Era un paese di montagna, dico era perché nel 1916 la guerra lo ha prima incendiato e poi distrutto e raso al suolo; e anche se tra il 1919 e il 1922 è stato ricostruito, ora non è piú quello. La mia casa, la casa dove non sono nato, e che gli antenati avevano costruito cinque secoli fa, era al centro del paese e faceva angolo tra una strada che collegava le contrade a nord con la piazza. Quel luogo urbano era conosciuto da tutti come Kantàun vun Stern, l’Angolo degli Stern. Sulla piazza c’era la chiesa tutta in pietra viva in stile gotico-alpino e anche questa venne distrutta per farne una piú grande agli inizi del secolo scorso; davanti alla chiesa c’era il cimitero e poi un fosso dove correva il Pâch; al di qua del fosso continuava la piazza dove si tenevano il mercato e le due grandi fiere di primavera e d’autunno per l’inizio e la fine dell’alpeggio. Dietro il Kantàun vun Stern un altro torrentello, il Pâchelle, si perdeva nell’Hûmmel-loch, Buco del cielo.
Sulla piazza del mercato c’era una bellissima fontana di disegno settecentesco: tre gradini su base ottagonale sostenevano una grande vasca monolitica dove zampillava un’acqua purissima e freschissima; otto colonne tuscaniche sostenevano un tetto in pietra a forma di pagoda; due panche in marmo lavorato nel semiarco del muro attorno alla fontana, a protezione verso il Pâch e il Grabo, raccoglievano a sera i ragazzi e le ragazze innamorate; durante il giorno le donne venivano ad attingere l’acqua e gli uomini ad abbeverare i cavalli: qui nascevano gli amori.
Tutto questo ricordo nel mio non vissuto prima, per i racconti che mi facevano la zia di mio nonno e mia madre. Anche mio padre mi raccontava di questo antico borgo e della casa degli avi; ma il suo ricordo era accidentale perché il suo lavoro e la sua indole lo portavano verso altri interessi, e un po’ si vergognava di suo nonno e di altri familiari che erano stati funzionari dell’Imperiale e Regio Governo Asburgico.
La casa non era grande perché tra le prime in muratura costruite dopo quelle in tronchi, bruciate nel 1447 dai soldati di Sigismondo d’Austria. Le stanze erano basse, con il soffitto in legno, tranne al piano terreno che era in pietre e a volta. Sopra i tre piani il tetto era molto ripido, coperto di scandole e senza camini. Al piano terra c’era la stuba che guardava a mezzogiorno, verso la piazza; era tutta foderata di tavole, con panche, un cassone con i documenti di famiglia; un camino e una Madonna di scuola marchigiana dipinta su tela; i lumi ad olio erano due. L’altra stanza affiancata a questa era detta dunkel, scura, perché aveva solo una finestretta alta; qui venivano raccolti i manufatti e i prodotti che i miei commerciavano tra montagna e pianura e tra pianura e montagna. La vecchia amia Marietta mi raccontava di cataste di pezze di lino e di mezzalana che venivano tessute dalle donne del contado; e di mulinelli, aspi, arcolai, secchi di legno, fasce per il formaggio lavorati dagli artigiani: prodotti che i miei raccoglievano e commerciavano con Padova; e di orci di vino e di olio, sacchi di sale che portavano su dalla pianura a dorso di mulo per mulattiere impervie.
In corrispondenza della stuba, sul retro della casa, c’era la cucina; tutta nera, con il pavimento di Ston-platten, tavole di pietra rosso ammonitica; i secchi di rame appesi al soffitto a volta, i bronzi e le olle sugli scaffali, una grande tavola pesante in abete, il focolare, sgabelli e panche, sedie impagliate per i vecchi e le donne, e, appese alla cappa del camino, le otto lucernette per le otto camere. Dalla cucina una porta dava sul cortile selciato.
L’altra stanza a piano terra era adibita a magazzino-deposito per gli oggetti di uso comune per la famiglia e per il lavoro. Tra la stuba e la dunkel una scala in legno saliva ai piani superiori dove quattro e poi altre quattro camere davano riposo e amore. Ma, ripeto, queste camere erano piuttosto basse e anche un ragazzo, alzando un braccio, poteva sfiorare le travi del soffitto.
Le mura spesse, le finestre piccole, il legno usato senza parsimonia nei rivestimenti interni, il tetto ripido di scandole, riparavano bene la casa dai rigori invernali, che da noi sono sempre intensi e lunghi. Il riscaldamento era centrale: ossia i due camini che passavano nel centro della casa, e che funzionavano ininterrottamente, facevano anche da parete irradiante in ogni camera. Sopra, nell’ampia soffitta, le faville venivano spente all’uscita della camera fumaria da una pênna, cesta di vimini intonacata di creta: il fumo si spandeva nel vuoto e quello in soprappiú per degli sfiati in pietra fuoriusciva sotto lo sporto. In questa maniera sopra le stanze c’era sempre un cuscino d’aria calda, le strutture del tetto venivano conservate dal fumo e la neve lentamente veniva sciolta.
Dietro la casa, oltre il cortile, c’erano le stalle per i cavalli e i muli, il deposito dei finimenti e dei basti, il fienile e un deposito per la legna, le patate, le granaglie e le farine.
Di questa mia casa dove non sono nato sono rimaste ora solamente queste parole e la Madonna dipinta su tela che mio nonno, in quel maggio del 1916, riuscí a salvare tra gli incendi e le esplosioni.
Ricostruirono anche la casa piú grande e moderna che nel 1910 il nonno volle a meno di cento metri dalla vecchia; ed è qui che sono nato. Una casa di mezzo tra l’antico e il nuovo. C’erano sí i secchi di rame ma anche l’acquaio con il rubinetto, sí i bronzi e le olle per il focolare ma anche le pentole per la cucina economica raccolte in una credenza in noce; e la luce elettrica, i cessi interni. La stuba, ora stua, aveva un forno in cotto, un canapè, una pendola, una tavola grande in noce massiccio, sedie con il fondo di paglia colorata e sedie viennesi, una credenza a vetri per i servizi da tavola, una oleografia che rappresentava Gesú seguito dagli apostoli che attraversavano un campo di frumento, fotografie di bisnonni, di parenti morti in guerra e di altri parenti emigrati negli Stati Uniti e in Australia.
D’inverno, ogni domenica sera, era qui che si riunivano le donne e i ragazzi del parentado per giocare a tombola, e la prozia faceva per tutti il dolce vino brulé con la cannella. Il mio angolo serale, però, era il focolare della cucina: era qui che mi asciugavo i vestiti e le scarpe dopo aver passato il pomeriggio a giocare nella neve. Mi divertivo a battere sui tizzoni per vedere le faville salire a gruppi fitti fitti su per il camino, o a cuocere le patate sotto la cenere, o ad ascoltare le storie che mi raccontavano i famigli.
Ma quando divenni piú grande scopersi la soffitta; che era ampia come tutta la casa, alta, con grandi capriate di travi d’abete messe a incastri con grande maestria e che creavano nello spazio vuoti e pieni che mi affascinavano: dovevano essere cosí per sostenere il grande tetto che caricava tanta neve. Questo meraviglioso sottotetto, tra San Marco e Sant’Anna si riempiva di voli di rondoni e l’aria vibrava tutta; per loro lasciavamo aperta l’unica finestra che guardava a mezzogiorno. Su una trave parallela al muro piú lungo erano posati i finimenti dei cavalli (in quel tempo la famiglia aveva smesso alcune attività e i cavalli non c’erano piú), e io usavo le selle e le cinghie per i miei giochi. In un angolo c’erano le slitte, gli sci, un girarrosto fuori uso, un fucile Mauser senza percussore, un teatrino, un pezzo di aliante. Quale luogo piú fantasioso poteva sognare un ragazzo?
Ma anche la cantina era grande quanto il perimetro della casa, ci si poteva scendere per una rampa con un carro e il cavallo, ed era freschissima d’estate e tiepida d’inverno; le botti grandi e piccole erano allineate tutt’intorno sui supporti, e c’erano la macchina per imbottigliare, una cesta di cannelle in legno e una damigiana di dolcissimo sciroppo di lampone per noi ragazzi. Attorno a questa soffitta e a questa cantina, nostro regno erano anche il cortile con le cataste di legna, il portico con i carri, il fienile, il soppalco per la paglia, le staffe dove d’inverno facevo anche teatro con i burattini per i ragazzi e le ragazze della contrada. Venne la crisi degli anni Trenta, le morti, i licenziamenti dei famigli, e la grande casa incominciò a svuotarsi, a diventare silenziosa. E mi trovai soldato in guerra.
La mia terza casa fu un rifugio dell’inconscio e fisicamente non l’ho mai abitata. Dopo anni di guerra mi ero ritrovato in un grande Lager, in un angolo molto triste della Prussia orientale, ora diventato territorio dell’Urss. Baracche, reticolati, neve grigia, disciplina spietata, fame da morire e tanti Gefangen stipati in una promiscuità anonima. Numeri non nomi. Su un foglio di carta chissà come trovato, con meticolosità e pazienza disegnai la casa che mi sarei costruita al ritorno. Il luogo che avevo scelto era lontano da altre abitazioni, in un bosco che conoscevo molto bene e all’incrocio di due carrarecce, su un piccolo rialzo. Ma questa casa era come una tana sotterranea, con un posto per dormire, un posto per il fuoco, un posto per una ventina di libri; avrei vissuto di caccia e di bosco, e di un piccolo orto dentro una radura. In questa casa seminterrata, fatta con tronchi e pietre, terra battuta e muschio e cortecce, era prevista ogni cosa necessaria alla mia vita, e dopo quanto avevo visto e provato mi pareva l’unica soluzione possibile della mia esistenza. Non fu cosí, naturalmente, ma allora e in quel luogo, il progetto di questa casa teneva occupati i miei pensieri e sopiva la mia fame.
Oggi, dopo anni di lavoro, una casa me la sono disegnata e costruita; ed è semplice come un’arnia per api: comoda e tiepida; silenziosa ai rumori molesti che sono lontani e vicina ai rumori della natura; con finestre che guardano lontano, le cataste di legna sulle mura al sole e, oggi, con la neve sul tetto, sulle betulle e sugli abeti del brolo, sulle arnie, sul canile. E dentro nel tepore mia moglie, i miei libri, i miei quadri, il mio vino, i miei ricordi...
Da Amore di confine, Einaudi, Torino 1986.
Quando a settembre salivo lassú a cacciare le pernici bianche mi ricreavo osservandolo da lontano. In quella stagione non cercava l’ombra, il sole stentava a sciogliere la brina e al posterno il terreno restava gelato. Seduto sopra un sasso dove aveva ripiegato il mantello di lana grezza, guardava il paesaggio che da piú di sessant’anni aveva intorno da giugno a settembre: dall’ultima neve a sciogliersi per liberare i pascoli alla prima a scendere per coprirli; dall’esplodere dei colori primaverili al loro attenuarsi dopo i primi temporali estivi, al bruno rossiccio del settembre. Poi, dopo il 21, giorno di san Matteo apostolo, la montagna diventava selvaggia e inospitale, e lui e le pecore, allora, malinconicamente, avrebbero dovuto lasciarla per scendere tra le nebbie e la calaverna ad aspettare un’altra primavera.
Carlo stava là seduto con la pipa spenta tra le mani a guardare immobile e per lungo tratto il Gruppo di Brenta che nitidamente si mostrava in ogni piega, in ogni parete e in ogni neve dentro il cielo limpidissimo e senza nubi.
Non sapeva i nomi di quelle montagne, né delle altre sempre bianche e cosí lontane. O meglio, li sapeva sí, ma erano nomi che aveva dato lui con la sua fantasia e che nessun altro conosceva. Come dava un nome a quelle pecore che avevano segni o qualità particolari. Nomi segreti che non diceva a nessuno e che pronunciava a voce alta quando nessuno poteva sentirlo e il vento portava lontano il suono della sua voce e perdeva le parole per le rocce, i valloni, il cielo. (Ma io lo sorpresi una volta che mi ero ingrovigliato tra i mughi: chiamava per nome una pecora e questa correva da lui. Le prendeva la testa tra le mani e parlava sottovoce, poi la mandava via e ne chiamava un’altra).
Una pelle di montone gli copriva le ginocchia, ora che gli anni trascorsi e il primo freddo d’autunno gliele facevano dolorare. Ogni tanto con un gesto della mano spediva la sua cagna preferita a controllare il gregge che pascolava piú in basso, e quando aveva scrutato ben bene in ogni particolare il Gruppo di Brenta, l’Adamello e la Presanella, le montagne lontane ai confini con la Svizzera e l’Austria, allora si girava a ricevere il sole dall’altra parte del corpo e cosí poteva meditare sulla Cima XII e sull’Ortigara.
Sapeva ogni trincea, ogni postazione di mitragliatrice, ogni ricovero scavato dentro la roccia. Dov’erano state le batterie, le cucine, le mascalcie dove ferravano i muli, i posti di medicazione e gli ospedaletti da campo; i cimiteri, anche quelli piccoli, dove aveva sepolto i compagni dopo le battaglie. Nel 1917 era un giovane alpino, mi aveva detto mio zio che era stato il furiere della sua compagnia. Carlo mi considerava suo amico, ma di queste cose non mi ha mai parlato. Forse perché sapeva che anch’io ero stato in guerra in paesi lontani e mi vedeva andare solitario per queste montagne.
Ogni volta che salivo gli portavo giornali e riviste perché voleva essere informato di quello che succedeva nel mondo. Leggeva di sera, mi diceva, alla luce del fuoco dentro il suo piccolo rifugio di due metri per due. Dopo averli letti, stendeva i giornali sopra il tavolaccio, sotto le fronde di pino mugo, per essere protetto dall’umidità. Le pelli di pecora gli facevano da coperte. Un autunno gli portai il mio primo libro dove raccontavo della guerra in Russia e mi ricordo di averglielo visto ancora dopo tanti anni tutto consunto e affumicato.
Quando, dopo aver camminato per rocce e ghiaioni in cerca di pernici bianche, lo andavo a trovare seguendo il belare delle agnelle, mi sedevo accanto a lui per fumare in silenzio le sigarette di trinciato forte. Mi diceva: – Ti ho sentito sparare. Hai raccolto qualcosa? – Quindi gli chiedevo il permesso di abbrustolire la mia polenta sulle sue braci. Non voleva accettare una fetta di polenta o una fetta di salame o un sorso di tè, ma volentieri accettava un racimolo di uva americana. Se mi fermavo a riposare con lui, allora mi raccontava le storie della Croce del Diavolo, dell’Orsara, della Busa del Morto, della Valle dei Compari...
Quando alla fine di ottobre ritornavo lassú non trovavo piú nessuno. Carlo era lontano per la pianura, lungo i fiumi e le barene con il suo gregge. Guardando verso sud vedevo un mare di nebbia e lo immaginavo seduto su un argine, avvolto nel pesante mantello, la pelle di montone sulle ginocchia, la cagna accanto.
Da Sentieri sotto la neve, Einaudi, Torino 1998.
Lorenzo lavorava nella segheria fin da ragazzo ed era cresciuto, si può dire, tra legnami e tavolame. Il legno faceva parte della sua vita e la resina aveva impregnato anche la sua pelle. Quando verso la fine della giornata arrivavano dai boschi comunali i carri con i tronchi, era il piú lesto nello scaricarli: con destrezza li arpionava con lo zappino e li faceva rotolare dalle stanghe sulle cataste nello spazio antistante la segheria.
Alla sera, quando la sega aveva terminato il suo continuo movimento alternato restando silenziosa, e l’acqua era stata deviata per la gora di scarico, e le ultime tavole erano state riposte sui castelli, controllate a livella e separate tra loro da listelli di giusto spessore, Lorenzo si fermava a pulire i macchinari dalla segatura, a scopare il pavimento, a controllare che tutti gli attrezzi fossero al loro posto. Infine chiudeva i portoni con la grande chiave e la consegnava nelle mani del padrone. Si levava il berretto bianco di segatura e salutava: – Ci vediamo domani.
Al mattino era sempre il primo. In giugno e in luglio il sole illuminava i castelli di tavole e il buon odore di legno riempiva l’aria; a dicembre e a gennaio in valle era ancora buio, solo le cime piú alte incominciavano a schiarire, e sui depositi del legname e sui castelli delle tavole la neve, come sui boschi, rinchiudeva la natura nel suo manto. Il fumo dei camini si dileguava con l’arrivo del sole ma l’odore restava nell’aria.
Come arrivava in segheria, Lorenzo andava a controllare la temperatura sul termometro a mercurio e poi si avvicinava al padrone per chiedergli le chiavi.
– Buongiorno. Siamo qui anche oggi.
– Buongiorno, Lorenzo. Quanti gradi? – Sentita la risposta diceva sempre: – Non è piú il freddo di una volta, – e si alzava dal suo scrittoio per alimentare la stufa di cotto.
Lorenzo riapriva i portoni, immetteva l’acqua nella gora di entrata, faceva girare la ruota a pale, provava il marchingegno che metteva in movimento la sega. Intanto arrivavano il segantino e i due operai anziani.
A seconda degli ordini del padrone e in base alle richieste e alle giacenze, veniva regolata la distanza delle lame per ottenere gli spessori: se per palanche da sessanta, da cinquanta, da quaranta; se per tavole da trenta, da venticinque, da quindici; o per travi da maestra, o terziere, o correnti. Era sempre Lorenzo che sceglieva i tronchi adatti alla bisogna; e la sega incominciava su giú su giú su giú accumulando segatura.
Instancabile e agile, Lorenzo maneggiava i tronchi come fossero fuscelli, con lo zappino li allineava accanto alla sega, con occhio sicuro li presentava dalla parte giusta e in maniera da avere il minimo di scarto nella raffilatura. Qualche volta il segantino li raggiustava di un centimetro; insieme fissavano il tronco sul carrello di avanzamento, poi il segantino...