Ego
  1. 120 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Informazioni su questo libro

In queste due storie ritroviamo i temi cari all'autore: la vera storia degli uomini nascosta dietro il velo menzognero della Storia ufficiale; l'annientamento morale come obiettivo ultimo dei sistemi totalitari; le debolezze dell'individuo di fronte al potere.
Il primo racconto, Ego, ci riporta al tempo delle rivolte contadine contro le campagne di collettivizzazione imposte dai Soviet. Ektov-Ego lavora in una cooperativa agricola e, per un innato senso di giustizia, abbraccia la causa dei contadini in rivolta, fino al momento in cui è costretto a tradire per salvare i propri familiari.
Speculare alla vicenda di questo vinto è l'altro racconto, Per linee interne, storia degli incessanti aggiustamenti che il generale Zukov, comandante delle armate che hanno conquistato la Berlino nazista, compie per ritrovarsi sempre dalla parte vincente. Sopravvive cosí alle purghe staliniane e alle lotte di potere pagando altissimi costi morali. Solo nel silenzio della coscienza e nella fedeltà a un modello interiore di giustizia, sembra dire Solzenicyn, l'uomo può contrastare la violenza del potere.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2012
Print ISBN
9788806210397
eBook ISBN
9788858405611

Per linee interne

Ërka Žukov, figlio di contadini, già all’età di sette anni quando c’era da raccogliere il fieno se la cavava benissimo col rastrello; piú cresceva, piú partecipava al lavoro dell’azienda paterna, non senza frequentare, per tre anni, la scuola parrocchiale; dopo di che fu sistemato nientemeno che a Mosca come giovane apprendista presso un parente, un agiato pellicciaio. Qui egli crebbe – famiglio sempre in faccende e operaio – e a poco a poco venne ammesso al lavoro di pellicceria. (Alla fine dell’apprendistato si fece fotografare in completo da città nero preso a prestito e cravatta di raso, e spedí la foto al villaggio: «mastro-pellicciaio»!)
Ma intanto iniziava la guerra con la Germania e nel 1915, a quindici anni compiuti, fu chiamato alle armi: non molto alto, ma robusto e largo di spalle, lo presero in cavalleria, in uno squadrone di dragoni.
Cominciò a studiare equitazione, distinguendosi per il portamento. Di lí a sei mesi era già passato in una squadra di addestramento per allievi sottufficiali, ne uscí con il grado di sergente e nell’agosto del 1916 finí con il suo reggimento di dragoni al fronte. Ma due mesi piú tardi, contuso da un obice austriaco, era all’ospedale. Žukov diventò poi presidente di un comitato di squadrone in un reggimento della riserva, ma non ebbe piú l’occasione di andare al fronte. Alla fine del ’17 quelli del comitato di loro iniziativa dichiararono sciolto lo squadrone: distribuirono a tutti il legittimo attestato munito dei necessari crismi, che ciascuno si portasse pure via l’arma se gli andava – e tutti a casa!
Soggiornò qualche tempo a Mosca, poi nel suo villaggio, in quel di Kaluga, si ammalò di tifo petecchiale, quindi ebbe una ricaduta, e intanto passavano i mesi. Finché, nell’agosto del 1918, cominciò la mobilitazione generale nell’Armata Rossa. Žukov venne arruolato nella Prima divisione di cavalleria di Mosca e mandato, insieme a tutta la divisione, contro i cosacchi degli Urali che non volevano riconoscere il potere sovietico. (Una volta, su quel fronte, ebbe anche occasione di vedere Frunze). Coi cosacchi grandi sciabolate, finché non li cacciarono nella steppa kirghiza, poi la divisione si trasferí nel Basso Volga. Si acquartierarono nei pressi di Caricyn, poi vennero mandati sull’Achtuba contro i calmucchi: questi si erano come ammattiti, rifiutandosi dal primo all’ultimo di riconoscere il potere sovietico, e non c’era verso. Là il nostro Ërka fu ferito da una bomba a mano, di nuovo l’ospedale da campo e di nuovo ancora una volta il tifo, questo contagio che continuava a propagarsi dappertutto. In quello stesso 1919, in primavera, Georgij Žukov, in quanto combattente dotato di coscienza di classe, venne ammesso nel Partito comunista russo dei bolscevichi e poi, all’inizio del 1920, avviato per cosí dire a una carriera di «ufficiale rosso»: nuova destinazione, i corsi per comandanti dell’Armata Rossa che si tenevano in provincia di Rjazan´. E anche lí non rimase un semplice allievo ufficiale ma diventò subito sergente maggiore dello squadrone di addestramento, il bernoccolo del comando gli veniva fuori a ogni piè sospinto.
La guerra civile si avviava alla fine, restava il solo Vrangel´. Gli allievi ufficiali pensavano che non avrebbero piú fatto a tempo a partecipare neanche alla guerra con la Polonia. Ma nel luglio 1920 l’addestramento venne interrotto ed essi furono caricati in tutta fretta su dei convogli, e trasportati parte nel Kuban´, parte nel Dagestan (dove molti allievi perirono). Žukov si ritrovò in un reggimento misto di istruzione a Ekaterinodar, col quale fu mandato contro le forze da sbarco di Ulagaj, poi contro i cosacchi del Kuban´, sparsi in distaccamenti tra le propaggini delle montagne, che si rifiutavano, i forsennati, di arrendersi anche dopo la disfatta di Denikin. Ne fecero fuori molti, a sciabolate e fucilate. Con questo l’istruzione degli allievi ufficiali fu considerata conclusa ed essi furono ammessi, ad Armavir e prima del previsto, tra i comandanti rossi. E a tutti vennero assegnati nuovi calzoni, ma, chissà perché, color rosso lampone vivo (ripescati forse da qualche deposito degli ussari?), altri non ce n’erano. E i neopromossi, rientrati nelle rispettive unità, spiccavano in modo mirabile, al punto che i soldati li guardavano in modo strano: ma saranno dei nostri?
Žukov accettò il comando di un plotone ma presto lo promossero comandante di squadrone. Quanto alle operazioni erano sempre le stesse: «ripulire dalle bande». Dapprima nella regione litoranea. In dicembre vennero trasferiti nella provincia di Voronež: a liquidare la banda di Kolesnikov. Fu liquidata. Li fecero allora passare nella vicina provincia di Tambov in cui le bande si erano moltiplicate in modo tale da non poterle piú contare. In compenso anche lo Stato Maggiore della provincia non era stato con le mani in mano: secondo il commissario del reggimento, alla fine di febbraio avevano messo insieme trentatremila baionette, ottomila sciabole, quattrocentosessanta mitragliatrici e sessanta cannoni. Solo di una cosa si lamentava: non abbiamo personale politico in grado di spiegare con chiarezza il momento attuale; si tratta di una guerra scatenata dall’Intesa, da cui la rottura dell’alleanza tra la città e la campagna. Ma terremo duro e disperderemo quei buoni a nulla!
Due dei loro reggimenti di cavalleria passarono all’offensiva in marzo, ancor prima del disgelo, partendo dalla stazione di Žerdëvka, in direzione della regione fuorilegge di Tugolukovo-Kamenka (il presidente della Čeka provinciale, Traskovič, aveva dato come direttiva: «cancellare dalla faccia della terra» Kamenka e Afanas´evka, fucilare senza pietà!) Lo squadrone di Žukov con quattro mitragliatrici pesanti e un cannone da tre pollici era nel reparto di testa. E nei pressi del villaggio di Vjazovoe attaccarono un distaccamento di Antonov – circa duecentocinquanta sciabole, nessuna mitragliatrice, solo fuoco di fucileria.
Žukov montava la sua Zorka, una cavalla dal mantello sauro dorato (se l’era presa nella provincia di Voronež durante una scaramuccia, dopo aver sparato al padrone). Qui invece un «antonoviano» grande e grosso gli assestò una sciabolata di sbieco sul petto trapassando il giubbotto imbottito e lo sbalzò di sella, ma Zorka cadde a sua volta schiacciando a terra il caposquadrone; l’imponente «antonoviano» alzò la sciabola per finire il cavaliere atterrato, ma il commissario politico Nočëvka arrivò da dietro e riuscí a falciarlo appena in tempo. (Successivamente perquisirono il morto e compresero da una lettera che si trattava di un sottufficiale dei dragoni, proprio come Žukov, e a momenti dello stesso reggimento). Cominciò ad arretrare anche il primo squadrone che era lí vicino; il secondo, quello di Žukov, si mise alla retroguardia del reggimento, riuscendo a disimpegnarsi solo grazie alle mitragliatrici. A gran fatica riuscirono a salvare le loro quattro mitragliatrici e il cannone.
Žukov ne riportò un gran rabbia contro i banditi. Non erano anche loro dei contadini? ma in certo qual modo diversi, non come i nostri di Kaluga: cos’avevano da rivoltarsi in quel modo contro il loro stesso potere, il potere dei Soviet? Da casa scrivevano: noi moriamo di fame e quelli non danno il grano! Il commissario spiegava le cose in questo modo: noi non mandiamo prodotti dalla città ed è giusto: primo, perché non ne abbiamo neanche per noi e, secondo, perché quelli se la caveranno comunque col loro artigianato, ma la città da dove lo tira fuori il grano? Intanto quelli se ne stanno nascosti in angoli sperduti dove i nostri reparti non sono ancora arrivati, e si abbuffano.
Sicché con loro non era piú il caso di fare tanti discorsi. Arrivando in un villaggio, di norma si confiscavano i cavalli buoni e si lasciavano ai contadini quelli sfiancati. Quando giungeva una denuncia sulla presenza di «antonoviani» in questo o quel villaggio, scattava subito un’incursione con rastrellamento, venivano frugati solai e rimesse di ogni fattoria, persino i pozzi (un infermiere dei partigiani si era scavato nella parete di un pozzo una tana dove si nascondeva). Oppure: tutto il villaggio viene allineato, dal piú vecchio al piú giovane, millecinquecento persone. Li contano e ogni dieci ne tirano fuori uno in ostaggio e lo rinchiudono in un magazzino sicuro. Gli altri hanno quaranta minuti per compilare una lista dei banditi di quel villaggio, altrimenti gli ostaggi verranno fucilati.
Cosa devono fare? compilano la lista. Completa o incompleta, andrà alla Sezione speciale, di riserva, potrà sempre servire.
C’è da dire che anche quelli hanno le loro informazioni: una volta si arriva a un accampamento abbandonato in fretta e furia dai banditi e ci si trova una copia dell’ordine che ha portato loro, i governativi, fin là! Si sanno organizzare, i farabutti…
Quanto ai rifornimenti dell’Armata Rossa, sono intermittenti, le razioni una volta arrivano, l’altra no. (La paga di un caposquadrone è di cinquemila rubli al mese, che cosa ci si può comprare? una libbra di burro e due libbre di pane nero). Dove rifornirsi allora, se non in questi villaggi di banditi? Un plotone cala su una borgata attorno a un mulino, quattro case in tutto e solo donne. I soldati rossi, senza smontare da cavallo, incalzano le donne a colpi di frustino, fino a radunarle tutte in un magazzino annesso al mulino, dove le rinchiudono. Cominciano poi a frugare nelle cantine. Trovano un vaso di latte, bevono e poi, per la rabbia, lo scagliano a terra.
Un giovane contadino costretto a caricare sul suo carro i bagagli dello squadrone e a seguire i soldati rossi nelle loro scorrerie, esclama accorato: «Ah, muovetevi a prenderli questi contadini e lasciatemi tornare dalla mamma».
E un altro, un bambinetto che non capisce ancora niente, senza cattiveria: «Zietto, perché hai ammazzato il mio paparino?»
Vengono catturati degli insorti, una ventina, li si interroga separatamente, e uno, indicando il compagno: «Era lui alla mitragliatrice».
Entri in un villaggio con una piccola pattuglia: tutti si tappano in casa, non si sente anima viva. Bussi, da dentro una voce di donna: «Non ve ne abbiate a male, non abbiamo niente neanche per noi, facciamo la fame». Bussi di nuovo: «Non crediamo piú a niente, qualsiasi autorità si presenti, cerca una cosa sola: il grano».
Hanno talmente paura che non sono né per il governo né per i partigianti; vogliono una cosa sola: essere lasciati in pace.
Nelle riunioni di educazione politica li avevano messi in guardia: «Evitate di irritare inutilmente la popolazione». Ma anche: «Non fatevi incantare; quando ci vuole, – un bel colpo sul muso col calcio del fucile!»
Ma si notava nei soldati rossi una pericolosa riluttanza a marciare in armi contro i contadini («non siamo contadini anche noi? come facciamo a sparare addosso ai nostri?»). E inoltre i banditi gettavano dei volantini: «Siete voi i banditi, non siamo noi a cercarvi. Lasciate le nostre contrade, vivremo benissimo senza di voi». Cominciò a circolare, nata non si sa dove, una frottola secondo la quale nelle settimane successive ci sarebbe stata la smobilitazione generale. «Fino a quando dovremo aspettare? per quanto tempo dovremo ancora combattere?» (Ci furono casi di passaggio al nemico o di diserzione, specialmente durante i grandi trasferimenti). Il commissario politico Nočëvka diceva: «Andrebbero rieducati! Quando si ubriacano cosa credete che cantino? Non un solo canto rivoluzionario, sempre Da dietro l’isola1 oppure canzoni oscene. E quando passiamo la notte in un villaggio, siccome gli uomini del posto sono nascosti nella foresta, i nostri si godono le femmine». Ma organizzava anche dibattiti: «Vivere su questa terra senza lavorare e per i soviet lottare – è parassitismo!» (Gli replicavano additandogli l’infermiera, cosí disinvolta con l’intera divisione: «La mia è una pietanza che sempre ne avanza – da bastare per tutto lo squadrone»).
All’appello del mattino sei lí che ti chiedi: chi manca? chi ha tagliato la corda? Bisognava tenere con redini salde anche loro, i nostri soldati rossi. Il commissario del comitato militare della provincia l’aveva detto: la provincia di Tambov conta sessantamila disertori. Sono tutti rinforzi per i banditi.
Gli ordini provenienti dallo Stato Maggiore di Tambov non erano propriamente militari, non riguardavano le zone di ricognizione o la sequenza delle operazioni, ma sempre e unicamente: «attaccare e annientare!», «circondare e liquidare!», «senza porsi nessun problema!»
E non se ne ponevano. Soltanto – come prendere i banditi? come ottenere le informazioni? Di fatto il potere sovietico era sparito dai villaggi, i suoi rappresentanti erano scappati, rifugiandosi nelle città, a chi chiedere? Un comandante rosso ordina di convocare l’assemblea del villaggio. Gli uomini vengono allineati su di una fila. «Fuori i nomi dei banditi!» Nessuna reazione. «Fucilatene uno su dieci!» E lo si fucila sul posto, davanti alla folla. Le donne alzano alte grida, piangono convulsamente. «Serrare la fila. Fuori i nomi dei banditi!» Si ripete la conta e la selezione dei candidati alla nuova esecuzione. A questo punto la gente non regge piú e cominciano a saltar fuori i nomi. Alcuni fuggono a gambe levate, in tutte le direzioni, impossibile abbatterli tutti.
Qualche volta arrestavano donne sole sulle strade di campagna: caso mai portassero su di sé informazioni spionistiche.
E sulle strade dove c’era molto sterco equino evidentemente erano passati i banditi.
I soldati erano spesso alla fame. Calzature sfondate, uniformi lacere, sudicie, ci dormivano dentro senza spogliarsi. (Figurarsi poi i calzoni rosso lampone!) Erano allo stremo.
E se si deve amputare una gamba, niente anestesia, e addirittura mancano le bende.
A metà aprile arrivò a Žerdëvka una voce: con un’incursione gli «antonoviani» si erano impadroniti del grosso villaggio di fabbriche di Rasskazovo, a quarantacinque verste dalla stessa Tambov, e l’avevano tenuto per quattro ore, massacrando i comunisti nelle loro abitazioni, spiccando loro la testa dal collo; la metà del battaglione sovietico locale era passata agli «antonoviani», l’altra metà era stata fatta prigioniera; si erano ritirati sotto il mitragliamento degli aeroplani.
Ecco che guerra si faceva con loro! e adesso, nel passaggio dall’inverno alla primavera, sarebbe stato anche peggio. Perché era già da otto mesi che «gli antonoviani» non solo non si arrendevano ma sembravano aumentare. (Anche se qualche volta invece delle pallottole sparavano pezzetti di ferro).
Ordine diramato dello Stato Maggiore di Tambov: «Condurre tutte le operazioni con spietatezza: solo in questo modo si ottiene rispetto».
I villaggi che simpatizzavano per i banditi venivano semplicemente incendiati, da cima a fondo. Restavano solo le carcasse delle grandi stufe russe, e cenere.
Non riposava neppure la Sezione speciale di Žerdëvka. Il suo capo, Šurka Šubin, camicia rossa e calzoni azzurri da cavallerizzo, che se ne andava in giro con una filza di granate spenzolanti e un enorme mauser a tamburo in un fodero di legno, veniva anche nel cortile dei cavalleggeri (il comandante dell’unità era subordinato al capo della Sezione speciale): «Ragazzi! Chi viene a fucilare i banditi? Due passi avanti!» Nessuno usciva dai ranghi. «Ah, vi hanno educato proprio bene, qui!» Il cortile della Sezione speciale traboccava di gente da fucilare. Avevano scavato una grande fossa, facevano sedere i condannati sul bordo, con la faccia rivolta allo scavo, le braccia legate. Šubin e i suoi aiutanti andavano avanti e indietro, sparando alla nuca.
Si poteva agire diversamente, con quelli? Ërka aveva un buon amico, col suo stesso cognome Žukov, Pavel: i banditi l’avevano fatto a pezzi, a colpi di sciabola.
Una vera guerra, bisognava darci dentro con piú forza ancora. Fu qui – e non in quell’altra guerra contro i tedeschi – che Ërka s’incrudelí, si trasformò in un combattente spietato.
In maggio, a reprimere i banditi di Tambov venne da Mosca, con pieni poteri, una commissione del Comitato centrale esecutivo panrusso, capeggiata anch’essa da un Antonov, però Antonov-Ovseenko. A capo dell’Armata Speciale di Tambov arrivò il comandante d’armata Tuchačevskij, in precedenza comandante del fronte occidentale e reduce dalla resa dei conti con la Polonia, accompagnato dal suo aiutante Uborevič che si era già occupato parecchio di banditi, ma in Bielorussia. Tuchačevskij aveva inoltre portato con sé uno Stato Maggiore bell’e pronto nonché un reparto autoblindato.
E nei giorni successivi Žukov ebbe la fortuna di vedere di persona il famoso comandante: questi, arrivato a Žerdëvka per ferrovia su di una motrice blindata, andò allo Stato Maggiore della 14a brigata autonoma di cavalleria e ordinò al comandante di brigata Milonov di riunire per un incontro i comandanti e i commissari politici: dai reggimenti agli squadroni.
Di statura Tuchačevskij non era molto alto, ma in compenso che portamento! – fiero, impettito. Conscio del proprio valore.
Cominciò col lodare tutti quanti per il loro coraggio e senso del dovere. (E ognuno si sentiva scaldare il cuore e allargare il petto). Passò quindi seduta stante a spiegare il compito che li attendeva.
Il Sovnarkom ha disposto: porre fine alla rivolta nella provincia di Tambov entro sei settimane a partire dal 10 di maggio. Ad ogni costo! Un intenso lavoro ci attende tutti. L’esperienza della repressione di simili sommosse popolari esige che noi si invada la regione della rivolta fino alla sua completa occupazione disponendo in modo pianificato le nostre forze armate sul territorio. È appena arrivata dalla regione di Kiev, scendendo a Moršansk e ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Dello stesso autore
  3. Ego
  4. Copyright
  5. Ego
  6. Per linee interne
  7. Note del Traduttore