Ho pensato che mio padre fosse Dio
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Ho pensato che mio padre fosse Dio

Storie dal cuore dell'America raccolte e riscritte da Paul Auster

  1. 344 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Ho pensato che mio padre fosse Dio

Storie dal cuore dell'America raccolte e riscritte da Paul Auster

Informazioni su questo libro

126 dispacci telegrafici, 126 cronache dal fronte dell'esperienza personale, 126 istantanee che riguardano gli universi privati dei singoli americani e l'indelebile marchio della Storia che segna ogni destino. Nel settembre del 1999 Paul Auster lanciò una sfida ai suoi ascoltatori della radio NPR: cercava storie vere, «capaci di sfidare le nostre aspettative sul mondo». Dalla risposta entusiasta del pubblico, di ogni età e latitudine d'America, è nato questo libro, che presenta il meglio delle quattromila storie selezionate dallo scrittore con il solo criterio del loro significato umano. Raccontano grandi eventi e piccole cose, situazioni tragiche o comiche: «una fatica straordinariamente generosa di soddisfazioni, una delle imprese piú stimolanti cui mi sia dedicato». E anche un ritratto meraviglioso e inaspettato dell'America.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2012
Print ISBN
9788806266493
eBook ISBN
9788858405437

Sconosciuti

Ballando su Seventy-fourth Streeet.
[Manhattan, agosto 1962]
È pomeriggio. Fa caldo. Sono qui da tre giorni. Il monolocale è rovente. Armata di martello e cacciavite cerco di scalpellare via la vernice dall’unica finestra. Poi con un colpo deciso spingo il pannello di vetro verso l’alto fino in cima e mi affaccio a guardare l’arenaria rossa della fila ininterrotta di edifici.
I miei vicini di casa sono sulla veranda. Un neonato color cioccolata incurva le labbra e inarca la schiena prima che la mamma gli offra il seno. La donna indossa pantaloni turchesi e un paio di ballerine di plastica trasparente. Seduta a gambe incrociate su un giornale che la isola dal cemento bollente e screpolato, fa ciondolare una scarpa dalla punta del piede. Mentre il poppante succhia il latte, la mamma alterna sorsi di cerveza e boccate di fumo da un sigaro sottile.
Il papà, in canottiera, esce dalla porta tutto impettito, reggendo con una mano la radio e con l’altra un bambinetto che stringe una scopa. Il piccolo comincia a pulire la veranda, poi cambia idea e si mette a carezzare le setole della scopa. Vengono portate fuori le sedie della cucina insieme a confezioni da sei di Tab, 7Up e birra Rheingold.
Sento il profumo del riso allo zafferano e dei fagioli neri che esala dalla pentola sul fornelletto sotto la scala. La mamma si lega dietro la nuca i capelli di un rosso sfacciato, posa il bambino in una scatola di cartone dei supermercati Gristedes, e comincia a piroettare lentamente, con le mani sui fianchi. Si ferma, si avvicina con mosse sinuose al suo uomo e gli dà un colpetto sulla gamba col ginocchio. Volteggiando a un ritmo caraibico, i due ondeggiano, oscillano, girano e ancheggiano. Il bambino segna il tempo battendo un cucchiaio contro una ciotola di legno; il padre sorride con aria di approvazione, e il suo incisivo d’oro manda un lampo di luce. Il suono dei bongos si diffonde sul marciapiede mentre il piú piccino dorme nella scatola di cartone.
E io, vent’anni, lontana dal Nebraska da appena un anno, osservo rapita. All’improvviso, il papà con l’incisivo balenante alza gli occhi dal pandemonio e guarda verso la mia finestra.
– Ehi, muchacha, – mi grida. – Hai del fumo?
CATHERINE AUSTIN ALEXANDER
Seattle, Washington
Una conversazione con Bill.
Mia moglie e io ci eravamo trasferiti nel Maryland meridionale, dove io mi occupavo di ecologia marina presso il laboratorio universitario di Chesapeake Bay. Ci stabilimmo in una piccola cittadina dall’atmosfera rurale. Il centro contava appena una manciata di negozi: una drogheria, una rivendita di liquori, un barbiere e non molto di piú. C’era un unico bar, e se non avevo programmi per il venerdí sera, ci andavo spesso a scolarmi una pinta di birra o due e magari fare una partitina al flipper. Il locale era frequentato da un manipolo di fedeli avventori abituali: pescatori, operai presso la centrale elettrica delle vicinanze o muratori al servizio delle imprese attive nella zona. Io non potevo definirmi proprio uno di loro, ma adoravo ascoltare le storie delle loro imprese di pesca. Le descrizioni dei vecchi tempi sulla baia mi colmavano di meraviglia, e mentre ascoltavo, quei racconti evocavano ai miei occhi una serie di immagini misteriose. Il barista aveva soprannominato «i beoni» un particolare gruppo di clienti che occupavano sempre la stessa estremità del bancone, vicino alla porta di ingresso.
Era il 24 dicembre, e in quel momento sedevo al banco da solo, intento a sorseggiare una pinta di Guinness Stout. Pensavo ai nostri progetti per il giorno dopo, quando mia moglie e io saremmo partiti in macchina verso il Connecticut dove avremmo trascorso le vacanze di Natale con la mia famiglia. Dopo un po’ notai i cenni con cui Bill, uno dei «beoni», intendeva coinvolgermi in una conversazione. Bill e io ci eravamo visti decine di volte negli ultimi due anni, ma senza scambiarci mai neppure una parola. Condividevamo una sorta di accordo silenzioso in base al quale avevamo deciso di non interagire pur rispettandoci a vicenda.
Perciò rimasi alquanto sorpreso quando attaccò discorso con me. Avvenne in maniera molto spontanea. Dopo le educate presentazioni iniziali e un piccolo scambio di banalità, Bill si lanciò in un lungo racconto in cui ripercorse gran parte della storia della propria vita. Era d’umore allegro (aveva già scolato qualche bicchiere) e ci tenne a farmi sapere di essere un pescatore. Sottolineò il suo amore per la baia, e mi confidò di essere affascinato dalle caratteristiche ecologiche di quel braccio di mare. Mi descrisse in tutti i particolari la sua nuova barca da pesca, e mi spiegò di averla portata a terra per qualche riparazione. Arrivammo a parlare del Natale, dei progetti della famiglia per le vacanze e cose del genere. Mi disse che lui e sua nonna compivano gli anni nello stesso giorno, e celebravano insieme il compleanno, nonostante l’età avanzata della donna. Mi svelò sempre nuovi particolari, lasciando affiorare difetti e debolezze di solito tenuti nascosti agli estranei. Mi sentivo alquanto stupito dal suo atteggiamento, ma in fondo era la vigilia di Natale e non mi dispiaceva affatto quell’opportunità di conoscere a fondo Bill.
La nostra conversazione durò circa mezz’ora. Alla fine il mio interlocutore guardò l’orologio e dichiarò che doveva andare a casa: sua moglie e i suoi figli lo stavano aspettando. Mi abbracciò, mi cinse le spalle in un’energica stretta e mi disse quanto gli avesse fatto piacere chiacchierare con me, ripromettendosi di ripetere l’esperienza piú spesso. Io mi trovai d’accordo con lui: gli strinsi la mano e ci salutammo.
Mi sedetti di nuovo al bancone del bar. Nel frattempo era arrivato il mio amico Carl. Gli domandai se conosceva Bill, e se aveva idea di cosa l’avesse spinto a cercare la mia amicizia. Carl non seppe rispondermi. Si limitò a osservare che Bill era sempre stato un tipo silenzioso.
Non è mai facile valutare con precisione il trascorrere del tempo, soprattutto in un bar, ma mi sembrava di avere appena visto Bill uscire dalla porta quando notai che il barista era sconvolto, in preda a una disperazione incontenibile. Il sonoro vociare della folla di avventori si attutí di colpo, e tutti si misero a bisbigliare. Doveva essere appena accaduta una cosa terribile. Bill aveva avuto un incidente mentre tornava a casa, scoprimmo alla fine. Il suo pick-up, lanciato a tutta velocità, era sbandato e uscito di strada, andando a sbattere contro un albero nella fitta foresta di latifoglie. Bill era morto sul colpo.
La notizia mi turbò profondamente. Mi è quasi impossibile descrivere quanto mi sentissi scioccato. Ero forse l’ultima persona alla quale Bill avesse rivolto la parola, dissi a Carl. Non ci eravamo mai parlati prima, e mi aveva descritto infiniti aspetti della sua vita, rivelandomi moltissimi particolari personali. Sembrava quasi avere intuito che stava per succedergli qualcosa.
Dopo un po’ dovetti uscire: sentii il bisogno di allontanarmi dagli amici e dai parenti di Bill affranti dal dolore. Mi fermai nel parcheggio insieme a Carl: passarono parecchie macchine della polizia, di ritorno dal luogo dell’incidente. Le seguiva un carro attrezzi trascinandosi dietro quanto restava del pick-up di Bill. Il parabrezza fracassato somigliava a una ragnatela impazzita, che mandava bagliori nella luce dei fanali. L’abitacolo appariva terribilmente distorto dalla forza spaventosa dell’urto. L’autogrú rallentò un attimo all’incrocio, poi continuò per la propria strada. Noi rimanemmo là in silenzio a guardarla finché non venne inghiottita dalle tenebre.
JOHN BRAWLEY
Lexington, Massachusetts
Errore di giudizio.
Facevo il turno di giorno presso una società di taxi di Dayton, per una misera paga oraria. Era l’estate del 1966, un’ondata di calura teneva prigioniera la città e tutti, me compreso, ci sentivamo irritabili. Quel pomeriggio stavo seduto in macchina in un posteggio del centro, davanti all’Hotel Biltmore, un grande albergo elegante che aveva appena cominciato la sua parabola discendente dopo una fase gloriosa. Tenevo tutti i finestrini aperti per catturare ogni minimo alito di vento nell’aria immobile. Speravo in una corsa all’aeroporto.
Invece ricevetti una chiamata dalla centrale. Mi comunicarono per radio di andare all’edicola di Wilkie e di comprare la «Gazzetta delle Corse». Poi dovevo fermarmi in città al Liberal Market e acquistare sei bottiglie di birra Schoenling, una confezione piccola di cibo per pesci e una scatola di sigari White Owl. Non erano ammesse sostituzioni, e avrei usato i miei soldi per pagare la merce; sarei stato rimborsato dal cliente, perciò dovevo conservare le ricevute. Le mie istruzioni prevedevano poi che consegnassi il tutto all’appartamento 3b di un edificio di Third Street, in un condominio situato, mi risultava, in un quartiere fatiscente.
Protestai: non volevo perdere l’opportunità di portare qualcuno all’aeroporto, e soprattutto non volevo sborsare i miei soldi senza sapere se li avrei recuperati, o, peggio, con il rischio di rimanere coinvolto in una rapina. L’addetto di servizio alla centrale, in tono via via piú seccato, mi disse che l’uomo era un cliente abituale, che non avrei avuto problemi di denaro e dovevo sbrigarmi ad andare oppure riportare indietro il taxi a un altro autista piú disponibile. Vista l’aria che tirava, mi decisi a obbedire.
Tra me e me, però, me la prendevo con l’individuo da cui erano partite tutte quelle richieste. Lo immaginavo come una specie di perdigiorno sovvenzionato dalla pubblica assistenza, troppo pigro anche per occuparsi dei suoi pesci rossi e procurarsi da sé il necessario per soddisfare i propri vizi. Mi sentivo furioso all’idea di fare tante commissioni per uno che, a giudicare da dove abitava, non avrebbe avuto i soldi per rimborsarmi.
Guidai fino all’edicola di Wilkie e comprai la «Gazzetta delle Corse», poi proseguii verso Liberal per procurarmi il mangime per i pesci, la birra e i sigari. Quindi mi diressi all’indirizzo del cliente. Mi trovai davanti i quattro piani di un vecchio condominio della fine dell’Ottocento, dalle pareti di mattoni rosso cupo, in condizioni quasi abitabili. Entrai, accolto dalla puzza di tabacco stantio, di bacon e di muffa, il tipico odore dei posti come quello. Raggiunsi il corridoio del terzo piano e bussai alla porta di legno scuro dell’appartamento 3b. Dovetti aspettare un po’ prima che qualcuno venisse ad aprire. Sentivo qualcosa muoversi sul pavimento, ma non era un rumore di passi. Alla fine l’uscio si spalancò ma io non vidi nessuno. Finché non abbassai gli occhi.
Seduto su una piccola piattaforma di legno c’era un uomo che mi guardava. Di corporatura minuta, aveva i capelli scuri e radi e portava una maglietta bianca e un paio di pantaloni di lana grigia tenuti fermi in vita da una sottile cintura nera. Al posto delle gambe aveva due monconi non piú lunghi di un palmo.
Si trattava di un mutilato privo di entrambi gli arti inferiori: si spostava nel suo monolocale spingendo la piattaforma con le braccia sulle nude assi di legno. In ciascuna mano reggeva un cilindro di gomma con cui faceva leva sul pavimento. I cilindri avevano all’incirca le stesse dimensioni della testa di un mazzuolo, ed erano dotati di una specie di maniglia di plastica a forma di anello.
L’uomo si dimostrò assai cortese e molto grato per i miei servigi. Mi pregò di mettere la birra in un piccolo frigorifero Frigidaire, un relitto della fine degli anni Quaranta, e di lasciare i sigari sul tavolo dell’angolo cottura. I pesci rossi nuotavano in una boccia là sopra, e il mutilato mi chiese di nutrirli. Poi mi disse di mettere la «Gazzetta» sul ripiano di vetro di un vecchio tavolino davanti al divano consunto.
Seguii volentieri tutte le indicazioni: l’irritazione mi era passata.
Posando il giornale sul tavolino notai una scatoletta di velluto simile all’astuccio di un gioiello. Mentre l’uomo andava a prendere il denaro per pagarmi, sbirciai dentro la scatola. Conteneva una medaglia un po’ offuscata, il riconoscimento concesso a chi viene ferito in battaglia. Quasi certamente, a giudicare dall’età del padrone di casa, gli era stata conferita durante la Seconda guerra mondiale: avrà avuto circa cinquantacinque anni.
Cominciai a sentirmi un po’ in colpa quando il mutilato mi rimborsò tutte le spese e mi pagò la corsa. E quando mi gratificò di una mancia generosa, assai piú cospicua di quanto avrei potuto ottenere con una corsa all’aeroporto, il mio senso di colpa si accentuò ulteriormente.
L’uomo aveva un carattere taciturno, e non soffriva di solitudine. Una volta conclusa la nostra transazione, mi accompagnò alla porta. Doveva aver accettato da molto tempo le condizioni in cui si trovava e le conseguenze del proprio sacrificio. Non gli serviva la simpatia altrui, e non mi diede alcun ragguaglio su di sé. Avrei fatto lo stesso tragitto molte altre volte prima di trasferirmi altrove, ma sono sempre rimasto all’oscuro sull’identità dell’uomo, e tra noi non è nato alcun rapporto di amicizia nonostante i nostri contatti regolari.
Per mia sfortuna, ho dovuto aspettare di aver piú che raddoppiato la mia età di allora prima di rendermi conto che i pregiudizi sugli altri si rivelano quasi sempre grossolanamente sbagliati.
LUDLOW PERRY
Dayton, Ohio
La bambina nuova.
Era una giornata calda e luminosa. Tutto sembrava rovente: i tetti, i cespugli, l’asfalto, i sellini delle biciclette, la pelle, i capelli. Il padre di Allison bagnava il prato mentre lei e io andavamo in bicicletta sull’erba fradicia attraversando il moto rotatorio dei getti d’acqua emessi dal dispositivo di annaffiatura automatica.
Allora abitavo in Prospect Street. Avevo otto anni, e Allison dieci. Eravamo gli unici bambini dell’intero isolato, perciò ci ritrovammo a diventare l’uno il migliore amico dell’altra quasi per forza. Ammiravo Allison, anche se non condividevo il suo interesse per le Barbie e per le canzoni degli Hall & Oates1 . D’estate trascorrevamo un sacco di tempo a scorrazzare in bicicletta, a giocare a Cluedo e a immaginare di essere marito e moglie. Ma non credo di esserle mai piaciuto molto, e non sono sicuro che lei mi piacesse davvero. Non mi ricordo neanche di cosa parlavamo di solito, ma una delle nostre conversazioni non la potrò mai dimenticare.
Le ruote delle biciclette segnavano il prato con una serie di profonde ferite fangose che non guarivano mai completamente. Quattro anni dopo, quando mi trasferii insieme ai miei genitori, i solchi erano ancora al loro posto.
Fui io il primo a vedere la bambina intenta a osservarci a cavalcioni della bici in mezzo a Prospect Street. Sentii qualcuno ridere nell’attimo in cui per poco non mi scontravo con Allison. Alzai gli occhi, ed eccola là.
Le sorrisi. Lei ricambiò il sorriso.
Prospect Street si trovava in un quartiere abitato da bianchi appartenenti alla piccola borghesia. Quasi tutte le case, progettate in modo semplice e solido, avevano una settantina d’anni. C’era qualche albero massiccio dal tronco contorto, ma per lo piú nei giardini crescevano arbusti bassi e tozzi, che facevano ben poca ombra. La bambina, in maglietta e pantaloni verde chiaro, sembrava piccola sullo sfondo della strada piatta, ma aveva un sor...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Ho pensato che mio padre fosse Dio
  3. Copyright
  4. Nota del curatore
  5. Introduzione
  6. Animali
  7. Oggetti
  8. Famiglie
  9. Comiche
  10. Sconosciuti
  11. Guerra
  12. Amore
  13. Morte
  14. Sogni
  15. Meditazioni