Il tuo volto domani. 1. Febbre e lancia
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Il tuo volto domani. 1. Febbre e lancia

  1. 384 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Il tuo volto domani. 1. Febbre e lancia

Informazioni su questo libro

«Non si dovrebbe raccontare mai niente»: è questo l'avvio. Ma subito contraddetto dall'accendersi e dal crescere di una costruzione narrativa libera e disinibita che mette in scena Jacques - il protagonista dai molti nomi - e il suo «dono» (o una maledizione?) che gli permette di vedere quel che le persone sono davvero, quel che faranno nel futuro. Nello spazio di un week-end, pressappoco, il protagonista partecipa a un'animata festa in casa di Sir Peter Wheeler, vecchio professore in pensione. Il mattino dopo ha modo di scoprire dai suoi racconti verità inaspettate sul passato e di apprendere quanto spazio occupino nell'animo umano la crudeltà del tradimento e della delazione.
Raccontando e raccontando nonostante l'indicazione iniziale, con tale ricchezza di eventi, situazioni e personaggi, la materia narrativa richiederà un continua, non di conclusione - difficile mettere un punto finale a questo fluire che tutto sembra avvolgere e portare con sé - ma di arricchimento, di ampliamento, avanti e indietro nel tempo, nella memoria e nella coscienza di sé e dell'altro.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2013
Print ISBN
9788806176631
eBook ISBN
9788858407332
Javier Marías

Il tuo volto domani

1. Febbre e lancia
Traduzione di Glauco Felici
Einaudi

Il tuo volto domani

Per Carmen López M,
che magari vorrà
continuare ad ascoltarmi

And for Sir Peter Russell,
to whom this book is indebted
for his long shadow,
and the author,
for his far-reaching friendship

I

Febbre

Non si dovrebbe raccontare mai niente, né dare dati né tirare in ballo storie né fare in modo che la gente ricordi degli esseri che non sono mai esistiti né hanno mai messo piede su questa terra né attraversato il mondo, o che invece ci sono passati ma erano già in salvo nell’orbo e incerto oblio. Raccontare è quasi sempre un regalo, compreso quando porta e inietta veleno il racconto, è anche un vincolo e un concedere fiducia, e rara è la fiducia che prima o poi non si tradisca, raro il vincolo che non si aggrovigli o non si annodi, e perciò finisca per stringere e si debba tirare di coltello o di lama per reciderlo. Quante delle mie rimangono intatte, delle molte fiducie concesse da chi tanto ha creduto nel suo istinto e non sempre ha fatto attenzione ed è stato ingenuo per troppo tempo? (Sempre meno, sempre meno, ma la diminuzione di tutto questo è molto lenta). Rimangono intatte quelle che ho posto in due amici che ancora le conservano, a fronte di quelle riposte in altri dieci che le hanno perdute o dissipate; quella esigua che diedi a mio padre e quella pudibonda che diedi a mia madre, molto simili se non addirittura la stessa, quella di lei oltretutto non è durata molto, ormai non può defraudarla o soltanto in maniera postuma, se facessi un giorno una brutta scoperta, e smettesse di nascondersi qualcosa di nascosto; non dura quella di mia sorella, e neppure quella di nessuna fidanzata né di nessuna amante né di nessuna moglie passata, presente o immaginaria (è di solito la sorella la prima moglie, la moglie bambina), sembra inevitabile che in quelle relazioni si finisca per usare quello che si sa o si è visto contro l’amato o il coniuge – o chi è risultato essere soltanto momentaneo calore e carne –, chi ha fatto rivelazioni e ha ammesso un testimone per le sue debolezze e per le sue afflizioni e si è prestato a confidenze, o semplicemente ha rammentato sul cuscino distratto ad alta voce senza badare ai rischi, né all’occhio arbitrario che sempre ci guarda né all’orecchio selettivo e sghembo che ci ascolta (molte volte non è affatto grave, un utilizzo soltanto domestico, difensivo e racchiuso, per caricarsi di ragione in un momento di difficoltà dialettica quando si discute a lungo, un uso argomentativo).
Arrecare offesa alla fiducia è anche questo: non soltanto essere indiscreto e provocare danno o rovina con ciò, non soltanto fare ricorso a quell’arma illecita quando i venti cambiano e si piglia di mira colui che ha raccontato e ha lasciato vedere – quello che si pente adesso e nega e confonde e intorpidisce adesso, e vorrebbe cancellare e tace –, ma anche trarre vantaggio dalla conoscenza ottenuta per debolezza o distrazione o generosità dell’altro, senza rispettare né tenere in considerazione la via attraverso cui si è arrivati a sapere ciò che si brandisce o si travisa adesso – o è sufficiente averlo enunciato perché ormai lo sfiguri nell’accoglierlo l’aria –: se furono le confessioni di una notte innamorata o di un giorno disperato, di un tramonto di colpa o di un risveglio desolato, o dell’ubriaca loquacità di un’insonnia: una notte o un giorno in cui chi parlava parlava come se non vi fosse futuro al di là di quella notte o di quel giorno e la sua lingua sciolta dovesse morire con loro, ignorando che c’è sempre altro che deve venire, rimane sempre, un po’ di piú, un minuto, la lancia, un secondo, la febbre, e un altro secondo, il sonno – la lancia, la febbre, il mio dolore e la parola, il sonno –, e anche l’interminabile tempo che neppure esita né rallenta il passo dopo il nostro compimento, e continua ad aggiungere e a parlare, a mormorare e a indagare e a raccontare anche se ormai non ascoltiamo e ci siamo taciuti. Tacere, tacere, è la grande aspirazione che nessuno compie nemmeno dopo morto, e io tanto meno, io che ho raccontato spesso e oltretutto per scritto in rapporti, e ancora di piú guardo e ascolto, anche se in cambio non chiedo quasi mai niente. No, io non dovrei raccontare né ascoltare niente, perché non sarà mai nelle mie capacità evitare che si ripeta o si aggravi contro di me, per perdermi, o ancora peggio, che si ripeta o si aggravi contro coloro che io amo, per condannarli.

E poi c’è la sfiducia, neanche questa mi è mai mancata in alcun modo.
È significativo come la legge ne avverta, ed è molto strano che ci avvisi, che si prenda il disturbo: quando qualcuno viene arrestato, almeno nei film, gli si permette di rimanere in silenzio, perché «qualunque cosa dica potrà essere usata contro di lei», gli si comunica subito. C’è in quell’avvertimento un animo strano – o è indeciso e contraddittorio – di non voler giocare sporco del tutto. Vale a dire, si informa il reo che le regole saranno sporche a partire da quel momento, gli si annuncia o gli si ricorda che si procede contro di lui in tutti i modi e che si sfrutteranno le sue possibili distrazioni, incoerenze ed errori – non è piú un sospetto, ma un accusato di cui si tenterà di dimostrare la colpa, di distruggere gli alibi, l’imparzialità non lo assiste piú, non tra oggi e il giorno in cui comparirà a giudizio –, ogni sforzo sarà indirizzato al conseguimento di prove per la sua condanna, ogni sorveglianza e ogni ascolto e ogni ricerca alla ricezione di indizi che lo incriminino e rafforzino la decisione presa di arrestarlo. E tuttavia gli si offre l’opportunità di tacere, quasi lo si costringe a tanto; in ogni caso gli si fa sapere di quel suo diritto che forse ignorava, e perciò gli viene a volte l’idea: di non aprire bocca, di non negare neppure quello per cui lo si sta imputando, di non esporsi al pericolo di difendersi da solo; tacere appare o è presentato come la cosa piú prudente sotto tutti i punti di vista e ciò che può salvarci anche se ci sappiamo e siamo colpevoli, l’unico modo in cui quel gioco sporco annunciato rimanga senza effetto o possa appena porsi in pratica, o almeno non con la involontaria e ingenua collaborazione dell’indagato: «Ha diritto a rimanere in silenzio», la chiamano la formula Miranda in America e non so nemmeno se un equivalente esista nei nostri paesi, a me l’hanno applicata una volta laggiú, molto tempo fa o non tanto, ma il poliziotto me la recitò in maniera incompleta, imperfetta, si dimenticò di dire «di fronte a un tribunale» nel pronunciarmi svelto la famosa frase, «qualunque cosa dica potrà essere usata contro di lei», vi furono testimoni della sua omissione e l’arresto non fu valido per questo. E allo stesso e strano spirito risponde quell’altro diritto del processato, di non deporre contro se stesso, di non compromettersi verbalmente con il suo racconto o con le sue risposte o le sue contraddizioni o i suoi balbettii. Di non danneggiarsi narrativamente (ah, questo può risultare un grande danno); e di mentire perciò.
Il gioco in realtà è tanto sporco e interessato che non esiste sistema giudiziario che possa supporre se stesso giusto con simili premesse, e forse non vi è giustizia possibile in quel caso, mai, in nessun posto, la giustizia una fantasmagoria e un concetto falso. Perché quello che si dice all’accusato finisce per essere questo: «Se dichiari qualcosa che ci conviene o è favorevole alle nostre intenzioni, ti crederemo e lo prenderemo in considerazione, e lo rivolgeremo contro di te. Se al contrario adduci qualcosa a tuo beneficio o difesa, qualcosa per te discolpante e per noi svantaggioso, non ti crederemo affatto e saranno parole al vento, dato che il diritto a mentire ti favorisce e diamo per scontato che in esso si rifugiano tutti quanti, cioè, tutti i criminali. Se ti sfugge un’affermazione che t’incolpa, o cadi in una contraddizione flagrante o confessi apertamente, quelle parole avranno il loro peso e agiranno contro di te: le avremo sentite, le registreremo, prenderemo nota, le daremo come pronunciate, ne rimarrà la prova, le inseriremo nel fascicolo, e saranno a tuo carico. Ogni frase che contribuisca a scagionarti, invece, sarà di poco peso e verrà respinta, saremo duri d’orecchio e ci passeremo sopra, non conterà, sarà aria fresca, fumo, vapore, e a tuo favore nulla si muoverà. Se ti dichiari colpevole, lo giudicheremo vero e lo prenderemo sul serio; se innocente, soltanto come uno scherzo e con beneficio d’inventario». Si dà quindi per scontato che tanto l’innocente quanto il colpevole si dichiareranno la prima cosa, poi se parlano non vi sarà distinzione tra loro, rimarranno parificati o livellati. Ed è allora che si aggiunge: «Puoi rimanere in silenzio», anche se questo non servirà a distinguerli, l’innocente dal colpevole. (Tacere, tacere, la grande aspirazione che nessuno compie nemmeno dopo morto, e tuttavia ci si consiglia e ci si spinge a questo nei momenti piú gravi: «Taci, taci e non dire niente, neppure per salvarti. Conserva la lingua, nascondila, ingoiala anche se ti soffoca, come se te l’avesse mangiata il gatto. Taci, e allora salvati»).

Nella frequentazione, nella vita senza sussulti, non si verificano simili avvisi e forse non dovremmo dimenticarne mai l’assenza o la mancanza, la sempre implicita e minacciosa ripetizione diretta o contorta di ciò che diciamo o di cui parliamo. La gente va e racconta irrimediabilmente e racconta tutto presto o piú tardi, l’interessante e il futile, il privato e il pubblico, l’intimo e il superfluo, quello che dovrebbe rimanere nascosto e quello che deve essere diffuso, la sofferenza e le allegrie e il risentimento, le offese e l’adorazione e i piani per la vendetta, quello che ci inorgoglisce e quello che ci fa vergognare, quello che sembrava un segreto e quello che chiedeva di esserlo, il risaputo e l’inconfessabile e l’orribile e il palese, il sostanziale – l’innamoramento – e l’insignificante – l’innamoramento –. Senza pensarci due volte. La gente riferisce senza posa e narra senza neppure rendersi conto di quello che sta facendo, degli incontrollabili meccanismi di insidia, equivoco e caos che mette in moto e che possono risultare funesti, parla incessantemente degli altri e di se stessa, e anche degli altri mentre parla di se stessa e anche di se stessa mentre parla degli altri. Quel raccontare costante viene percepito come una transazione a volte, anche se si maschera con successo da dono sempre (perché in ogni occasione ha qualcosa di questo), ed è piuttosto spesso una corruzione, o il saldo di qualche debito o una maledizione che si lancia a un destinatario concreto o forse al caso perché questo elabori sventatamente fortuna o disgrazia, o la moneta che compra relazioni sociali e favori e fiducia e perfino amicizie, e naturalmente sesso. E anche un amore, quando quello che racconta l’altro ci diviene imprescindibile e finisce per diventare la nostra aria. Alcuni di noi sono stati pagati per questo, per raccontare e ascoltare e ordinare e raccontare. Per trattenere e osservare e selezionare. Per sottrarre, acconciare, ricordare. Per interpretare e tradurre e stimolare. Per convincere a parlare e persuadere e fraintendere. (Io sono stato pagato per raccontare ciò che ancora non era né era stato, il futuro e probabile o soltanto possibile – l’ipotesi –, cioè, per intuire e immaginare e inventare; e per convincere di quello).
Poi la maggioranza dimentica come e attraverso chi è arrivata a essere al corrente di ciò che sa, e vi sono persone che addirittura credono di averlo messo alla luce loro stesse, qualunque cosa, un racconto, un’idea, un’opinione, un pettegolezzo, un aneddoto, una menzogna, una facezia, un gioco di parole, una massima, un titolo, una storia, un aforisma, un motto, un discorso, una citazione o un testo intero, di cui si appropriano arrogantemente, convinte di esserne i progenitori, o forse invece sanno che stanno rubando ma lo allontanano dal loro pensiero e cosí se lo nascondono. Accade sempre di piú nel nostro tempo, come se in esso vi fosse fretta perché tutto divenga di dominio pubblico e non esistesse piú la condizione di autore, o, per dirla con non altrettanta prosaicità, per trasformare tutto in solo rumore e ritornello e leggenda che corrano di bocca in bocca e di penna in penna e di schermo in schermo, tutto incontrollato senza fondamenta né origine né soggezione né padrone, tutto a spron battuto e sboccato e senza freno.
Io cerco invece di ricordare molto bene sempre le mie fonti, forse per la mia deformazione professionale passata che è anche presente perché non mi abbandona (dovevo addestrare la memoria a distinguere il vero dall’immaginato, l’accaduto dal presunto, il detto dal pensato); e a seconda di quali sono cerco di non fare uso della mia informazione e della mia conoscenza, o addirittura me lo proibisco, adesso che non mi dedico a ciò se non occasionalmente, quando è piú forte del mio volere e non posso evitarlo o quando me lo chiedono amici che non mi pagano o non con denaro, soltanto con la loro gratitudine e con una vaga sensazione di indebitamento. Cattiva ricompensa questa, perché a volte accade, e forse non è tanto strano, che cercano di trasferirmi quella sensazione perché sia io a soffrirne, e se non mi presto allo scambio dei ruoli e non la faccio effettivamente mia e non mi comporto come se dovessi loro la vita, finiscono per considerarmi un maiale ingrato e per rifuggire da me: vi sono molte persone che si pentono di aver sollecitato favori, e di avere spiegato in che cosa consistessero, e di essersi spiegate, perciò, troppo a loro stesse.
Un po’ di tempo fa una mia amica non mi chiese nulla, ma mi costrinse ad ascoltarla, e, con meno smorfie che con sincera apprensione, mi rese partecipe del suo appena inaugurato adulterio, mentre io ero piú amico di suo marito che di lei, o di piú vecchia data. Ben misero servizio il suo, ho trascorso mesi tormentato dal mio sapere – che lei mi ampliava e rinnovava in maniera teatrale ed egoista. Sempre piú preda del narcisismo –, con la certezza che di fronte al mio amico dovessi mantenere il silenzio: non perché mi giudicasse privo del diritto di metterlo al corrente di ciò che forse lui – come saperlo – avrebbe preferito continuare a ignorare; non per non voler assumere la responsabilità di scatenare azioni o decisioni altrui con le mie parole, ma anche perché ben cosciente del modo in cui era giunto a me quello scomodo racconto. Io non posso disporre liberamente di ciò che non ho verificato né per caso né attraverso i miei mezzi, mi dicevo, né nello svolgimento di un incarico o di una richiesta. Se avessi sorpreso la moglie del mio amico mentre si imbarcava su un volo diretto a Buenos Aires insieme all’amante, forse avrei potuto pensare di rivelare in maniera neutra quella visione involontaria mia, quel dato interpretabile ma mai incontrovertibile (per cominciare, senza certezza circa la relazione con l’uomo, sarebbe toccato al mio amico e non a me occuparsi del sospetto), piuttosto mi sarei sentito probabilmente un delatore e un intruso e non credo che mi sarei azzardato in alcun caso. Ma la possibilità ci sarebbe stata, questo mi dicevo. Avendo conoscenza, invece, di ciò che sapevo da lei, mi era del tutto proibito volgerlo contro di lei o divulgarlo senza il suo consenso, neppure nella convinzione di agire cosí a favore dell’amico, e quel convincimento mi tentava molto nei momenti di maggiore inquietudine, ad esempio quando ero con entrambi o cenavamo tutt’e quattro insieme (mia moglie il quarto commensale, non l’amante) e lei rivolgeva verso di me un’occhiata di intesa e di paura compiaciuta (e io trattenevo il respiro), o lui parlava allegramente di qualche noto caso del noto amante di qualcuno il cui coniuge tuttavia ignorava il caso. (E io trattenevo il respiro). E cosí sono rimasto in silenzio per diversi mesi, ad ascoltare e quasi ad assistere a quello che mi interessava poco e mi dispiaceva molto, e tutto, pensavo nei miei istanti piú annuvolati, sicuramente per essere denunciato un giorno, quando si fosse scoperto quella cosa sgradevole o alla fine venisse raccontata o raschiata ed esibita, come connivente o complice, o consapevole se si vuole, da parte di colei per cui conservo il segreto e la cui autorità esclusiva sulla materia ho riconosciuto e rispettato sempre, senza dire niente a nessuno. La sua autorità e l’esserne autrice, entrambe le cose, sebbene in quella materia sua siano coinvolte altre due persone almeno, una sapendolo e l’altra senza averne la minima idea, o forse il mio amico non è ancora coinvolto nonostante tutto e potrebbe esserlo soltanto se io glielo raccontassi. Può darsi che sia io invece a essere coinvolto dal mio sapere, o per aver ascoltato e interpretato – pensavo –, cosí mi suggeriscono la mia lunga esperienza e la mia lunga lista di responsabilità, delle quali verifico quotidianamente, ogni giorno che passa e me le sfuma e allontana e fa sí che sembrino a tratti soltanto lette o viste nello schermo o fantasticate, che non è tanto facile distaccarsi, e neppure dimenticare. O che non è possibile in alcun modo.
No, io non dovrei raccontare mai niente, né ascoltare nemmeno mai niente.

L’ho fatto per un certo tempo, ascoltare e soffermarmi e interpretare e raccontare, l’ho fatto come lavoro remunerato in quel tempo ma lo andavo facendo da sempre e ancora continuo, in maniera passiva e involontaria, senza sforzo e senza ricompensa, ormai è certo che non posso evitarlo o che è il mio modo di stare nel mondo, mi accompagnerà fino alla morte, riposerò di questo allora. Piú d’una volta mi è stato detto che era un dono che avevo e cosí mi ha fatto vedere Peter Wheeler, che è stato colui il quale mi ha messo sull’avviso spiegandomelo e descrivendomelo, le cose non finiscono di esistere fino a quando le si nomina, questo tutti quanti lo sanno o lo intuiscono. Quel dono io lo vedo invece come maledizione a volte, e adesso sono solito limitarmi alle prime tre attività, che sono silenziose e interiori e della coscienza e non hanno motivo di riguardare nessun altro che se stesso, e soltanto racconto quando non c’è altra possibilità o me lo si chiede insistentemente. Perché nella mia epoca professionale di Londra, o diciamo retribuita, ho imparato che ciò che soltanto accade quasi non ci riguarda o non piú di ciò che non accade, mentre il suo racconto (anche quello di ciò che non accade), che è indefettibilmente impreciso, traditore, approssimativo e in fondo nullo, e tuttavia è quasi l’unica cosa che conta, quella decisiva, ciò che ci sconvolge l’animo e ci devia e ci avvelena i passi, e sicuramente fa girare la pigra e debole ruota del mondo.
Non è gratuito, non è un capriccio che nello spionaggio, o nelle cospirazioni, o in ciò che è delittuoso, il sapere quanti partecipano a una missione o a una macchinazione o a un colpo di mano – in ciò che è clandestino, in ciò che è nascosto –, sia diffuso, parziale, frammentario, obliquo, che ognuno sia al corrente della propria incombenza ma non dell’insieme né del proposito ultimo. L’abbiamo visto nei film tutto questo, come il partigiano che prevede di non uscire vivo dalla prossima imboscata, o dall’attentato che prepara, dica alla fidanzata nel commiato: «È meglio che tu non sappia nulla, e cosí, quando ti interroghino, dirai la verità nel dire che non sai, la verità è facil...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Il tuo volto domani. 1. Febbre e lancia
  3. I. Febbre
  4. II. Lancia
  5. Copyright