«È a Roma, che ci siamo conosciuti. È stato proprio il primo anno di guerra. Che uomo, era! Se l’avessero visto allora! Roma gli faceva bene – l’aria di Roma in quegli anni. “Questa città mi fa bene, – diceva, – mi fa bene come una cura termale”. Un fenomeno, era, una roccia. È sul lago, qui, che mi si è spento. Da quando siamo arrivati qui... A me il nord è sempre piaciuto, ma lui... Ha incominciato a invecchiare – anche se era sempre un uomo bellissimo... Fino alla paralisi, qualche anno fa. Un supplizio, per un uomo come lui. Ma allora, a Roma, se lo avessero visto... Un eroe – con la bella divisa, i nastrini, le decorazioni...»
Cosí, come la partenza, sparata, di una formula uno – che in qualche secondo è già al massimo. Via! Giú, a Roma, al principio! Aveva incominciato a raccontare come se ci si fosse preparata da un mucchio di tempo, come se aspettasse soltanto l’occasione buona per dar fuori con il suo racconto, con il suo poema. Sí, un poema, davvero! Con il suo bravo eroe. E recitato, il poema, nel corso di una specie di veglia funebre. Noi, inaspettati, le mancavamo. Per chi lo avrebbe tirato fuori, il poema, se noi non fossimo arrivati? Pensarle, le cose – poemi o altro che siano – non è certo lo stesso che dirle a qualcuno che stia ad ascoltare.
«Io lavoravo da una modista che aveva il negozio vicino a via Nazionale. Il mio sogno era fare l’attrice. Ero una ragazzina, ma ero fatta bene, sembravo piú grande. E lui è venuto in negozio, accompagnava una sua amica. Una aristocratica. Una signora alta... Non era tanto giovane – ma che bella! Mi ricordo che ho pensato: una diva! E poi: No, una Dama! Lui sembrava che non mi avesse neanche visto. Guardava in aria. Continuava a dirle, alla Dama: Perfetto! Ma il giorno dopo, all’uscita del negozio, la sera... Me lo avevano detto, le mie colleghe, le ragazze che lavoravano con me dalla modista... Stacci attenta! Che a tutte, aveva fatto la corte, proprio a tutte!»
Quante volte se l’era raccontata, questa storia? Ci doveva aver lavorato per anni – intanto che il suo Principe Nero, portato nel clima sbagliato, andava a farsi fottere. E probabilmente doveva essersela aggiustata secondo i suoi desideri e le sue nostalgie, quella storia. Qualche correzione, qualche cambiamento... Ma ci metteva un tale entusiasmo... Sembrava che per lei raccontare fosse un po’ come mettere in mostra le sue cose piú preziose, e non tanto per ricavarne in cambio un po’ di ammirazione, quanto per ostentarne il possesso, e il suo potere di disporne.
«Ero appena uscita dal negozio, la sera, che l’ho visto. Stava lí, fermo, immobile... Ma giuro, sembrava che avesse addosso la corrente elettrica! E, dietro di lui, stava ferma un’automobile splendida, con il motore acceso. Lui si è mosso per venire verso di me – e a me è caduto di mano tutto quanto – un pacco che avevo, la borsetta...»
Gliela aveva raccolta da terra lui, la borsetta, a quanto sembrava. Del pacco non si era curato. E poi aveva preso la ragazza per mano e senza dire niente l’aveva portata verso l’auto, e poi aveva aperto la portiera. Dentro, c’era la signora che era venuta con lui al negozio. Anzi, la Dama. Perché nel racconto il suo nome era ormai, stabilmente, la Dama. La Dama le aveva sorriso. «Vieni, cara!» Un sussurro. E a lei per un momento era sembrato di soffocare, non tanto per l’emozione o per lo stupore, quanto per tutto quel profumo che riempiva l’automobile. Tutto quanto era cosí inverosimile da non sorprenderla neanche. Le mani, si ricordava, della Dama – mani che le si muovevano affettuose e con molta eleganza davanti agli occhi, che le sfioravano i capelli. E «Cara!» e ancora «Cara!» – tutto un bombardamento sussurrato alle sue orecchie... Si ricordava di aver provato una grande curiosità un po’ ansiosa a proposito di qualcosa che certo stava per capitarle immancabilmente, lí, sui sedili troppo morbidi di quell’auto. E poi, alzando gli occhi, aveva visto i nastrini colorati e i bottoni scintillanti sull’uniforme del Comandante.
«È stato da allora, da quel preciso momento, che sono stata sua. Capiscono quello che voglio dire? Una cosa di sua proprietà, e cosí orgogliosa di esserlo...»
«Sua!» diceva. E parlava di orgoglio. Ma l’orgoglio e tutto il resto dovevano esser venuti dopo, anche se questo lei non lo aveva detto. Prima doveva esserci stata soltanto una specie di quieta attesa che l’inverosimile continuasse. Perché lei, Sibilla, la ragazzina di quel racconto, non doveva aver pensato neanche per un momento di potere in qualche modo intervenire, o reagire, o anche soltanto resistere. Adesso bastava aspettare. E piú erano strane, le cose che stavano capitandole, piú lei si sentiva tranquilla, protetta proprio da quella irresistibile stranezza che stava disponendo di lei.
«Cosí, mi sono lasciata portare via senza dire niente. E lui mi ha portato a casa sua. Una bella casa grande, una villa appena fuori Roma. Mi ricordo i cani. Una paura! Certi cani enormi... Avevo ancora paura, dentro, in casa. Per tutta la sera. E anche la notte. Li sentivo abbaiare...»
Poi, dopo cena, la Dama e il Comandante – quella coppia da vera e propria fiaba, legati com’erano a un ruolo, nel suo ricordo, in quel punto, piú che a una fisionomia – l’avevano portata in una grande stanza, e qui la Dama l’aveva spogliata e lavata e messa a letto. Proprio come in una fiaba. Una bambinona, decisamente un po’ troppo grossa, deposta con ogni cura fra nubi di pizzo e, ancora, ondate di profumo. Con la Dama che continuava a sussurrarle «Cara!» nell’orecchio e il Comandante che assisteva a tutta la cerimonia stando in piedi a braccia conserte al centro della stanza. Poi si era trovata sola, al buio. In giardino abbaiavano i cani. “Che paura!” aveva pensato. Ma il suo stato non corrispondeva a quelle parole pensate. Le piaceva sentire sulla pelle quelle lenzuola cosí leggere, cosí morbide. E le piaceva ricordare lo sguardo del Comandante che la guardava. Comunque, aveva pensato ancora: “Che paura!” E poi, di colpo, si era addormentata.
«Non mi ricordo neanche quanto tempo è passato – quanti giorni, o settimane, o mesi... Io non avevo nessuno a cui dare notizie o chiedere consigli. E la modista, certo, lei non si preoccupava di cercarmi. Avrà pensato che mi ero sistemata. Si sistemavano tutte, prima o poi, le sue ragazze.
«Io lí me ne stavo proprio tranquilla. Capire? Non ne avevo né voglia né bisogno. Mi bastava quello che mi stava capitando. Mi bastava, e come! Era la stessa cosa tutti i giorni. Mi svegliavo che loro erano già usciti, e una cameriera mi portava vestiti nuovi, e poi la colazione, e poi mi serviva, giú, nel salone, il pranzo e la cena. Passavo tutto il giorno nella veranda a guardare i cani, fuori, in giardino. E sentivo i dischi. C’erano pile di dischi... Tutti dischi d’opera. Un mucchio! Non capivo una parola, ma mi piacevano».
Tutto quanto doveva proprio aver l’aria di una specie di fiaba. Una ragazza infagottata in enfatici vestiti da bambina – e intorno quel luogo vero che si raddoppiava nella tumultuosa cartapesta della sua fantasia, e poi quelle musiche esorbitanti, con voci che venivano chissà da dove a fingere, esagerando, vittorie e sconfitte, e soprattutto a rivendicare nella tecnica degli acuti interminabili il valore e il costo di quelle finzioni...
Di che cosa rideva, lei, ogni tanto? L’aveva detto: «Ogni tanto mi scappava da ridere...» Fatto sta che, ridendo o stando seria, lei volava da un capo all’altro di quella casa e di quei pomeriggi come lo sciocco uccello, innocente e in trionfo, di qualche paradiso. La musica la teneva su. E colmava ogni vuoto. Fino alla sera, quando l’Orco Buono e la Dama tornavano a casa. Ecco il profumo! Ecco il battere degli stivali! Entrava, la coppia. Sempre regali, le portavano. Altri vestiti, scatole di dolci... Glieli ammucchiavano davanti come offerte votive. Ci mancava poco che le appendessero qualche banconota alla blusa.
A tavola, per tutto il tempo della cena, lei stava in silenzio a sentire quei due che parlavano fra loro. Non capiva niente. Capiva, cioè, le parole, ma non quale fosse il senso che doveva tenerle insieme. Era come se il loro italiano fosse proprio un’altra lingua, una lingua straniera nel significato. Ogni tanto smettevano di parlare e guardavano dalla sua parte. La Dama sorrideva. Il Comandante continuava a mangiare.
«Faceva un tale caldo, in veranda... “Venga in salotto, signorina” mi diceva la cameriera. Ma a me piaceva stare in veranda anche di pomeriggio, quando il sole picchiava su tutte le vetrate da farle scottare, ma proprio roventi, che non si poteva toccarle. Stavo lí, a mettere su un disco dopo l’altro. E intanto leggevo i nomi sulle etichette rosse. “La voce del padrone”... Otello... Aida...»
Le testoline rintronate dal sole, i cani si distendevano enormi sull’erba ben curata, a sognare massacri. Da un lato della veranda, di là dal prato in discesa, si vedeva Roma. Tremolava, l’aria, tra cupole e campanili. Io la vedevo, adesso. Vedevo Roma e tutto il resto. Adesso il racconto era già mio. Doveva essere come se Roma stesse bruciando senza consumarsi, e quella veduta di città fosse fatta del fumo di quel fuoco...
Come saranno stati, quegli anni – gli anni di quel racconto? Pigri, dovevano essere, pigri e eccitati. Anni ansiosi, ma sotto strati, pesanti, di ottusità. Che fosse quello, allora il combustibile? Non le cose, le case, ma tutta quella pigrizia bella solida, e quella volatile eccitazione e quell’ansia sepolta, quella rovina fra le tante...
E come avrà guardato, lei, la ragazzina, dalla sua paradisiaca veranda tropicale in orbita nel firmamento, quella gran veduta sontuosa e fin troppo intima, tutta quella variopinta mercanzia usata, squinternata sui sette colli? Rovesciando il binocolo, è probabile, l’avrà guardata. In modo che tutto quanto, tra il cielo gonfio di panna e il fiume denso di miele e la terra intrisa di merda, tutto quanto le sarà apparso in miniatura, ridotto a una figura grande un palmo, a una piccola illustrazione della sua fiaba personale.
Cosí lei aveva attraversato da un capo all’altro quei pomeriggi un po’ come si passa da un salone silenzioso all’altro in un grande palazzo abbandonato. Lei continuava a non voler capire. Aspettava ancora il seguito, aspettava che si voltasse la pagina. Finché, un pomeriggio, nella veranda era entrata di corsa la cameriera, agitatissima. «La guerra! La guerra!»
«Mi ricordo, era cosí felice che sembrava che cantasse anche lei. Tale e quale un disco, la cantante di uno di quei dischi d’opera. La guerraaa!»
Nel suo, di melodramma, l’acuto di quella voce doveva certo annunciare un gran colpo di scena. Lei aveva guardato fuori, di là dai vetri. La guerra! Sarebbe cambiato qualcosa? Ma non era cambiata la figura di Roma di là dalle vetrate. La stessa luce, sui tetti. E sotto i tetti lo stesso fuoco, clandestino, incruento. Roma era Roma. Che le urla guerresche, disperate senza saperlo, stavano già ricadendo, a pioggia, sulla testa di chi le aveva lanciate – quei centomila in adunata. Si consumava tutta in una volta, quella poca energia, quel quasi niente. Finiva in un po’ d’aria smossa. In una spolveratina – cipria, cenere – su tutte quante le cose, imperiali o meno, messe ad arrostire sulle famose antiche braci...
Lei era rimasta nella veranda, a guardare fuori. La guerra! C’era davvero, in un disco. «Guer-ra, guer-ra...» Cantava, affrettandosi, un coro. Dove avveniva, la guerra? E quando? Ma come se il “quando” fosse simile al “dove” – e allora avesse anche lui, naturalmente, il suo “altrove” il suo “in un altro posto”... Qualcuno, prima o poi, le avrebbe spiegato ogni cosa. O forse la radio. Certo, la radio! Aveva acceso la radio. Un grosso fruscio, una specie di disturbo radiofonico per tutta l’Italia, un gran raschiare di microfoni. E, ogni tanto, la voce trionfale dell’annunciatore.
«Non ho fatto in tempo a sentirlo, il discorso con la dichiarazione di guerra. Ho acceso la radio che era già finito. Ma si sentiva ancora la gente che applaudiva, gridava... Mi ricordo che la cameriera continuava a correre per tutta la casa come un’oca terrorizzata, o entusiasta. Io le dicevo: “Aspetta! Fermati, vieni qui!” Non capivo ancora bene che cosa fosse la guerra. Oh, l’avrei capito, l’avrei capito...»
E qualcosa aveva incominciato a capirlo, della guerra, quando in giardino era entrata, a tutta velocità, la grossa auto nera. Si era fermata di colpo proprio di fronte alla veranda, abbassandosi sulle ruote davanti, le gomme che scivolavano, frenate, sulla ghiaia. Era la prima volta che il Comandante tornava cosí presto. E stava già salendo lo scalone. A due a due, i gradini.
Lei aveva spento la radio. Si era messa il dito davanti alle labbra – per dire a chi di far silenzio? Fra un tuonare di porte sbattute, aveva sentito la voce del Comandante. Chiamava lei. «Sibilla!»
Adesso era proprio spaventata.
«Ho fatto le scale di corsa. Lo sapevo benissimo, perché mi aveva chiamata, sapevo quello che lui voleva, adesso. E, in fondo, non stavo solo aspettandolo, ma volevo anche che succedesse, e lo volevo con tutte le mie forze. Anche se ero piena di paura. E se ora lo racconto è perché voglio che non vada perduto niente, neanche le cose piú intime. Tutto è importante, in una storia – in una storia come questa, voglio dire, nella storia di un uomo cosí. Tutti i particolari, non crede? Lei, poi, ne faccia l’uso che vuole. Ma voglio che sappia tutto. Quando lui era vivo non ne avrei parlato, ma adesso...
«E poi, quel pomeriggio, nella sua stanza, è stato, nonostante tutto, la cosa piú vicina a un matrimonio che ci sia stata fra il Comandante e me – una specie di cerimonia, capisce quel che voglio dire? L’ho detto, che avevo paura? Sí, è vero. Per un momento, con il piede sul primo gradino, ho pensato che mi sarei voltata e avrei aperto la porta e avrei attraversato il giardino, di corsa... Ma è stato solo un momento. Un po’ come dire una preghiera, come giurare qualcosa sapendo che si farà proprio il contrario... Poi, su, di corsa! Non ho vergogna a dirlo. Di corsa! Lui mi aspettava, in mezzo alla stanza. Aveva addosso una vestaglia, una vestaglia bellissima...»
Raccontava, Sibilla, andava avanti. Lei era già lí, davanti a lui, e il Comandante continuava a chiamarla. Poi, la vestaglia, al dunque, era caduta, e fra un crepitio di stoffa inamidata lei era andata a fondo in mezzo alle piume. Adesso lui non la chiamava piú, invocava piuttosto il suo nome – «Sibilla!» – con un vocino inaudito, infantile... Finché, aprendo finalmente gli occhi, da sopra la spalla del Comandante Sibilla aveva visto ergersi ai piedi del letto, un po’ inclinata – molto inclinata, quasi sul punto di cadere – l’alta figura della Dama.
La Dama travestita! Perché era una specie di monaca bianca, in piena crisi, sull’orlo dell’agonia, o dell’estasi, quella che si affacciava oscillando, là, in fondo al grande letto. In costume. Appena sentito il discorso sulla dichiarazione di guerra, la Dama doveva aver tirato fuori dall’armadio la sua divisa da crocerossina e con tutta la premura consentitale dalla sua eleganza doveva averla indossata per correre dal Comandante, a dirgli, al guerriero: «Sono pronta! Oh caro, sono pronta! Oh, Comandante!»
Altro che “Sono pronta!” stava gemendo, adesso. Ma gemevano tutti. Un trio di gemiti. Che non sono poi molte, le vocali a disposizione. E lí, come succede, erano diversi soltanto i sentimenti che se le contendevano. Tutto uno scambio, un intrecciarsi di gorgheggi. Lei, stupefatta davvero, stavolta, la ragazzina, finalmente stupefatta, e il Comandante, malgrado tutti gli sforzi che faceva per tornare a galla, il Comandante sprofondato, perduto nell’angoscia solitaria dello scioglimento – proprio il momento giusto, per venire! – e lei, la Dama Crociata, ferita, offesa, bestemmiata, che quasi non bastava la forza distillat...