Fin dai primi giorni della primavera, che fu, quell’anno, calda e precoce, mia madre aveva interrotto la sua clausura per riprendere con me le passeggiate pomeridiane. Uscito appena mio padre, ella si vestiva in fretta e mi conduceva fuori, senza curarsi di sapere prima s’io avessi o no terminato i miei còmpiti. Ciò non avveniva in altri tempi; ed era, anche, insolita la regolarità di queste passeggiate, che si ripetevano ogni dopopranzo e sempre lungo una medesima direzione, pur non avendo, in apparenza, mèta alcuna. Al contrario di quel che soleva in passato, mia madre non preferiva, adesso, i sobborghi solitari o i giardini spogli e poco frequentati della periferia; ma, attraversate velocemente le strade larghe e sudice dei quartieri nuovi, entrava nella città vecchia, e qui rallentava il passo, pur camminando silenziosa e senza guardarsi intorno, secondo il suo costume. Nella città vecchia, poi, sceglieva sempre uno stesso percorso; ma, simile ad insetto alato che giri intorno a una fiamma, ogni volta si addentrava un poco di piú negli antichi quartieri. Io non sapevo ch’ella compiva, con ciò, un atto d’audacia: la vedevo però farsi via via piú timida e il febbrile suo polso mi rivelava il suo batticuore. Finché, senz’altro motivo apparente che il suo capriccio, si arrestava; e dopo aver esitato un poco, riluttante e affascinata, si voltava d’un tratto e ritornava precipitosamente indietro. All’opposto di quando era venuta, adesso, nel tornare, attraversava quasi fuggendo la città vecchia, e appena fuor da quelle mura si rilasciava, e prendeva un passo lento di sonnambula. Sentivo il suo braccio appesantirsi, e un’espressione smemorata, piena di disgusto, velava il suo viso.
Ci riaccoglieva cosà il nostro quartiere, dove l’aria primaverile attirava in istrada i ragazzi chiassosi, i vecchi impiegati in pensione dai logori soprabiti, le malvestite borghesucce in cappello, e i giovanotti senza lavoro, malandati e torvi all’aspetto come uscissero appena di carcere. La moglie del portinaio sedeva sulla soglia, e nel cortile numerosi ragazzetti figli d’inquilini giocavano a rincorrersi intorno al palmizio, mentre le loro madri e sorelle affacciate alle finestre dialogavano a gran voce. Rientravamo nelle nostre stanze che il sole era ancora alto. Appena giunta, mia madre si distendeva sul letto di nonna Cesira, dove rimaneva fino a buio, come già nell’inverno, fra languori e inquietudini; ed io, portati i miei quaderni nella medesima cameretta, facevo i miei còmpiti senza lasciarmi distrarre dalle voci rumorose del cortile.
Vi ho detto che ogni pomeriggio la nostra passeggiata si prolungava di qualche tratto; e non trascorsero molti giorni che, infine, la mèta fu raggiunta.
Non vi è dubbio che mia madre si era ripromessa quel giorno, con un atto della volontà , simile vittoria. Piú d’una volta, mentre ci vestivamo per la passeggiata, io la vidi interrompersi e farsi esangue, come per il montar d’un sentimento troppo forte che scaccia ogni altro potere; ma appena fummo in istrada, una specie di violenta gaiezza le contrasse il viso.
Diversamente dal solito, ella non rallentò, oggi, l’andatura neppure dentro la città vecchia; ma il suo veloce moto aveva un che di convulso, per cui somigliava al volo basso d’un uccello in arie burrascose. Era per me gran fatica adeguarmi al suo passo, mentre, seguendo l’itinerario consueto, ella oltrepassava le straducce popolari prossime alle mura; e la piazza del mercato, invasa a quell’ora da frotte di ragazzi; e l’angusta via dell’Università , dove la bottega dei libri usati aveva ancora i battenti chiusi per il riposo pomeridiano. Di qui si usciva sul Corso, poco frequentato in quelle prime ore del dopopranzo; e dopo una piazza alberata, di belle proporzioni, sulla quale un Caffè esponeva all’aperto i suoi tavolini fra piante di limoni fiorite, si entrava nell’intricato quartiere di Sant’Agata.
Intorno alla chiesa della Santa, si raggruppavano antichi palazzi, adibiti per lo piú a monasteri, a congregazioni o ad altri uffici devoti; e costruzioni cadenti, abitate da turbe di poveri. Attraversando le numerose piazzette e i vicoli, ogni tanto s’incontrava un’abitazione patrizia: riconoscibile al portone gigantesco, guardato da un borioso portiere, e alla corte stemmata che si scorgeva al di là , col suo tappeto d’erba.
Era la prima volta ch’io vedevo questa parte della città vecchia; ma dovevo ritornarvi, in seguito, abbastanza spesso perché ognuna delle sue straducce mi rimanesse segnata nella memoria. Un certo suo vicolo terminava con una breve gradinata in salita, di pietra liscia: percorsi che avemmo questi pochi gradini, mia madre ed io ci trovammo all’ingresso d’una piazzetta circolare.
Fu qui che mia madre si fermò e lasciò la mia mano indolenzita; il primo istante, ella parve incerta se ritornare indietro a precipizio, come faceva gli altri giorni, e riguardò i gradini che conducevano al vicolo; ma come se quella breve discesa le desse il capogiro, volse di nuovo il capo verso la piazza.
Le vidi montare alla fronte un rossore di sofferenza; e dopo ebbe una specie di singulto: non saprei dire se infantile risata di trionfo, o scossa di pianto nervoso. Rimanemmo, quindi, ferme, l’una a fianco dell’altra, al termine della scala.
Sulla piazzetta non c’era anima viva. Il selciato era fatto di quelle antiche pietre riquadre, non connesse esattamente l’una all’altra, che dà nno ai passi di chi le calpesta una risonanza sotterranea. Proprio accanto a me, sulla parete a cui, stanca, io mi appoggiavo, una maschera di marmo corroso versava un filo d’acqua dentro una lustra conca di marmo color d’avorio. Avevo sete, ma non osai bere a quella fontana, senza il permesso di mia madre, a cui mi peritavo di volger la parola.
Ella se ne stava ferma, e tutta tremante, un sorriso spaventato sui labbri; e teneva fisso uno sguardo temerario, quasi allucinato, su un antico palazzetto che si levava in fondo alla piazza, di fronte a noi. Di un colore bianco grigiastro, esso apriva, sulla facciata, finestre rade, e armoniosamente distanti: ognuna delle quali recava un ben lavorato balconcino marmoreo. In alto, il cornicione scolpito fingeva un ricco festone d’edera e tralci; e in basso, nel centro d’uno zoccolo scolpito anch’esso a bizzarre figure di grifoni e di draghi, una piccola gradinata di marmo, fra due balaustre, conduceva al massiccio portoncino. Questo era chiuso; e nessun segno di vita appariva in quel momento nel palazzetto. Né s’udiva alcun rumore se non quello leggero della fontana e voci confuse che salivano alla piazza dai vicoli sottostanti.
Trascorsero cosà alcuni minuti di quiete e di solitudine. Avvezza ai capricci di mia madre, io li secondavo umilmente senza ricercarne i motivi; e rimasi silenziosa al suo fianco. Immobile all’imbocco della piazza, ella aveva adesso nella persona un’attitudine d’abbandono e di riposo. Riuniva placidamente sul grembo le mani, a cui si attorcigliavano i logori cordoni della sua borsetta. E negli occhi spalancati, che non lasciavano di mirare il palazzetto di fronte, le si era acceso un lagrimoso splendore.
Il rumore d’un campanello suonato nell’interno del palazzo giunse, attutito, fino ai nostri orecchi. Quasi nel medesimo istante furono aperti i due battenti del portoncino e si vide, nell’interno, un servitore farsi da un lato dell’ingresso in attitudine rispettosa. Passò ancora qualche minuto, e poi tre signore uscirono dal portoncino, e, discesa lentamente la piccola scalinata, si allontanarono a piedi girando sulla destra del palazzo; il quale nella parte retrostante, prolungata dal muro di cinta delle antiche scuderie, si affacciava, come appresi piú tardi, su un quartiere solitario di ville e di grandi viali. Come le tre signore scomparvero dietro il palazzo, il portoncino fu richiuso. L’apparizione era stata breve, ma pur cosà breve tempo era bastato alla mia curiosità di fanciulletta per osservare le tre dame una ad una. La prima, una vecchia dalla figura grande e pingue, dal passo un po’ irregolare, vestiva a lutto con un velo nero che, avvolgendosi intorno al suo cappello, le ricadeva dinanzi sulla spalla destra. La seconda, al cui braccio ella si appoggiava, era piú giovane, scialba d’apparenza, e anch’essa vestita a lutto, ma con un semplice cappello di feltro senz’alcun velo. E la terza, che si teneva un poco indietro, una cameriera forse, vestiva di un color grigio cenere con scarpe nere e un goffo cappellino di paglia.
Già queste signore non si vedevano piú, allorquando, volgendomi a mia madre, io mi accorsi ch’ella fissava uno sguardo dilatato, ma astratto e quasi inespressivo, là dove, un secondo prima, esse erano sparite alla nostra vista. Sembrava interdetta, colpita forse da un qualche aspetto delle loro persone: e che un dubbio ancora informe le tentasse la mente. D’un tratto, un colore terreo le scese sul volto, e negli occhi le si affacciò una specie di orrore: – Elisa! Elisa! – gridò; ma senza badare s’io la seguivo, attraversò di sbieco la piazza.
La raggiunsi mentre, incerta ella medesima sui propri scopi, si agitava dall’uno all’altro lato d’una discesa angusta, fra due palazzi di nobile apparenza che aprivano, ambedue, sulla piazza, i loro ingressi principali. Nel suo rapido passaggio davanti al primo palazzo, ella aveva, sembra, destato la curiosità o il sospetto del portiere: questi infatti aveva lasciato il suo posto di guardia nell’atrio, sulla piazza, e si affacciava all’imbocco della discesa, donde osservava mia madre con una certa diffidenza e alterigia. Tuttavia, com’ella lo guardò a sua volta, egli portò la mano al proprio berretto gallonato d’oro.
Paventando non so qual danno od offesa per mia madre da parte di quell’uomo autorevole in fastoso costume, io presi in fretta la mano di lei. Mia madre mi lasciò la sua manina, che parve insensibile al mio tocco. Ella guardava l’ignoto portinaio con occhi severi e imbambolati, movendo risolutamente verso di lui dalla straducola: – Ascoltate! – lo apostrofò con voce dura, appena gli fu da presso, – quella che abita là , – e col mento indicò il palazzetto delle tre signore, – donna Concetta Cerentano, perché porta il lutto? – e nel dir cosà ella fece con la mano un gesto sulla propria spalla, come a descrivere il velo della vecchia.
Il portinaio, dopo aver fatto, al nome di Cerentano, autorevoli cenni di assenso, squadrò mia madre dalla testa ai piedi e le domandò: – È molto che mancate da queste parti?
– SÃ-sà molto! – esclamò bruscamente mia madre. E col viso imbronciato d’un bambino che, durante una febbre, si sdegna contro i propri delirî, ingiunse: – Rispondete!
Colui si meravigliò della curiosa arroganza ch’ella mostrava nei modi: – Vi ho fatto una simile domanda, – le spiegò, ergendosi, con voce risentita, – perché, da quando la conosco io, che da venti anni guardo questo portone, donna Cerentano, là di fronte, non ha mai lasciato il lutto. Vuol dire che prima vestiva a nero per la vedovanza, in memoria di don Ruggero suo sposo, e ora si è messa il velo cosÃ, – (egli imitò il gesto di mia madre), – perché porta il lutto del padroncino, suo figlio.
– Di chi? – esclamò mia madre.
– Del figlio suo, – ripeté il portiere, guardandola sbigottito e incerto, – che le è morto quest’inverno: don Edoar...
Sentii la mano di mia madre farsi fredda. – Andiamo! andiamo! – ella mi esortò con una voce senza coscienza, dal timbro mutato, acerbo, sà da somigliar quasi a voce di fanciulletta mia pari. In un baleno, mentr’ella si voltava, mi apparve il suo viso terreo, dove gli occhi si spalancavano cosà neri e senza luce da parer vuote occhiaie. Poi subito ella staccò la sua mano dalla mia, fuggendo come una baccante giú per la discesa e attraverso le vie che conducevano a casa nostra, mentr’io la seguivo da presso chiamandola e singhiozzando. Quasi non mi accorgevo dei passanti che si fermavano stupiti a guardarci; né degnai d’una risposta quanti, impietositi, m’interrogavano.
Presto mia madre fu vinta dall’affanno, e rallentò la sua fuga. Avanzava tenendosi le due mani sul petto, gli occhi fissi e vuoti; e dalle labbra semiaperte le sfuggiva un rauco, stridulo respiro. Benché sfinita dalla corsa, io non mi staccai dal suo fianco. Avvertii lo sguardo della nostra portinaia che ci seguiva pieno di stupore: e, lungo la scala, mi sforzai di sorreggere mia madre, che si trascinava di gradino in gradino quasi sui ginocchi.
Toccò a me di frugare nella sua borsetta per trarne le chiavi e di aprire, non senza stento, l’uscio d’ingresso. Ella si abbatté sul letto, stremata, ed io mi accovacciai presso di lei, per terra, appoggiando al letto la fronte. Tutta in sudore, ella giaceva di traverso sulla coperta, coi denti che le battevano, e i grandi occhi aperti e impauriti. Il suo respiro affannoso si andava diradando; ma d’improvviso ella si drizzò a sedere sul letto e portando i due pugni alla bocca prese a gridare, con un accento isterico e selvaggio che mi sgomentò. – Mamma! mamma! – la chiamavo inutilmente; quand’ecco, ella tacque, e si pose in ascolto, come un animale all’agguato. S’era udito, nell’anticamera, il suono familiare della chiave infilata nella toppa, e il cigolÃo dell’uscio d’ingresso: era mio padre che, di turno sul postale in partenza alla mezzanotte, rincasava per dormire qualche ora, avanti di mettersi in viaggio.
Mia madre mi guardò sospesa, con le labbra palpitanti, lo sguardo tagliente, ed io sentii ch’era gelosa, fino alla ferocia, di quella sua misteriosa sventura: gelosa, intendo, soprattutto nei riguardi di mio padre. Ubbidendo alla sua muta volontà , io svelta uscii dalla camera incontro a mio padre, e a voce bassa lo avvisai ch’ella era rincasata dal passeggio in preda a una grande stanchezza e aveva dato ordine di non disturbarla, e di lasciarla dormire. Mio padre mi credette: e mia madre, quasi fosse mia complice nella menzogna, non fece udire piú dalla camera né un rumore né una voce.
In cucina, aiutai mio padre a preparare un cartoccio con pane e qualche altro cibo da portar via sul postale: ché egli doveva rimanere in viaggio fino alla notte seguente. E poi mi accinsi a fare i còmpiti, mentre lui si ritirava a riposare nel salotto.
Dopo un certo intervallo, mi levai dal tavolino, e, in punta di piedi, attraversato il corridoio, accostai l’orecchio all’uscio chiuso di mia madre: non si udiva alcun rumore se non, dopo qualche secondo di attento ascolto, un respiro affannoso. Mi feci coraggio, ed entrai: mia madre allora drizzò un poco il capo e mi volse uno sguardo incosciente. Come prima, ella giaceva sul letto, sveglia e tutta vestita, nella camera quasi buia; io la lasciai subito, temendo d’infastidirla, e tornai pian piano in cucina.
Venuta la sera nel silenzio delle nostre stanze, cenai con vivande fredde avanzate dal mezzogiorno, poiché non sapevo accendere il fuoco; apprestai pure, sulla tavola di cucina, un poco di pietanza per mio padre, uso a consumare la sua cena avanti di recarsi ai viaggi notturni. Infine, disposi con gran cura su di un vassoio la cena di mia madre, alla quale avevo riserbato le cose migliori, e mi recai da lei. Ma ella rifiutò il cibo senza dir parola, con occhi attoniti da malata.
Alla luce delle lampade, si scorgeva ch’ella doveva aver sofferto in quelle ore assalti violenti, sebbene silenziosi: era spettinata, aveva delle ditate rossastre sulla gola, e sulle palme e sulle labbra delle piccole ferite, come se, lei medesima, si fosse data dei morsi. Io la liberai dalle forcine, le accomodai le trecce per la notte: ed ella mi lasciò fare, incantata, simile a una bambola. Cosà pure, mentre si andava spogliando con gesti meccanici e senza memoria, non respinse i miei ferventi aiuti.
Un’ora prima di mezzanotte, mi ridestò, dal salotto vicino, il suono soffocato della sveglia che mio padre usava porre sotto il proprio guanciale. Si udà poi qualche rumore discreto nel salotto e in cucina, e, poco piú tardi, la porta d’ingresso cigolò pianissimo sui cardini: mio padre era uscito.
Io non mi riaddormentai subito: nella nostra camera faceva caldo, sà che perfino il leggero bruciare del lumino da notte, in quell’aria chiusa, mi pareva una vampa. Le coltri invernali, non ancora tolte dai letti, mi pesavano, e sotto le coltri, sentivo ardere come fuoco il corpo di mia madre, per il salire della febbre. Quando mi riaddormentai, mi parve confusamente, in sogno, di dividere la mia camera con un animale selvatico, o una fiera. Mi riscossi, e, in un dormiveglia, m’avvidi che mia madre scesa dal letto percorreva a piedi nudi la stanza, avanti e indietro, e gemeva con un suono interrogante e caparbio: tale ch’io credetti di riudire la gatta di Gesualdo, il giorno che andava in cerca dei suoi gattini.
In camera nostra, quella sera, nessuno aveva pensato a caricare la sveglia. Ridestandomi, non chiamata, alla luce del giorno, io vidi mia madre dormire supina accanto a me: sporgeva un poco il labbro inferiore, e aveva le palpebre schiacciate sull’orbita, a somiglianza d’una morta. Io scesi dal letto pian piano, badando a non ridestarla, e passai nella cucina dove, alzato lo stuoino della finestra, giudicai, dalla freschezza della luce, che doveva da poco esser nato il sole. Un uccellino, posatosi, chi sa per quale fantasia della sua mente, sul triste palmizio del cortile, cinguettava, salutando forse la mattiniera Elisa.
Mi mortificava alquanto il pensiero di non saper accendere il fuoco: mi raffiguravo, con giubilo, quale gloria sarebbe stata per me poter dire a mia madre: – È tutto pronto, la colazione è servita! – Ma purtroppo, il mio tentativo non riuscà che a riempire la cucina di fumo, e dovetti rinunciare. Scesi bensà nella strada, lasciando accostato l’uscio, per acquistare il latte dal capraio girovago; e, rientrata, mi affaccendai con solerzia a spazzare la cucina, a tagliare il pane, a lavare i piatti della sera avanti. Poi scivolai silenziosa nella camera dove mia madre ancor dormiva, e, col batticuore, raccolsi da terra le sue scarpette; avevo deciso di lustrargliele con le mie mani, e, nel compiere tale impresa, la fierezza e la venerazione mi fecero spuntare dagli occhi le lagrime.
In verità , m’impiastricciai non poco di vernice le mani maldestre; ma pure quelle scarpe impolverate, dalla suola consunta e dal tacco alla francese fiaccato e logoro, quelle adorate scarpette acquistarono un’apparenza piú brillante per opera mia. Sà che, fatto il segno della croce, ringraziai Gesú Cristo per avermi assistito: non dubitavo, infatti, ch’Egli presiedesse a tutte le minuzie della mia vita quotidiana.
Allorché ritornai nella camera per rimettere le scarpette al loro posto, vidi che mia madre s’era alzata, e, seduta sull’orlo del letto, aveva incominciato a vestirsi. Col busto chino, si fermava il legaccio d’una calza, e mi gettò un’occhiata obliqua. Le domandai, tutta tremante, se fosse guarita, ma accorgendomi che aveva dei brividi, le dissi con premura di non alzarsi: io stessa avrei provveduto a tutto, anche a far la spesa, e (aggiunsi), a cucinare. A queste parole, ella ebbe un’espressione severa e ombrosa e, torcendo le labbra, disse che della spesa non si curava e che voleva uscire per motivi suoi propri. Devotamente allora le infilai le scarpe, senza ch’ella notasse quant’eran lustre; e come fu tutta vestita, temendo che, da sola, potesse cadere sulla via, decisi di mancare la scuola e di seguirla: né lei me lo vietò.
Sebbene non fossi mai stata là dove ella mi conduceva, dalle botteghe di statuari e di fiorai che aprivan le mostre lungo la strada e dall’aspetto di quanti, insieme a noi, la percorrevano, intuii, prima ancor di arrivarvi, che ci dirigevamo al camposanto. Sapevo che mia madre aveva in odio questo luogo; e che la povera nonna, come già l’altro mio nonno Teodoro, dal giorno che vi giaceva sepolta non era stata mai visitata da nessuno. Ma certamente, se oggi mia madre veniva qui, era per visitare quello sconosciuto don Edoardo del quale avevamo il giorno prima udito l’annuncio di morte.
Appena fummo dentro al recinto, io rimasi incantata dallo spettacolo primaverile che ci si offerse. Sui prati circostanti, intorno alle statue ed ai simboli cristiani erano sparsi i bei colori della stagione; gli alberi gettavano lunghe, appena tremolanti ombre su quel suolo luminoso. Come alle processioni solenni, un aroma liturgico si mescolava con gli odori boschivi e campestri: e le voci degli uccelli scherzavano, senza turbare il quieto, sacerdotale suono della campana.
Fino a questo giorno, il solo spettacolo di morte da me veduto era stata la povera nonna Cesira sul suo lettuccio; e vi dissi appunto, in quell...