L'estraneo
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L'estraneo

  1. 156 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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L'estraneo

Informazioni su questo libro

L'estraneo è un mezzosangue. È figlio della Roma di periferia ma non ci è nato, è cresciuto nella Roma bene senza mai sentirsi accolto.
Quando finisce la sua storia con Alba, il giovane guarda in faccia la propria estraneità e decide di azzerare tutto, e ricominciare. Nella «Roma di Quaresima», estrema periferia. Affitta una stanza nell'appartamento occupato di Andrea, suo coetaneo, che si fa le maschere di bellezza e di sé non racconta nulla, a parte il sogno di avere una Ferrari.
Palazzina G di un comprensorio affacciato sul Viale. Qui, in un territorio per il quale ha il passaporto ma del quale non conosce la lingua, l'estraneo prova disarmato e maldestro a «dare del tu alla vita». Tra maniaci del body-building e riti d'iniziazione in gloria al consumismo, tra pellegrinaggi per il Lupo Liboni e guardie devote allo Stato, incontra Marianna. E se ne innamora perché ha bisogno del suo sguardo, per vedersi. Per cercare ostinatamente un'identità. Un ragazzo di oggi, allevato dalla Roma bene ma partorito dalla borgata. Quando la città «delle Rovine» lo rigetta come un corpo estraneo, decide di immergersi nell'estrema periferia, di provare a impararne il ritmo. Ma se è proprio questa la Roma che suo padre gli ha inscritto nel Dna, e da cui voleva affrancarlo col suo impiego da portinaio in centro, non è detto che osservare la città da questa nuova angolazione ribalti la prospettiva. E salvi dal fallimento. Nella grande tradizione letteraria che indaga il rapporto mai risolto tra periferia e centro, Tommaso Giagni aggiunge la sua personalissima voce. Una lingua contaminata e piena d'invenzione, che raccontando le periferie degli anni Zero, disadorne e vivissime, rivela lo spaesamento di un uomo senza appartenenza.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2012
Print ISBN
9788806207977
eBook ISBN
9788858405932

Parte terza

Sono passato come uno straniero in mezzo a loro, ma nessuno ha capito che lo ero.

FERNANDO PESSOA, Il libro dell’inquietudine.

8.

Tutta una vita a pochi passi di distanza, eppure ho dovuta trovarla qua Marianna – lampo nella Roma di Quaresima, diluvio sulla città intera per la meraviglia che è. Una principessa che vuole spogliarsi dell’eredità per restare con la sola curiosità indosso: nessuna è piú adatta a me in questo momento. Io e lei abbiamo fatto il salto, abbiamo lasciato sul serio la Roma delle Rovine, e con lo stesso bisogno ci mettiamo ora – curiosi, affascinati, disperati – a tastare i lineamenti dell’altra faccia della città.
Il conflitto che la macera fa precipitare il mio cuore. Gli zigomi sono spigolosi e gli occhi affilati, ma a scendere per le curve di capelli sorprendentemente lunghi si scoprono golose rotondità. È contrasto, come i quadri di Corot: mare che sembra quieto e sotto prepara la burrasca, colori freddi che subito s’accendono se litigano con la luce. Nella pancia del suo italiano limpido s’intuisce a tratti il romanaccio violento, che là ribolle e resta solo potenza: Marianna è incapace di sporcarsi le parole – nessuno le ha mai insegnato.
Mi vede come uno di qua: come se m’avessero strappato da questi posti e poi cresciuto altrove a tradimento: «Sei una bestia rimasta selvatica dopo anni di cattività», dice sicura. La mia storia mi convince di piú quando l’ascolto dalla sua voce. Me la sono ritrovata fra le braccia, stufa della Roma delle Rovine; io sono una mano tesa, per scacciare la paura dei metri che deve fare in volo.
In un mese appena mi sono disintossicato da tanto rancore, se già sono capace di perdere la testa per una di quella nascita e di quelle amicizie. Il rifiuto di Marianna per quell’identità e quella Roma è un rifiuto definitivo – i suoi ragionamenti sono quadrati, inattaccabili, logica pura («Dopo Brando, ogni passo che faccio mi sembra un passo dentro un labirinto»). Il Sabato del Fuoco, il secondo casuale incontro a Parco Leonardo, il bacio, il sesso: come non m’ha dato respiro nella nostra storia, con la stessa foga ha fatto evaporare il fantasma di Alba e mi ha fatto trovare qualcuno nel vuoto delle appartenenze.
Abbiamo annusato nello stesso periodo questa città piú o meno sconosciuta: a luglio e agosto, io mi accordavo con Andrea ed entravo nel Quartiere, mentre lei in vacanza incontrava Brando («Faceva lavoretti di fatica in una colonia per bambini down») e poi cominciava con le scorribande in Jaguar per le periferie romane. Trovarsi addosso a un coatto di Corviale con un «fisico troppo muscoloso» e con «l’aria da figlio di puttana» ha dato il colpo di grazia al mondo che s’era creduta per ventun anni. Non importa ch’è finita là («A Roma non ci siamo mai visti: per carità, credo abbia anche un figlio»): Brando ha fatto in tempo a liberarla dalle ultime redini di pudore.
Marianna ha trascorso agosto in giro per i posti piú quaresimali di Roma, per fermarsi doveva sbattere sul Raccordo. Ieri, nella passeggiata al Quartaccio, m’ha detto: «Se non ti avessi incontrato, sarebbero state solo le gite fuoriporta di una fighetta annoiata dall’estate». Pure che non ho gli occhi color catrame di Brando e che non sono lo stereotipo del ragazzo di borgata, per fare il passo piú difficile – frequentare sul serio questi posti – ha voluto me. È bello anche andare a tentoni insieme: quando m’ha chiesto di portarla a vedere «le pipinare che ancora giocano a pallone in strada», ho cercato ma siamo finiti in un Bet&Win dove bambini d’otto nove anni puntavano sul calcio internazionale al banco delle scommesse.
Da casa sua o da Valle Giulia – dove studia – fa avanti e indietro di continuo: prende l’auto e sparisce, per ritornare magari la notte senza dare spiegazioni ai suoi. Marianna li sfotte, i suoi: ha un rancore appassionato, le interessa vedere come reagiscono alle sue provocazioni. La decisione che ha fatto viene da lí: «Mi immaginano in un modo, hanno già fatto gli schemini: invece voglio scegliere io».
Ha già lasciato perdere certe buone maniere: il 30 agosto ci siamo incrociati sulle scale mobili di Parco Leonardo e ci siamo riconosciuti: dagli sguardi durante il Sabato del Fuoco era trascorsa una settimana, la sera stessa ci baciavamo avvinghiati sui sedili dell’Xp, e il mercoledí 2 facevamo l’amore – io, per la prima volta senza Alba. Oggi è il 9 settembre e, senza ipocrisie e scongiuri, mi alzo al mattino dicendo che durerà.
La storia si è posata su di me come questi raggi affettuosi di settembre, e ne vivo ogni giorno come un regalo. L’ammetto che quel sabato – appena finita la cerimonia – mi sono arrischiato a rincorrerla perché ero tranquillo che non l’avrei piú incontrata in vita mia: per il Quartiere nauseante di bruciato, correvo per azzittirmi la coscienza (Vai al di là di Alba! Cerca un rapporto nuovo!) Mi fa rabbia che ancora agli ultimi dettagli del trasloco non vedevo che io e Alba avevamo preso una direzione urbana opposta, e piangevo contro il cuscino per non fare accorgere mio padre di là alla televisione. Marianna arriva a me da un Brando, uno che il vanto massimo era essersi scopato un’egiziana a Hurghada sotto Ramadan; a confronto Alba è la notte, o il giorno: la fuga infinita dai «bovini» della comitiva sotto casa, quelli che il progetto di vita è la sambuca a Don Bosco prima di andare a ballare. A ragionarci ora, Alba si è comportata bene: Leonardo tocca le corde giuste per lei – la letteratura e l’inquietudine da calmare – e a me ha risparmiato quegli strascichi di fine storia che si confidavano i miei compagni di scuola e che leggevo sui «Top Girl» di mia sorella.
Vado in camera di Andrea, ancora infreddato – l’umidità dalla marrana scavalca il muro e si sparge sul Viale – e ancora con l’odore dei baci appuntiti di Marianna. È la prima volta che azzardo di entrarci – l’unica camera che ha voluto tenere per sé. Mal illuminato dalla tv, se ne sta sdraiato con dei cubetti di ghiaccio in equilibrio sul petto e sulla fronte. Il letto ha le lenzuola sfatte, con sopra i disegni della Ferrari – non è un appassionato di motori in generale, ha proprio il mito del cavallino: lo infila nei discorsi anche quando non c’entra, e spesso agita la mano per traverso e fa: «Prima o poi, prima o poi…» perché è convinto che una Scaglietti riuscirà ad averla. Sprimacciato di sonno, acchiappa i cubetti semisciolti sul petto e mezzo alzandosi mi fa: – Che te serve? – Già deglutisco il coraggio di trattarlo come un amico: – No, niente, era solo una cosa –. Torna con la schiena adagiata al cuscino.
– Niente, che c’è una ragazza, – riesco.
– ’Mbe’?
– E be’, niente: mi piace, mi piace molto, non pensavo, e anche lei mi sembra…
– Se dicono tante cose, sembrano tante cose.
Rimango a guardare il muso della Ferrari sul cotone, mentre Andrea riprende tranquillo a massaggiarsi le palpebre con l’acqua sciolta dei cubetti.

9.

Sotto il confuso fogliame degli alberi neri, il serpeggiare liquido della Portuense mi dà la scusa per guidare piano. Andrea se ne sta a guardare la pioggia che non smette, come io da bambino non seguivo la strada quando mio padre prendeva l’auto e si andava al Circeo. Di mio padre è la colpa, se quest’ansia m’irrigidisce le braccia sul volante: colpa di tutte le scuse che m’ha buttato tra le ruote, per non farmi guidare quella bara di Lancia Delta sua. Il tizio dell’autonoleggio mi ha fissato qualche secondo in piú, quando al posto di guida sono andato io e non Andrea. Pure adesso, per esempio: dico qualcosa e fischietto e do un’occhiata intorno come se non mi servisse concentrazione, ma se all’improvviso Andrea iniziasse a osservare per bene la strada e il modo in cui guido, finirei sotto pressione e questa Portuense sconosciuta mi si rovescerebbe in un allucinato percorso a ostacoli.
Il vento frusta gli stralci di campi arati, che nel buio torbido illudono di campagna. Là, appresso al tizio che mi spiegava del parco auto e le condizioni del noleggio, mentre guardavo Andrea armeggiare col cellulare e per la prima volta ne capivo il perché, là c’è stato un momento in cui mi sono sentito adulto, all’altezza del mondo come chiunque altro. Mentre firmavo per tenere l’auto fino a giovedí – forse serve solo stanotte, ma non si sa mai che la cosa va bene e dobbiamo tornare a giorni – dentro di me giuravo che non avrei avuto problemi: neanche un tamponamento, per non dovermi scontrare pure in questa vita con l’indice teso di mio padre.
Ieri che Andrea mi ha chiesto di accompagnarlo e mi ha spiegato di non avere la patente, pensavo mi prendesse in giro: lui pare cosí grande e autonomo, e poi mi sono accorto che nel Quartiere non avere la macchina è davvero considerato infamante. Soprattutto ho pensato alla Ferrari, al mito: immagino che la voglia guidare, che il sogno vada oltre il libretto di circolazione a nome suo! Non me la sono sentita di chiedere, però magari s’è ripromesso di imparare e prendere la patente solo quando avrà messo insieme i soldi per la Scaglietti.
Le puttane nigeriane se ne stanno in mezzo a cespugli fradici, al riparo di piccoli ombrelli sgargianti. – Mo’ continui giú dritto, – mi fa Andrea, dopo la curva a gomito che ha portato la strada su un’altura. Da qui dominiamo, oltre fili di pioggia incessanti, un paesaggio di cantieri, che mal illuminano questa cintura indefinita dove la Roma suburbana discapita la campagna in rovina. Credo che la sua confessione di ieri e il mio sbattimento oggi per fargli questo favore, insomma credo che adesso con Andrea siamo piú vicini. Mi sento tranquillo già a chiedergli qualcosa: non ho piú paura di essere indiscreto, e se pure esagero so che lui me lo dice e finisce là.
Rallento sotto la pioggia piú intensa, mi fermo a un semaforo rosso in mezzo al niente. Andrea ha tirato fuori uno specchio tascabile e ci si guarda dentro. Gli faccio: – Qual è il problema, dài? Non sarà proprio «signora» come intendi tu, però ha una gioielleria… – e lui si passa un dito indolente lungo le sopracciglia.
– È ’na paesana, ci’: è ’na quarantenne incallita de Fiumicino. Però i soldi so’ gli stessi che quelle ar Fleming, quindi basta: nun me ce fa’ pensa’, ché se no come arivo ’a manno affancina e rivenimo ’ndietro.
L’auto scivola timorosamente nel centro abitato di Ponte Galeria, si stringe accanto al guardrail e prende la sopraelevata giusta – Andrea annuisce, intanto che maneggia lo specchio.
In realtà, una parte dei soldi se ne va tra la macchina e la benzina per Fiumicino andata e ritorno. All’autonoleggio avrei pagato io se non avessi visto Andrea cosí deciso col portafoglio in mano, avrei pagato volentieri pure che non sarebbe stato giusto e che i risparmi del bar corrono via piú svelti del previsto. Non si dà pace con le sopracciglia.
– Dài che stai bene, – gli dico.
– Bene, nun me c’hai visto: me so’ ridotto a Fiumicino, ci’: che «bene»?
Essersi abbassato a una commerciante di paese, lo vive come una tragedia: proprio per sfogarsi di questo ieri sera è arrivato a confessarmi della prostituzione («’Na gioiellara de Fiumicino. Te nun sai le contesse che c’ho in rubrica io, le case ch’ho visto!»), e non era un modo per impressionarmi e strapparmi il favore d’accompagnarlo. Neanche è la rogna di arrivare fuori Raccordo, nella desolazione della stagione turistica appena finita: «Che c’entra? ’Na volta una m’ha pijato ’n macchina co’ l’autista Ncc e m’ha portato sull’Aurelia a ’na costruzione abbandonata, – m’ha spiegato ieri, – un’ex torretta fortificata de quelle d’i nazisti pe’ controlla’ ’r territorio. Ma quella era ’a moglie de ’n ministro, mica ’na paesana». Sente che sta perdendo quota, il problema vero è questo: settimana dopo settimana, vede sbracarsi il progetto che s’è tirato su negli anni e che finora l’aveva portato sempre piú in alto («Cliente chiama cliente: se sei bravo, e io so’ bravo, diventa ’na catena»).
Ancora pochi mesi fa, Andrea si faceva i pellegrinaggi per le migliori concessionarie della città; a ogni Ferrari che vedeva erano «brividi forti!» Si sentiva a un passo dalla vittoria – la fine di tutti i sacrifici («In banca, me facevo fa’ ’l saldo del conto mio, e nun ce credevo») – e in effetti sarebbe stato cosí se il lavoro fosse continuato ad andare tanto bene. Oggi è costretto a spostarsi fuori dall’ambiente in cui si arricchisce da quattro anni. La Ferrari – il simbolo della rivincita, la buona ragione per tenersi alla larga dal Quartiere e fare buon viso preparando la fuga – la Ferrari Scaglietti è tornata a farsi sogno sotto il cristallo.
Andrea ha comunque scelto di tenersi lontano da certe cose: non si droga, non beve, in un certo senso lavora. E al contrario degli altri che si prostituiscono all’età sua, i soldi che guadagna non li sperpera; anzi, non li spende proprio: ha un sogno e la disciplina per arrivarci: senza un padre e di fatto senza una madre, in quanti ci riescono? («È la strada che me so’ scelto io. Mica dico che tutto ’r Quartiere deve fa’ cosí, però ’na strada qualunque la devi trova’»).
Oltrepassiamo una stazione di benzina deserta, dove i bocchettoni delle quattro pompe stanno sfilati a terra. Ho cercato di non sembrargli proprio un coglione sprovveduto, rispetto a certe dinamiche che secondo lui sono ovunque («È ’r motore de tutto, no? Pur’i ritardati ci arivano»). Gli ho lasciato intendere che tante cose erano scontate, perciò m’è rimasta nebulosa tutta la questione dell’abbordaggio delle clienti: non so dare un contorno a questa chat in cui si organizzano gli incontri, e non capisco come questo «passaparola» riesca a scardinare il decoro il pudore la vergogna. Ieri si sfogava, bruscamente muoveva la bocca sotto la maschera di bellezza ai mirtilli; appena stoglieva gli occhi dalla cucina e li puntava su di me, capivo che non c’era da chiedere dettagli. Dice: «So’ discreti cor cavolo, è tutta ’na finta: le signore là so’ piú pesciarole de’e pesciarole», e ci devo credere e ammettere che forse Andrea conosce la Roma delle Rovine meglio di me.
Comunque ho scoperto un sacco di cose quando – ieri sera – s’è messo sulla seggiola e mi ha parlato come si parla a un interlocutore sveglio, stimato forse: «Ho cominciato a diciott’anni, e ho fatto subito ’r botto: mettevo prezzi ch’erano bassi rispetto all’altri ragazzi già “der giro”, ma a ogni modo erano pazzeschi pe’ qualsiasi persona der Quartiere che nu’ spigneva le sostanze o ’n faceva ’r pappa». Ora qualche lampo violento rischiara una serie di cubi e parallelepipedi in muratura, alla nostra sinistra, e le ruspe che costruiscono dove ancora non è costruito. «Pe’ tre anni so’ stato ai massimi livelli; ché ’ntanto m’ero potuto alza’ ’r prezzo, e uguale me chiamavano da tutta Roma, m’ero fatto la nomea: Olgiata, Fleming, Monteverde, Parioli, Camilluccia. Te dico solo che l’anno scorso facevo cinquemila euro puliti ar mese». La crema intanto gli si assorbiva sul viso, il viola dei mirtilli scemava in bianco: «A ’n certo punto c’ho avuto ’na flessione, tutt’assieme: meno richieste, meno soldi; ’mbe’ allora ho riabbassato ’r prezzo, ho cominciato, che te posso di’, a lecca’ le patate co’ le mestrue e a fammelo mette’ de dietro coi piselli finti ma ’n è cambiato niente, e co’ l’inverno m’ha lasciato pure ’na cliente storica mia. A quel punto ho deciso d’affitta’ la stanza, e sei arrivato te».
L’urlo d’un tuono si disgrega tra le spianate che costeggiano la Portuense. Andrea si scuote dai pensieri, riprende a parlare: – So’ tornato ai prezzi de quand’ho cominciato, ho fatto veni’ ’e clienti in appartamento da me, che non l’avevo mai permesso, pe’ rispetto a mi’ madre. Mo’ me so’ ’mbarcato a fa’ quaranta chilometri pe’ tromba’ su ’na spiaggia fracica.
– Vedi che sarà solo un momen…
– Devo ’nventamme qualcosa, se ’r vento nun cambia.
– Ma dài che cambia.
– È ’n anno che dico che cambia, ci’: te nu’ lo sai, come te raspa ’a lingua sur sottocoscia de ’na vecchia.
Un colpo di vento schiocca cattivo come i panni bagnati arrotolati. Alla nostra destra comincia a sfilare il complesso di Parco Leonardo, trionfante nel verde notte che decora le balconate. Dalla schiera di lampioni, la luce sparata a terra sulle scritte gialle che segnalano deviazioni e lavori in corso; qualche centinaio di metri verso l’interno, c’è il centro commerciale e quindi le scale mobili dove ho rincontrato Marianna e quindi la dimostrazione che la bellezza può essere ovunque… do un colpo di sterzo, ché quasi sbatto contro un blocco di cemento – sopra c’era pure il freccione bianco-blu che obbliga a destra. Andrea mi guarda ruvido; poi volta di nuovo la testa verso gli edifici e la scritta gigantesca IMMOBILDREAM che si distingue anche sotto la pioggia. Gli dico: – Qua ci abita uno di palestra, – ancora smaltendo l’agitazione.
– Da qua, fino ar Quartiere viene, ’sto ritardato? – fa con la voce piatta.
– Mi sa che al Quartiere c’ha ancora i genitori, e quando viene ad allenarsi sfrutta il pretesto per andarli a trovare.
Andrea taglia corto: – So’ dei mentecatti, questi che nun sanno resta’ da soli, – mentre il circuito di arzigogoli finisce e posso riprendere il rettilineo della Portuense.
Non penso che dirò a Marianna d’aver scoperto il lavoro di Andrea, anche se lei non si impressionerebbe come me. Proprio in generale, con lei evito di parlare di Andrea e non ho voglia di farli incontrare, pure che lei è curiosa: «Vive insieme a te, – m’ha detto, – e poi è l’unico ad aver capito che sei piú figlio di puttana tu di tanti che sono nati e cresciuti là», mentre guardavamo il tramonto imbarazzare le distese di cielo oltre i Parcheggioni di Massimina. Almeno per questi primi tempi, voglio tenerli separati; è uno scrupolo, perché lui ha una bellezza troppo delicata per il gusto di Marianna e poi nemmeno la guarderebbe, con questa cosa della asessualità («Nun me frega niente de niente: p’avecce ’n erezione, devo pensa’ a quanti soldi me frutta quell’erezione»).
L’obiettivo della vita che fa non è solo la Ferrari Scaglietti; come non è soltanto la vergogna verso la madre quel turbamento per cui non vorrebbe portarsi le clienti a casa. Nello sfogo di ieri sera, a un certo punto Andrea me l’ha spiegato: «Pure che presempio ’na piscina ’nterna o ’na terrazza sur Colosseo me piacciono, quando sto là me vie’ ’na cosa de appartenenza, che ne so perché? Pe’ ditte: è capitato ch’a ’na cliente de via Margutta je venivo ’n faccia e je davo ’no schiaffo c’a mano sporca, e in quer momento dentro me so’ sentito propio der Quartiere, der Viale».
Pascoli e pascoli alla nostra sinistra erbeggiano e svaccampanacciano. Ha smesso di piovere, ma non riesco a capire come si fermano i tergicristalli. Andrea si esamina il maglioncino, cerca briciole peli riccioli di stoffa che gli indebolirebbero il contrasto del nero col grigio della camicia sotto. – Di solito vogliono che me vesto coi colori forti, me chiedono magari ’n bomber lucido oppure roba de pelle; comunque sia «elegante», come m’ha detto ’sta gioiellara, a Roma nun se po’ senti’: hai capito, come cambiano le cose? – Se l’abbigliamento è un segno di identità sociale, per Andrea questo discorso non funziona: perché lui in pubblico veste com...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. L'estraneo
  3. Copyright
  4. Parte prima
  5. Parte seconda
  6. Parte terza
  7. Parte quarta