All’Università di Princeton.
Rientrato a Torino, mi misi a vagabondare tra diverse questioni scientifiche: lo studio delle proprietà di simmetria dei coefficienti di Clebsch-Gordan, l’analogo problema relativo ai coefficienti W di Racah e la composizione dei momenti angolari in meccanica quantistica, uno degli argomenti topici a riguardo. Si tratta di problemi piuttosto tecnici nei quali è inutile addentrarsi in questa sede. Però sono anche molto divertenti, con un sacco di geometria e di simmetrie non banali. Mi occupavo inoltre delle proprietà di analiticità della matrice di scattering (matrice S), una specie di «scatola nera» che era molto usata per predire i risultati delle interazioni d’urto fra particelle.
Fu di nuovo Eduardo Caianiello, dopo qualche tempo, a spingermi a tornare a Princeton. Eduardo era in piena ebollizione: un po’ per la teoria dei campi che stava prendendo forma, un po’ per le sue idee di ritorno a Napoli. Ripresi allora i contatti con Wheeler e non fu difficilissimo avere da lui un invito per raggiungerlo all’Università di Princeton. Era il 1959.
Dal punto di vista familiare, il nostro soggiorno a Princeton coincise con uno dei periodi piú difficili, e Rosanna fu davvero eroica a non farmene sentire troppo il peso. Quando partimmo, Daniele, il nostro primo figlio, aveva un anno e mezzo ed era un bambino vivacissimo, mentre la sua sorellina Marta era nata da appena sessanta giorni. E per rendere la partenza piú leggera e spensierata, all’ultimo momento la ragazza che ci aiutava con Daniele decise di rimanere in Italia, lasciandoci soli con i piccoli.
A Princeton vivevamo in una casetta con una stanza principale per il giorno e due piccole stanze da letto: mancava quindi uno spazio in cui potessi lavorare tranquillo.
Per fortuna, tra i miei numerosi difetti emergeva chiaramente un’enorme virtú. Anche mentre i bambini facevano tutto il rumore del mondo, riuscivo a starmene seduto in mezzo ai loro giochi e alle loro corse senza sosta, e a proseguire immerso nei miei pensieri fischiettando (Bach o Mozart, in genere). Cercavo di dare anche io un contributo all’ordine della casa, per esempio lavando sistematicamente i piatti. A dire il vero, dopo qualche giorno, Rosanna mi fece rilevare con delicatezza che ci voleva piú tempo per rimettere a posto dopo il mio «passaggio» di quanto non ne occorresse per lavare.
Un non ebreo italiano a Princeton.
All’Università di Princeton conobbi un sacco di fisici americani, moltissimi dei quali ebrei. Soprattutto con questi ultimi, per un motivo che francamente ignoro, diventammo subito ottimi amici. Non mi sono davvero mai spiegato il motivo, ma sembrava che tra me e i fisici ebrei scattasse subito una certa confidenza. È il caso, per esempio, di Sam Treiman e Murph Goldberger, che avevano qualche anno piú di me. Proprio in quegli anni Sam e Murph misero a punto uno studio fondamentale sul decadimento di una particella della famiglia dei mesoni, i mesoni K. Oggi sappiamo che i mesoni, insieme ai piú noti barioni (per esempio il protone o il neutrone), compongono la tribú degli adroni, e cioè delle particelle costituite da quark e antiquark: un quark e un antiquark nel caso dei mesoni, tre quark nel caso dei barioni. All’epoca, però, i quark erano ancora di là da venire, e gli studi di Goldberger e Treiman furono tasselli importanti di quel che, una decina di anni dopo, sarebbe diventato il modello standard delle particelle elementari.
Con Sam e Murph, ma non solo con loro, ci siamo sempre cercati e divertiti insieme, forse perché condividevamo un certo genere di umorismo, forse per una simpatia innata. E ci sono tantissimi aneddoti che potrei raccontare, per esempio questo.
All’epoca Princeton assomigliava a un porto di mare: c’erano scienziati in visita, in partenza, in arrivo. Per facilitare gli incontri e le conoscenze al di là delle occasioni di ricerca, i colleghi dell’università e dello Ias, l’Institute for Advanced Study, organizzavano spesso ricevimenti simpatici e informali. Una sera mi capitò di recarmi a uno di questi ricevimenti e di arrivare un po’ prima degli altri. Non c’era ancora nessuno e, guardandomi in giro, vidi uno splendido pianoforte: sembrava in attesa di qualcuno che desiderasse suonarlo. Mi feci coraggio, entrai nella sala e subito dopo mi raggiunse Sam Treiman. Sam, in quegli anni, stava lavorando sui decadimenti beta e sulle violazioni di simmetria. Cominciammo a discutere del suo lavoro, ma dopo qualche tempo mi accorsi che il pianoforte continuava a essere libero. Non riuscii a resistere alla tentazione: mi diressi verso lo strumento e mi sedetti a suonare. Sia chiaro: non sono mai stato un musicista. Ho preso lezioni di pianoforte e ho un buon orecchio, ma – all’epoca come oggi – non mi si può neppure definire un bravo dilettante. Semplicemente so riprodurre alcuni pezzi, suonicchio per amore della musica. Insomma, ebbi il coraggio di esibirmi nella Marcia alla turca di Mozart, probabilmente uno dei brani piú celebri della storia della musica.
Dopo che ebbi terminato, mi rivolsi a Sam sorridendo, aspettandomi una qualche sua battuta. Al contrario, Sam mi guardò stupito: «Tullio, – mi disse, – sei un bravo fisico e suoni anche il piano. Quindi devi essere ebreo». Non sapevo di che cosa stupirmi di piú: non solo non sapevo suonare il piano, ma non ero neppure ebreo. A smentirlo, però, mi sarebbe sembrato di assumere una posizione antisemita, anche perché Sam era effettivamente di origine ebraica ed era cresciuto nel quartiere ebraico di Chicago. CosÃ, decisi semplicemente di cambiare discorso. Siamo sempre rimasti amici cari, io e Sam. Se n’è andato nel 1999 per un tumore. Una delle tante perdite che in questi anni stanno affliggendo l’ultima parte della mia vita.
Anche con Murph, che aveva una decina di anni piú di me, l’amicizia era naturale e spontanea. Treiman e io scherzavamo sul suo cognome dichiaratamente ebreo. Il significato di Goldberger, infatti, rimanda a una montagna di soldi. Insomma, un nome da vero usuraio, che riportava alla memoria luoghi comuni triti e sinistri, ma che non ci impediva di sorridere.
Di quel periodo ricordo anche l’atmosfera euforica in cui sembrava essere avvolta la società americana: era l’epoca del famoso baby boom, e i media glorificavano lo stato di benessere e di ottimismo di un paese che era uscito trionfalmente dagli incubi della Seconda guerra mondiale. Ma dietro l’angolo era in agguato la guerra in Vietnam.
Una divertente coincidenza.
Dopo la breve parentesi americana, tornammo di nuovo in Italia e mi rimisi al lavoro all’istituto di fisica teorica di Torino. Anche se la situazione italiana non era confrontabile con quella degli Usa, riuscivo a divertirmi discretamente mentre i bambini crescevano nella mia amata città . Con Alessandro Bottino e Anna Longoni mi dedicavo serenamente a sviscerare in modo piú esaustivo la teoria del momento angolare complesso e diversi altri aspetti della teoria quantistica dell’urto, ignaro del fatto che da là a poco sarebbe esplosa la febbre dei poli.
Nel frattempo ero passato però a occuparmi soprattutto di relatività generale. Il 1° febbraio 1961 pubblicai su «Il Nuovo Cimento» un lavoro, General Relativity Without Coordinates, che poi si rivelò basilare per la mia fortuna di fisico teorico e che diede una prospettiva concreta per il calcolo di soluzioni approssimate in relatività generale. Il caso volle che, per il 15 febbraio, fosse annunciata un’eclisse totale di Sole che avrebbe interessato una parte del Nord-Ovest italiano. Storicamente le misure della deflessione della luce realizzate da sir Arthur Stanley Eddington nel 1919, proprio in occasione di un’eclisse totale di Sole, furono una delle prove piú forti a favore della relatività generale. Fu dunque un gesto generoso, da parte della natura, festeggiare l’uscita del mio articolo in quel modo. Per giunta, l’evento astronomico coincideva con il trecentonovantasettesimo compleanno di Galileo. Vogliamo proseguire con le coincidenze? Trecentonovantasette è un numero primo: il mio rapporto fortunato con i numeri primi veniva cosà confermato.
Con un gruppo di amici dell’istituto di fisica studiammo il percorso della totalità e decidemmo di trasferirci sulla costa ligure, a est di Imperia. Era una splendida mattinata. Sistemai il mio fedele telescopio in riva al mare, in un’area di sosta panoramica sull’autostrada, e aspettammo, come sempre si fa con gli eventi naturali. Fu un’eclisse meravigliosa: mai dopo di allora ebbi una visione cosà spettacolare dei brillamenti, lingue di fuoco che si alzano dalla superficie solare, messaggere di enormi esplosioni nella fotosfera del Sole.
L’esperienza dell’eclisse «galileiana» del 1961 mi segnò. Senza inseguire le eclissi in modo ossessivo, cercai semplicemente di pilotare le cose della vita in modo che, viaggiando, finissi nelle vicinanze della striscia di totalità . E in questi casi ne ho sempre approfittato con grande divertimento.
Lo spazio-scheletro.
Nel mio articolo su «Il Nuovo Cimento» affrontavo un problema classico della relatività generale. Poiché lo spazio-tempo è curvo, si ha spesso a che fare con equazioni complesse, che non è possibile risolvere se non per via approssimata. Cercai allora di elaborare un metodo, che divenne poi noto come «calcolo di Regge», che sfruttasse le proprietà geometriche intrinseche dello spazio-tempo, slegando il problema da qualsiasi sistema di coordinate: si lavora sulla geometria invece che su soluzioni analitiche. In fondo l’idea non è complicata: si tratta di «semplificare» uno spazio curvo. E l’unico modo per semplificarlo è quello di approssimarlo, piastrellando la superficie curva con le facce di una serie di poliedri. Non bisogna però perdere le proprietà legate alla curvatura: il gioco consiste allora nel concentrare quelle proprietà negli spigoli e nei vertici dei poliedri utilizzati.
Ogni tanto mi chiedono come mi sia venuta in mente l’idea alla base del calcolo di Regge. È una domanda che, in parte, mi imbarazza. Capita spesso che una persona che, come me, lavora nella matematica e nella fisica, continui a pensare a certi problemi astratti mentre si occupa di altri aspetti della vita quotidiana, per esempio farsi la barba o tagliarsi i capelli. Ecco, in effetti andò proprio cosÃ. Ero dal barbiere, seduto sulla poltrona, di fronte allo specchio. Anche dietro c’era uno specchio. Vedevo una lunga sfilata di riflessioni alternate in cui il mondo rappresentato era sempre lo stesso, proiettato su una superficie piana. Probabilmente fu questa sequenza di piani a suggerirmi l’idea dello spazio-scheletro, come viene a volte chiamata la mia approssimazione delle superfici curve in relatività . Spazio-scheletro fa un po’ impressione, ma rende molto bene l’idea cui accennavo sopra: le proprietà dello spazio-tempo sono relegate alle giunture e agli spigoli. Come nel caso delle ossa e delle articolazioni.
John Wheeler dedica al mio metodo il capitolo 42 di Gravitation. È interessante la sua conclusione:
Il calcolo di Regge riconduce alla calcolabilità problemi che, in pratica, sono oltre la portata dei normali metodi analitici. È in grado di raggiungere ogni livello di accuratezza desiderato attraverso una suddivisione opportunamente fine dello spazio-tempo che viene considerato. Si può sperare che l’approccio puramente geometrico di Regge, nella formulazione della relatività generale, un giorno possa rendere chiaro ed evidente il contenuto delle equazioni di campo di Einstein, svelando il significato geometrico del cosiddetto momento di campo geometrodinamico.
Lo spero anche io.
L’esplosione dei poli.
Quello torinese sarebbe stato un tran tran quasi tranquillo, se di là a poco non fossero esplosi, in modo del tutto inatteso, i miei poli. Proprio quelli di cui ero stato tentato di disfarmi qualche tempo prima e che avevo salvato grazie a Symanzik.
Fu a un congresso, a Ginevra mi pare, nei primi anni Sessanta. Qualche tempo prima avevo pubblicato su «Il Nuovo Cimento» i miei primi lavori sui momenti angolari complessi. Ero tranquillamente seduto a seguire una sessione di interventi, quando uno degli oratori iniziò a parlare di alcuni miei risultati sul momento angolare complesso, e in particolare di certi poli, e cioè punti di discontinuità delle funzioni, chiamandoli «poli di Regge». Nel corso di quella giornata, nove interventi su dieci erano incentrati o facevano riferimento ai poli che avevo introdotto. Parlavano di me quasi fossi il proprietario di quei poli. La situazione mi appariva decisamente surreale: all’epoca mi sentivo ancora un ragazzino immaturo, ero del tutto impreparato psicologicamente. Dovetti fare uno sforzo di pensiero per rendermi conto che il Regge di cui si parlava ero proprio io. Wataghin, invece, era tutto eccitato. Mentre tornavamo in auto a Torino mi urlava nelle orecchie: «Regge, tutti parlavano di te! Sono cosà contento per te!» E io non sapevo proprio che cosa rispondergli: ero contento anche io, naturalmente, ma non sapevo come schermirmi, mi mancavano le parole e mi sfuggivano le conseguenze. Insomma, ero anche imbarazzato. Iniziai a capire negli anni successivi, a piccole dosi. Ogni volta che mi capitava di visitare un istituto di fisica delle alte energie, vedevo che molti mi riconoscevano e dicevano: «Ehi, ma lei è quello dei poli». Ero diventato improvvisamente una celebrità . Sarò onesto fino in fondo: di tutto mi sarei aspettato nella mia carriera fuorché il successo di quei poli, che ero stato quasi tentato di considerare un errore di percorso, un vicolo cieco.
Anni dopo, quando ricevetti un importante premio per il mio contributo alla fisica, mia mamma commentò in buon piemontese: «Tò papà as pisserìa acòl». Lei intendeva dire che se la sarebbe fatta sotto dall’emozione. Ma, secondo me, se avessi potuto spiegargli che, per qualche giorno, ero stato tentato di buttar via una delle mie migliori scoperte, se la sarebbe fatta sotto per il gran ridere.
La fortuna dei poli.
Negli anni Cinquanta sia i raggi cosmici sia gli acceleratori di particelle ci mettevano di fronte a una zoologia molto ampia di particelle e di fenomeni nucleari che, in assenza di una teoria complessiva, non riuscivamo a interpretare. Uno strumento utile per capirne di piú sulla interazione e sulla natura di queste particelle era la già citata matrice S. I suoi elementi erano definiti in modo da poter calcolare la probabilità (l’ampiezza di diffusione, per la precisione) di passare da un certo stato iniziale a un determinato stato finale.
In questo contesto, mi misi a studiare certe proprietà matematiche – l’analiticità – delle ampiezze di diffusione in un caso particolare: quello dei cosiddetti «potenziali centrali». Avevo introdotto la nozione di momento angolare complesso e, come mi mostrò il congresso a cui mi riferivo, questo metodo si rivelò di grandissimo successo. La mia teoria era non relativistica, e in quegli anni i fisici californiani Geoffrey Chew e Stanley Mandelstam si occupavano di un problema simile a energie molto piú elevate. Si accorsero che la mia teoria poteva essere estesa a velocità relativistiche e dunque a urti come quelli che si ottengono con gli acceleratori contemporanei. Poteva inoltre essere derivata una relazione, la «traiettoria di Regge», tra il comportamento ad alta energia e le masse e i momenti angolari delle particelle (e delle cosiddette risonanze, stati instabili che decadevano rapidamente). Nel complesso, si stabiliva un ponte tra fisica di bassa energia (particelle e risonanze) e alta energia (andamento asintotico delle ampiezze d’urto). Non era mai accaduto prima.
Con gli anni, la teoria divenne un potente metodo di calcolo all’interno di un apparato interpretativo generale, quello della cromodinamica quantistica. E alla fine degli anni Sessanta, grazie ...