letterario della scuola al miglior racconto. Uno degli studenti, il piú povero e complessato, pensa di scrivere la storia che gli darà fama e riconoscimento sociale. Ma la sua opera viene smascherata come il puro plagio di un racconto altrui. Esplode lo scandalo e il ragazzo viene cacciato dalla scuola. Raccontata vent'anni piú tardi, dal ragazzo stesso, diventato scrittore affermato, questa storia tormentata si staglia nella mente del lettore come il congedo nostalgico dall'ultimo istante dorato che precede la fine dell'innocenza.
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Informazioni
Print ISBN
9788806176662eBook ISBN
9788858409497Talora, venuto in odio alla Fortuna
Una mattina, mentre uscivo dal refettorio, il professor Ramsey mi prese per il gomito e mi chiese se poteva parlarmi. Mi guidò verso il giardino del preside, lontano dal flusso di ragazzi che tornavano in stanza o ai loro lavoretti. Mentre camminavamo, continuò a stringermi in quello che presi a considerare come un modo inglese di dar confidenza, perciò chinai il capo per sembrare compreso nella parte. Mi sconcertava il fatto di essere stato pescato cosÃ. Sebbene fossi andato bene alle lezioni del professor Ramsey l’anno prima, io avevo mantenuto le distanze e lui anche.
Non hai sprecato il tempo che hai passato qui, disse.
Sapevo che il professor Ramsey aveva fatto parte della commissione del Cassidy Prize, quindi pensavo che si riferisse al mio saggio su Shakespeare, ma quando lo ringraziai lui sembrò contrariato e respinse il ringraziamento con un gesto.
Non siamo qui per parlare di saggistica, disse. Si può immaginare un mondo senza saggistica. Sarebbe un po’ piú povero, certo, come un mondo senza… senza gli scacchi, ma ci si potrebbe vivere. Il professor Ramsey mi lasciò il gomito e si fermò accanto al muretto di pietra che correva intorno al giardino. Uno smilzo scoiattolo nero con ciuffi di pelo che gli spuntavano dalle orecchie si arrampicò su per il muro e cominciò a schiamazzarci contro.
I racconti, però. Non si potrebbe vivere in un mondo senza racconti.
No. No, signore.
Senza racconti si capirebbe a malapena in quale mondo si sta. Ma non so dirlo bene. Il professor Ramsey guardava fisso il giardino. Ha a che fare con l’autocoscienza, disse. Non sono credente, ma trovo interessante che si associ l’autocoscienza alla Caduta. Nudità e vergogna. Conoscenza di noi stessi come una cosa a sé, e obbligata a morire. Esilio. Parliamo dell’autocoscienza come di un peso, di un problema, ed è cosÃ. Perché il problema è come usarla per uscire dall’esilio. E invece tendiamo a perderci in lontananza, non credi?
Lo scoiattolo venne a una trentina di centimetri da noi e si sollevò sulle zampe posteriori. Era ovvio che si aspettava qualcosa da mangiare. Dovevano avergli portato degli avanzi di nascosto, probabilmente un ragazzino che aveva nostalgia di casa e del suo cane.
’Sto scoiattolo ci guarda come se stesse per saltarci addosso, dissi.
Persi in lontananza, ripeté il professor Ramsey. È straordinario che non abbaiamo tutti quanti. E lo faremmo di sicuro, se non avessimo modo di usare l’autocoscienza contro se stessa, o meglio contro le sue peggiori inclinazioni. Morbosità , narcisismo, paranoia, grandiosità , tutto questo. Dobbiamo guadagnarci sopra, in un modo o nell’altro. Che è esattamente quello che fa il tuo racconto, devo dire. Ballo estivo. Un racconto meraviglioso! Pura magia. No, no, non magia. Alchimia. Le scorie dell’autocoscienza trasformate nell’oro della consapevolezza di sé. Basta. Ti sto mettendo in imbarazzo, capisco. Ma devo dirti, per me se non per te, che si tratta di un esempio di scrittura eccellente.
Ringraziai il professor Ramsey per le sue parole gentili e gli domandai come mai avesse letto il mio racconto. Ne avevo messa l’unica copia nella cassetta per i testi in concorso, e presumevo che di là fosse stata inoltrata in Idaho insieme alle altre.
Ho scelto i racconti finalisti, disse. Sul serio, aggiunse vedendo la mia sorpresa. Adesso mica crederai che avremmo mandato al signor Ernest Hemingway ogni racconto che voi pischelli avete tirato fuori, vero? Tutti e trentaquattro? Oh no. Ho scremato i migliori tre e glieli ho spediti, anche se sapevo che era una pura formalità dopo aver letto la prima pagina di Ballo estivo. E avevo ragione, no?
Signore?
Ernest Hemingway ha scelto il tuo racconto. Non sono credente, davvero, ma credo fermamente nell’esistenza di quelli che non saprei definire se non doni: doni senza donatore, se vuoi, ma in ogni caso doni. Qualcosa che non si può guadagnare o meritare. Ricompense in cambio di niente. Uno scandalo per i virtuosi e i laboriosi, eppure eccoti qua. E devo ammettere che sono un po’ invidioso.
Ernest Hemingway ha scelto il mio racconto?
Ti chiediamo di non dire niente fino a domani, quando esce il giornale scolastico. Non volevamo che la notizia ti piovesse addosso cosÃ, all’improvviso. Volevamo darti la possibilità di riprendere fiato, e naturalmente farti le nostre personali congratulazioni. Il tuo racconto esce insieme alla mia intervista.
Ero felice per il giorno di grazia che mi era stato dato. Quel pomeriggio, dopo l’ultima lezione tagliai la corda, attraversai il fiume e bighellonai per i campi arati di fresco fino alla piú alta delle colline nei dintorni. La chiamavamo Mount Winston, ed era stata un covo di fumatori quando avevo combattuto tra le fila degli incorreggibili; e lo era ancora, a giudicare da tutti i mozziconi che marcivano tra le pieghe e le fessure di argilla lucida.
Camminai fino in cima, esausto ma troppo nervoso per sedermi. A lezione, il sangue che mi pulsava in testa mi aveva reso praticamente sordo. Piú che altro era sollievo, un esplosivo sollievo, ed euforia, ma con una sotterranea, battente pulsazione di paura. Un conto era confidare la propria vita segreta a un pezzo di carta in una stanza vuota, un altro – o quasi – vederla sparsa ai quattro venti.
In vetta alla collina soffiava un vento tiepido, e portava le grida indistinte dei ragazzi che rincorrevano le palle. I prati e i campi della scuola erano di un verde lussureggiante e irreale, rispetto alla distesa marrone e fangosa dei terreni coltivati che li circondavano. Tra le rive boscose del fiume, due barche monoposto gareggiavano controcorrente, e i remi guizzavano. La cappella, con il suo alto campanile merlato e la sua bandiera colorata, sembrava l’incisione di un libro per bambini. Da quell’altezza si riusciva a comprendere il sogno da cui era nata la scuola: non la mera invidia per gli inglesi, ma la smania di un mondo cavalleresco, lontano dagli scandali e dalle liti di bassa lega, dai trambusti e dagli schemi della stessa modernità . Non appena riconobbi quel sogno ne avvertii anche la futilità , ma allora? Non amavo la mia scuola di meno perché era cortesemente al di sotto delle nostre brame; al limite l’amavo di piú. Mancava ancora un mese al diploma ed ero già gonfio di nostalgia. Mi stesi su un lastrone di roccia. Il sole in faccia e il calore che mi si irradiava lungo la schiena mi cullarono fino a farmi addormentare. Quando il vento si fece piú freddo, mi svegliai con una fame da lupi e cominciai a tornare indietro.
Il giornale scolastico usciva due volte al mese. Lo lasciavano all’ingresso del refettorio, in modo che potessimo prenderlo mentre andavamo a fare colazione, e quelle mattine ci era permesso leggere a tavola: i volti oscurati dai lembi aperti del «News» (questo era il semplice nome), oppure curvi sulle pagine accuratamente ripiegate accanto a piatti stracolmi che i piú sapevano vuotare senza uno sguardo, forse grazie al lungo studio dei padri pendolari. Il pensiero di starmene seduto là mentre tutti leggevano il mio racconto mi dava i brividi, ma dovevo andare. Dovevo vedere che cosa pensava Ernest Hemingway del mio lavoro.
I suoni della cucina e il tintinnio delle stoviglie sottolineava il silenzio del refettorio. I ragazzi alzavano lo sguardo dai giornali per guardarmi con la coda dell’occhio. Non riuscii a mangiare, ma mi versai un caffè e stesi la prima pagina sul piatto vuoto. L’incipit di Ballo estivo occupava tre colonne sulla sinistra e continuava all’interno; la quarta e ultima colonna conteneva l’intervista telefonica con Hemingway ed era sormontata dalla caricatura fatta dal professore di arte. Il professor Ramsey aveva tolto le sue domande, cosà quello di Hemingway sembrava un monologo.
Può dire al suo ragazzo che è un ottimo lavoro. Molto buono, nel complesso. Conosce le cose che scrive, piú di quanto non dica, e questo è un bene. È sempre un bene. Scrive con precisione e abilità le cose che conosce, scrive dalla sua coscienza; il che alza sempre la posta in gioco. Questa è la storia di una coscienza, e una storia del genere, se è onesta, offre sempre a un’altra coscienza qualcosa da imparare, anche a una carcassa come la mia. Quelli che abbiamo in questa storia sono veri esseri umani, cioè veri sulla pagina, anche se penso che siano veri in altri modi. Se è cosÃ, non lo perdoneranno mai. Glielo posso promettere. Se il suo ragazzo avesse chiesto a me, gli avrei detto di aspettare che fossero morti tutti.
Se sto scherzando? Certo. Sicuro. Le storie che devi scrivere ti faranno sempre trovare qualcuno che odia il tuo coraggio. Se non succede, stai solo sfornando parole.
Un consiglio… di non accettare consigli, io non l’ho mai fatto. E di non montarsi la testa. Gli scrittori sono come tutti gli altri, al limite sono peggio. Ha riscritto quaranta volte il racconto? Potrebbe cestinare qualcosa, anch’io ho cestinato parecchio. Il ragazzo conosce le cose che scrive, e questo è un bene. Adesso dovrebbe uscire e scoprire qualcos’altro su cui lavorare.
Però non parlo di guerra, non nel modo in cui probabilmente crede lei. In guerra non si va da turisti. La guerra uccide e i morti non scrivono libri. Lo stesso vale per la caccia. Idem la bottiglia. Prenda Joyce. Un originale. Incatenato alla scrivania. Gli piaceva leggere quel che scriveva ad alta voce. Aveva una bella voce tenorile. Cieco come una talpa. Lo sa cosa mi disse sua moglie? Disse che avrebbe dovuto andare a caccia di leoni, che sarebbe stato un bene per il suo lavoro e che io avrei dovuto portarlo a caccia di leoni. Riesce a immaginarselo? James Joyce a caccia di leoni, con quegli occhi? Forse avrei dovuto farlo, a ripensarci.
Occhio alla bottiglia. La bottiglia uccide piú scrittori della guerra, è che ci mette piú tempo. Se ci si oppone al grande assassino è meglio essere arcisicuri di poter vincere. Alcuni di noi possono, altri no. Scott era senza speranza, povero idiota […]. Aveva una bocca da ragazza. Tra il rum, quella bella bocca e sua moglie era senza speranza. Ma non scriveva da ubriaco, come Bill Faulkner. Con Bill Faulkner si riesce a dire, nel bel mezzo di una frase, dov’è l’alcol a parlare. Una volta mi ha dato del vigliacco. Del vigliacco. Avrei dovuto fargli chiarire un paio di cosette da Buck Lanham1.
Occhio alla bottiglia. E che non dia retta a quello che i […] dicono di lui. Su di me hanno detto di tutto. Chi se ne frega. Moriranno, e allora saranno tutti morti.
Che altro? Non deve parlare di quello che scrive. Se si parla di quello che si scrive, si tocca qualcosa che non si dovrebbe toccare e che cosà va in mille pezzi, e si resta senza niente. Deve alzarsi all’alba e lavorare come un pazzo. Lasciar dormire sua moglie fino a tardi, piú avanti sarà ripagato. Controllare la pressione. Leggere. Leggere James Joyce e Bill Faulkner e Isak Dinesen, gran bella scrittice. Leggere Scott Fitzgerald. Tenersi stretti gli amici. Deve lavorare come un pazzo e fare abbastanza soldi per andarsene in qualche Paese dove i […] federali non possano beccarlo.
Ho detto tenersi stretti gli amici? Deve tenersi gli amici, tenersi stretti gli amici. Non perdere gli amici.
Boh. Penso sia tutto. Questo è il sermone, per oggi.
Ancora una settimana e avrei incontrato Ernest Hemingway, e passeggiato con lui nel giardino del preside. Aveva scelto il mio racconto e ne aveva fatto una menzione speciale perché tutti lo leggessero. Non avevo scuse per provare qualcosa di diverso dalla gioia. Lo sapevo, certo, ma cosa avevano a che fare col mio racconto la sua pressione o la moglie di James Joyce o la bella bocca di Fitzgerald o il dormire fino a tardi o l’alzarsi presto? Non volevo i consigli di Ernest Hemingway, volevo la sua attenzione.
SÃ, aveva detto che il mio era un ottimo lavoro, ma quel nel complesso annullava quasi il complimento. Quando diceva che conoscevo le cose che scrivevo andava bene, era vero; e allora perché aveva dovuto guastare tutto con la storia che conoscevo qualcos’altro? Quel racconto aveva bisogno che io conoscessi qualcos’altro? E cosa avrei dovuto cestinare, esattamente? Mi avrebbe fatto piacere un esempio, se davvero riusciva a trovarne uno.
La parte migliore era quella sul fatto che Ballo estivo era una storia di coscienza che offriva ad altre coscienze qualcosa da imparare. Ma perché non fare un ovvio passo in piú e parlare del coraggio richiesto da una storia del genere? Aveva scritto Il ritorno del soldato e La fine di qualcosa: sapeva, doveva sapere che cosa si provava a esporsi in quel modo per un racconto, per renderlo vivo e vero. Perché non l’aveva detto?
La risposta mi venne in mente quando considerai che s...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Quell'anno a scuola
- Foto di classe
- Al fuoco
- Frost
- Übermensch
- Quadro di vita vissuta
- La lingua biforcuta
- Talora, venuto in odio alla Fortuna
- Questa è da raccontare
- Bollettino
- Professore
- Nota del traduttore
- Il libro
- L’autore
- Dello stesso autore
- Copyright