Poche parole, moltissime cose
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Poche parole, moltissime cose

  1. 216 pagine
  2. Italian
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Poche parole, moltissime cose

Informazioni su questo libro

Leggi un estratto *** A volte l'amore arriva dopo una vita intera spesa a rincorrere ciò che si credeva fosse davvero importante. E quando si riesce finalmente ad acciuffare il diritto a essere felici, c'è il rischio che gli altri non capiscano - come se tanta gioia di vivere fosse quasi scandalosa. Così succede a Olga e Sergio, una coppia di vecchi innamorati che spiazzando tutti scappa senza lasciare tracce. E soltanto la piccola Nanà, l'unica custode del loro segreto, sembra comprendere fino in fondo la forza dirompente di quel gesto. Un romanzo sulla tenacia dei sentimenti, sulle risorse che ciascuno di noi neppure immagina di avere. Finché il destino non viene a chiedere il conto. Nanà è appena tornata dalle vacanze estive. Mentre i suoi genitori sono indaffarati a disfare i bagagli, lei è la prima a dare l'allarme: nonna Olga è fuggita con Sergio.
La coppia viveva una complicità silenziosa e tenace che nessuno - nemmeno i rispettivi figli, che infatti mal sopportavano quell'amore senile - riusciva a comprendere fino in fondo. Ora che i due se ne sono andati senza dire una parola, senza lasciare un biglietto, quell'ingombrante assenza sembra accusare chi è rimasto. Sulle loro tracce provano a mettersi Ivan e Albertine - il figlio di Sergio con la fidanzata franco-palestinese -, insieme a Pietro e Bruna, genitori di Nanà, in una ricerca che coinvolge persino Abramo, il cucciolo che la bambina ha appena adottato.
Interrogarsi sul perché di quella fuga finirà per mettere in scacco le apparenti certezze di tutti loro, inchiodandoli al momento presente. Perché adesso che Olga e Sergio sono chissà dove, di fronte a tanta incauta intraprendenza ogni cosa sembra essere improvvisamente finita sotto la lente d'ingrandimento, mostrando le crepe che minacciano il crollo.
Con una scrittura calda e decisa, capace di indagare in profondità le sfumature dei legami affettivi, Rossella Milone restituisce sulla pagina l'amore, le bugie, la ricerca delle radici, i non detti e tutte le complessità che si annidano in ogni famiglia. Tenendo lo sguardo fisso sui personaggi senza mai rinunciare alla forza espressiva del suo stile - con quell'istinto che è proprio dei narratori - l'autrice compone una storia di straordinario impatto emotivo. Fino a mostrare al lettore che, anche quando sembra troppo tardi per ribaltare un'esistenza - e le parole non bastano più -, l'unica cosa che possiamo fare è ricominciare da capo.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2013
Print ISBN
9788806213350
eBook ISBN
9788858408933

Cinque

Marcel non la toccò per tutto il viaggio. In seguito – dopo il matrimonio – le confessò che ne aveva avuto molta voglia. L’avrebbe afferrata per le spalle, per esempio, per farle sentire che poteva appoggiarsi. Ma non osava e non voleva turbarla ancora di piú. Le sorrideva spesso, questo sí; l’aiutò a sistemarsi prima sull’auto dell’Unrwa, poi sull’autobus; le portò l’unica valigia che aveva preparato – con pochissimi vestiti, qualche sandalo, dei libri; le prestò i suoi occhiali da sole. Capitava che porgendole un documento da esibire ai check-point, o una bottiglia di succo di frutta, o la carta d’imbarco, le loro dita si sfiorassero, e lui allora premeva per sentirne le ossa sottili; non era proprio una carezza ma una promessa, che una volta arrivati – con calma e al sicuro e presto – avrebbe mantenuto, per moltissimo tempo. Nadia non rispondeva né ai sorrisi né a quei suoi piccoli gesti; rimaneva asciutta come un lenzuolo steso al sole. Non parlava e non chiedeva nulla. Faceva quello che doveva fare; diritta, impettita. Sapeva, da qualche parte nel corpo, che una volta salita sull’aereo (non ne aveva mai preso uno, e avrebbe emesso un piccolo sorriso solo allora, nel momento del decollo), sapeva che dal cielo e dalle nubi sarebbe sbucata un’altra Nadia, con altre braccia e altre gambe da rimettere in piedi.
Marcel non le aveva dato il tempo di pensare troppo. Da settimane aveva preparato i documenti, comprato i biglietti, allertato le conoscenze giuste, studiato il tragitto per incontrare meno check-point possibili.
Un pomeriggio, seduti sulla cassetta del maftoul, aveva atteso che Nadia schiacciasse la sigaretta sotto la suola consumata dell’infradito.
Quel giorno, al centro, mentre lei faceva la fila per recuperare altri libri, l’aveva vista impaziente, distratta. Problemi con Ismail, aveva pensato. Preoccupazioni. Ma doveva esserci qualcosa di piú, perché mentre lui si spostava a destra e a sinistra per i corridoi arroventati Nadia lo seguiva ovunque con gli occhi. E non erano occhi mansueti, né scagliavano la loro solita, sfacciata promessa erotica; erano occhi scettici. Severi, di chi pretende che le promesse fatte vengano mantenute.
Marcel leggeva in quella faccia, immersa nel hijab azzurro, la gonna che si sollevava appena attorno alle gambe incrociate, che Nadia lo stava giudicando.
Dietro la scuola, seduta sulla sua cassetta, lei aveva schiacciato la sigaretta sotto al piede, sbuffandogli in faccia l’ultima boccata di fumo. Aveva detto: «Nous pouvons aller», scandendo per bene le parole, dimostrandogli quant’era stata brava a imparare la sua lingua. Lo aveva guardato, incontrando i suoi occhi non si era mossa di un millimetro, non aveva sussultato, né aveva percepito una contorsione all’altezza del pube come era successo a lui; aveva solo aggiunto: «Sono pronta».
Nadia non aveva salutato nessuno. Né i suoi amici e compagni di corso, né sua madre, né sua sorella Maryam, né Ismail. Aveva fatto quello che andava fatto, aveva compiuto il suo personalissimo atto di fede. Era andata via e basta.
Avrebbero dovuto essere giorni di festa, perché Kippur e Ramadan cadevano nello stesso periodo. Ma nessuno ebbe il tempo o la possibilità di festeggiare, tantomeno pregare: le strade erano deserte, Nadia e Marcel procedevano cauti diretti a Tel Aviv.
Avevano avuto pochissimi problemi, in giro c’erano soltanto sfoltite pattuglie di controllo, ovunque si respirava confusione e isteria; chi dalla radio, chi dalla televisione, chi dalle chiacchiere per strada, erano tutti impegnati a capire se e dove ci sarebbe stata un’altra guerra. Quando gli egiziani sarebbero avanzati di quindici chilometri nel deserto del Sinai, Marcel e Nadia erano già in volo.
Mentre scartocciava un pacchetto di biscotti distendendo le gambe sotto il sedile di fronte, cercando di scacciare la tensione di quelle ultime ore, Marcel continuava a chiederle: «Stai bene?», e lei annuiva, tutte le volte, guardando fuori dal finestrino.
Non sapeva se le piaceva tutto quel silenzio – il leggero borbottio delle altre persone, il fruscio costante del motore, qualche colpo di tosse; rumori di una normalità dilagante che la mettevano in allerta. Era abituata a decifrare ogni movimento, ogni suono. Scappare? Fermarsi? Proteggersi? Ora poteva permettersi il lusso di stare seduta in ascolto, e questa era una paura nuova, che avrebbe imparato a conoscere. Fuori scorreva ogni cosa e niente. Le nuvole, il blu. Era un cielo pesantissimo che mentiva, e lei ci stava passando in mezzo. Non sapeva se fosse possibile scavalcare il cielo, ma di certo tutto quello spazio era rassicurante.
Disse: «È come se si svuotasse lo stomaco».
«Sono i vuoti d’aria».
«Forse dovrei mangiare qualcosa».
Lui le diede un paio di biscotti, poi la fece bere dalla sua bottiglietta d’acqua e le spolverò via delle briciole dal colletto, e tutto gli parve cosí naturale da pensare che fosse stato sempre cosí.
«Com’è casa tua?», chiese Nadia.
«Carina. Ha poche stanze ma è spaziosa. C’è un terrazzino che affaccia sulla piazza, che si riempie di foglie e di umidità per via del fiume. La sera si rischia di schiacciare le lumache».
«Ci saremo solo noi?»
«Se vuoi. Oppure mi trovo una stanza, finché non ti abitui».
Lei scosse la testa, anche se non sapeva bene cosa comportasse questa negazione. Non voleva certo rimanere sola in una casa sconosciuta, in una città sconosciuta. Di Marcel conosceva quello che le serviva – la sicurezza, la tranquillità –, e se lo fece bastare.
«Hai sempre vissuto lí?», volle sapere.
«Sí. È una piccola casa che apparteneva ai miei».
«Cosa c’è?»
«Tutto… C’è tutto il necessario, credo. Non ci torno da un po’, sarà umida e fredda, ma va via subito».
«Sei sempre stato solo?»
«Cosa?»
«Ci hai sempre vissuto da solo?»
Marcel esitò un istante: «Sí».
Da lí sopra la sua terra in posizione fetale, rannicchiata tra il mare e il deserto, si rimpiccioliva man mano che si allontanavano, e Nadia non sapeva se fosse davvero per i vuoti d’aria o per la fame, quella specie di nausea che le allargava lo stomaco, o per via del dolore che stava arrecando.
Erano arrivati qualche giorno prima. Ismail aveva ricevuto un’ingiunzione: lo accusavano di aver costruito senza licenza, ma non immaginava che sarebbero venuti tanto presto.
Arrivarono all’alba, con un caterpillar e alcuni soldati di scorta per sedare eventuali sommosse. Ma non c’erano state reazioni, perché la casa era disabitata, le finestre non ancora montate e l’ingresso senza porta. Ismail era al lavoro, e qualcuno dei suoi vicini, dei conoscenti, degli amici, era accorso per via del boato che fa il terreno quando si stacca una casa come un tappo. I suoi fratelli piú piccoli erano a scuola o in giro a fare chissà cosa, e allora la madre di Ismail si era limitata a correre lí davanti, né troppo stupita né troppo preparata; a un certo punto si era messa a gridare, inginocchiata per terra come se stesse pregando. Amici e conoscenti si erano limitati a osservare, chi inveendo, chi sputando. Ma la casa veniva giú, pezzetto dopo pezzetto, come la pelle secca che si stacca dal corpo.
Ismail e Nadia ritornarono nel pomeriggio, e videro.
La madre di Ismail era ancora seduta sulle macerie – sulla collina di cemento e ferro che sprigionava l’odore di ruggine. Intorno c’era confusione, grida, insulti, la minaccia di qualche manganello, gli ordini secchi dei soldati, il motore del caterpillar che ronfava in sottofondo, come un leone sazio. Ma in realtà era tutto fermo – ogni cosa era immersa nella nube rossastra dei detriti, che pareva bloccasse i gesti a metà, le parole, le domande. I cipressi li circondavano immobili, immobili erano le autobotti lungo la strada e i passanti che si fermavano, per guardare e commentare: «È successo di nuovo».
Ismail riuscí a scorgere la lavatrice. La stanza da bagno mezza sventrata. Il letto matrimoniale capovolto e spezzato al centro, con le reti scagliate qualche metro piú in là.
Nadia guardava quello che rimaneva di loro, i giorni e le notti che non avrebbero vissuto, con la stessa indifferente fermezza che aveva avuto quel pomeriggio in cui Ismail le aveva mostrato la casa per la prima volta, intatta e pronta.
Eppure quando Nadia si mise a prendere a piccoli calci i resti, nel suo modo di camminare lento, in quello attento con cui osservava la scena, nel modo in cui gli rispose («Non dici niente?», le chiese lui, come se fosse colpa sua; «Non ho niente da dire») pareva che l’unica a muoversi, in quella cornice rossastra, fosse lei. Un movimento quasi invisibile, ma definitivo. Decise di partire in quel momento, un piccolo istante uguale a quello che impiega una casa per crollare. Un tempo cosí breve che si accoglie con il sospiro del sollievo.
Ismail non aveva forza per domandare altro, né per disperarsi. Era stanco. Si chinò a raccogliere dei sassi – scheggiati, rettangolari come mattonelle – e se li mise in tasca. Non sapeva cosa ne avrebbe fatto, né che avrebbe conservato quelle pietre per moltissimo tempo.
«A cosa pensi?», le chiese Marcel, vedendola tanto assorta mentre fissava davanti a sé, torturando con le dita gli angoli del dépliant nella tasca del sedile di fronte.
Nadia scosse la testa, e si appoggiò allo schienale, le mani composte sulle ginocchia. C’erano diverse donne, nell’abitacolo, donne europee soprattutto, e alcuni altri uomini che la guardavano appena. Ma lei sentiva un disagio appiccicoso che sperava sarebbe scivolato via col tempo.
Non raccontò a Marcel della casa di Ismail. Al momento non se la sentiva; il pensiero di dirlo ad alta voce, di nominare la sua fuga, la terrorizzava piú del resto.
Aspettò che la tranquillità di place Dauphine placasse quel terrore, e che smorzasse il potere di quell’ammissione. Glielo avrebbe confidato quattordici anni dopo; quando avrebbe raccontato ad Albertine e Marcel la storia della casa di Ismail, tutta quanta, una sera; cercando di restituire alle parole la concretezza esatta di quella devastazione. Ma si sarebbe accorta che non erano in grado, le parole. Cosí cominciò a scriverle, cominciò a scriverle nelle lettere, e si convinse che questo potesse bastare.

Non aveva mai aperto la cassetta delle lettere, era un’abitudine che ancora non riusciva a prendere, di solito se ne occupava Ivan. La posta di Albertine continuava ad arrivare nella vecchia casa sulla Casilina, dove il nuovo inquilino raccoglieva per lei le giacenze. C’erano varie buste arretrate: la prima bolletta della luce, il primo pagamento per il condominio, della pubblicità. E poi c’era una lettera indirizzata a lei e a Ivan. Non aveva mai ricevuto qualcosa da quando si era trasferita lí; non aveva mai ricevuto qualcosa indirizzato a entrambi.
Rientrò in casa e appoggiò tutto su uno degli scatoloni, poi andò a sciacquarsi le mani e il collo; sbottonò la camicetta, la gettò sul letto, si sfilò i jeans e con la pelle che sfrigolava di sudore andò a sedersi sul divano. Seduta sulle bolle d’aria che ancora lo avvolgevano, strinse i talloni contro i glutei e cosí, ferma, osservò la finestra di fronte. I cipressi del Verano lí in fondo, immobili come in una cartolina. Il cartellone con la pubblicità di un film di Tim Burton. Un camion, lungo la strada di sotto.
Ivan non c’era. Se ne rendeva conto dal modo in cui il silenzio stava morendo sulle pareti; un lento assopirsi della luce, della polvere agonizzante nell’aria, dei suoni bassi che lei non sapeva ascoltare. Ci voleva l’orecchio di Ivan per capire cosa stava dicendo quella casa.
Il momento peggiore era la mattina, quando si svegliava con un vuoto nello stomaco, un peso che incurvava il suo stare in piedi – nemmeno un figlio avrebbe pesato tanto. Si era sorpresa di riconoscere questa debolezza. Si era sorpresa della sua incompletezza, e l’unica cosa che le rimaneva da fare era unirla a quella di Ivan.
La mattina era sempre stato il momento peggiore. La mattina era quando Nadia restava a letto sebbene avesse smesso di dormire da un pezzo, e anche se Albertine andava a spalancare la finestra la luce non le apriva gli occhi, e nemmeno l’odore della sabbia finissima che copriva la piazza, tra i castagni intrappolati in comode gabbie di ferro bombate. Gli alberi avevano poche foglie dorate, e qualche colombo passeggiava tra le panchine. Sua madre era un ghiro in letargo e non si accorgeva che stava facendo giorno.
La dovevano scuotere con del latte bollente, col caffè, o con un brodo di sedano e zucchine. E quando finalmente apriva gli occhi pareva che se ne dispiacesse moltissimo; come se fosse troppo doloroso scoprire, un giorno dopo l’altro, di essere ancora viva.
Marcel le faceva la doccia e la vestiva con lunghe, comode casacche colorate. Lei non voleva mettere piú il velo, e col tempo tutti i foulard, gli scialli, le mantelle, tutte le cose lunghe – le tende, le lenzuola, le cinture, i lacci delle scarpe – furono regalate o messe da parte. Tolsero anche le chiavi a ogni porta, Marcel aveva una sola lametta per la barba che portava con sé al lavoro, le medicine le conservava Albertine in un cassetto chiuso a chiave.
La mattina era l’attimo in cui anche la colpa e il dolore si svegliavano con Nadia. Soltanto di sera pareva rianimarsi un pochino, quando la stanchezza prendeva il sopravvento su tutto; in quei momenti si metteva a scrivere seduta sul tappeto, con Marcel e Albertine che cenavano sul divano e le chiedevano se volesse un po’ di frittata, e lei rispondeva sempre di no. Poi tornava a scrivere.
Albertine si decise ad aprire la busta, e per un istante, leggendo il nome della città da cui proveniva, col cuore che guizzò, pensò che fosse di Sergio.
In quel momento squillò il telefono – non quello di casa, non avevano ancora attivato la linea. Recuperò il cellulare dalla borsa, accogliendo con indulgenza la banalità della sua speranza: che fosse Ivan. Era Fatima, invece, che la salutò gridando certe parole sconclusionate e allegre, e poi le passò Zora: – J’ai signé! J’ai signé! – gridava. – Ho fatto, tutto a posto. La casa c’è. Je n’y crois pas…
Albertine le disse che era molto contenta; era anche assai sorpresa, ma non lo diede a vedere. Fatima – la sentiva urlare con gli altri bambini di Casa Babele – le parve finalmente una bimba piccola, con le urla, il chiasso, la felicità cruda nella bocca. Albertine le disse ch...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Poche parole, moltissime cose
  3. Uno
  4. Due
  5. Tre
  6. Quattro
  7. Cinque
  8. Ringraziamenti.
  9. Il libro
  10. L’autore
  11. Dello stesso autore
  12. Copyright