Dentro
eBook - ePub

Dentro

  1. 184 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro

Ci sono libri che quando li chiudi continuano ad abitarti, lasciandoti impressa un'emozione duratura.
È una questione di vitalità contagiosa, d'intelligenza, d'umanità, di sguardo sul mondo. Ha a che fare con la pasta di quei pensieri che mentre ti spiazzano senti subito tuoi.
Dentro racconta a ritroso la storia di un uomo, dall'età adulta all'infanzia, isolando tre momenti capitali: l'esperienza del carcere, «infinito inumano»; l'amicizia tra due adolescenti che il caso fa sedere vicini il primo giorno di scuola; le istruzioni per l'uso di un bambino, di un padre e di una bicicletta. Cos'è il carcere? La forma architettonica del male.
Il carcere è un muro, e «il muro è il piú spaventoso strumento di violenza esistente. Non si è mai evoluto, perché è nato già perfetto». Tutti i giorni, all'ora d'aria, puoi arrivare a toccarlo col naso «per guardarlo cosí da vicino da non vederlo piú. E il muro non è fatto per agire sul tuo corpo; se non lo tocchi tu, lui non ti tocca. Non è una cosa che fa male, è un'idea che fa male».
Sandro Bonvissuto ha un'attitudine da speleologo dell'esistenza. Che parli della pena di vivere in galera, della scoperta di quella cosa gigantesca che è l'altro da sé, o di un bambino che impara a correre il rischio di cadere, i suoi pensieri si mescolano sempre a percezioni scandagliate, felicità assaporate, umiliazioni patite, declinazioni del sentimento dell'esistere restituite con la naturalezza e la potenza dell'acqua che scava in profondità.
Cosí, la felicità frastornante che dà l'amicizia può sprigionarsi da tre semplici lettere («Aveva detto "noi". E mi sembrò fosse la prima volta che risuonasse quel pronome nell'aria, riferito anche a me. Noi, detto cosí, ti faceva essere addirittura la metà di una cosa plurale»).
L'infanzia che non conosce la dittatura del tempo («lo sanno tutti che bambini e orologi sono due cose incompatibili»), che è insofferente agli spazi chiusi («perché l'infanzia non ha case, l'infanzia ha strade»), è «davvero l'unico momento nel quale siamo stati un altro». Un momento in cui un padre («la cosa viva piú immobile che abbia mai conosciuto») può mostrare all'improvviso un potere inaspettato.
La storia di un uomo, in questo libro, è resa attraverso tante piccole rivelazioni come queste, che risuonano e durano perché chi scrive pensa davvero che la vita venga prima di tutto, anche del suo racconto. Sandro Bonvissuto insegue pensieri, immagini, intuizioni folgoranti come spinto da un'urgenza vera, assoluta, impermeabile ai luoghi comuni e ai compiacimenti stilistici. Ed è questa la prima cosa che si sente, leggendo Dentro: la forza d'urto di una scrittura che sa convincere ed emozionare perché è al di fuori di ogni canone. Una scrittura sorgiva e filosofica, capace di guardare dall'alto un'esistenza e di postillarla con pensieri vivi.

Domande frequenti

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2012
Print ISBN
9788806208448
eBook ISBN
9788858405994

Il giardino delle arance amare

Mi presero le impronte delle dita. Dopo aver raccolto tutte le mie generalità e fatto le fotografie, mi presero anche le impronte delle dita delle mani. E ora stavano su un foglio, sopra il tavolo, proprio davanti a me; sembravano un segreto svelato, una cosa che, fino a poco prima, era intima e privata, e che invece d’ora in avanti tutti avrebbero potuto vedere. Senza dovermi chiedere niente.
Le guardavo. Era come se mi avessero tolto qualcosa di mio per sempre, come se quelle impronte me le stessero rubando. Per un attimo provai forte il desiderio di riprendermele. Ma mi guardavano tutti. Avrei dovuto quindi lasciarle lí, come un’altra cosa in piú che si aggiungeva a tutte quelle che avevo già perso o dimenticato in qualche posto. Da quel momento in poi avrebbero continuato a vivere ma senza di me. E io senza di loro.
Appena ultimata la perquisizione, mi portarono via. Erano in due. Avevano ricevuto delle istruzioni per telefono da qualcuno. Mentre uno mi teneva per il braccio, l’altro camminava avanti. Senza voltarsi. Nessuno dei due mi diceva niente. Si vedeva che non erano tenuti a farlo. Non sapevo nemmeno dove saremmo andati. Sapevo con certezza solo che era notte. Mi fecero salire dietro in una macchina vecchia, una Fiat Uno. Mi venne in mente che ne avevo avuta una uguale una volta. Ma non mi ero mai seduto dietro in quella macchina; mi ero seduto sempre sui sedili davanti. Pensai che per l’occasione avrei preferito un modello un po’ piú recente. Ma non ero nella condizione di chiedere. Non ero piú nella condizione di chiedere niente. Tanto quelli, alla fine, erano tutti solo dettagli. Nessuno adesso pareva avere fretta, e in fondo era meglio cosí; per quanto fosse già tutto deciso, il tardare dell’epilogo mi rassicurava un po’.
I due si sistemarono davanti come per fare un viaggio, e si tolsero i giacconi d’ordinanza. Forse il posto in cui dovevamo andare non era cosí vicino. Partimmo.
Uno dei due mi pareva bravo. Mi aveva dato quest’impressione fin dall’inizio. Se fosse stato bravo anche l’altro, quello che guidava, non lo sapevo. Forse no. Quello che sembrava bravo si girò verso di me e mi chiese se poteva fumare in macchina. Poi rise. Mi stava prendendo in giro. Non gli risposi. Stava facendo tutto da solo. Seduto sul sedile mi stringevo le mani giunte fra le gambe; le sentivo fredde come il marmo. Guardavo fuori dal finestrino, ma non si vedeva niente; solo delle minuscole luci molto distanti. Forse un piccolo borgo di campagna lontano, di quelli fatti di quattro case, la chiesuola, il fienile e la stalla, tutto raccolto intorno a un fontanile. Dopo un po’ già non lo vedevo piú. Magari non c’era nemmeno prima. Magari era stato solo il desiderio di riuscire a vedere qualcosa, qualcosa che non fosse la mia immagine riflessa nel vetro.
La strada era molto buia ma senza curve. Non sapevo dove mi stavano portando, conoscevo solo il concetto; avevo visto altri posti come quello dove eravamo diretti, però solo da fuori. Come tutti d’altronde. Anzi come quasi tutti.
A tratti ascoltavo i due parlare e ridere, ma avevo da tempo smesso d’interessarmi a quello che dicevano. Sembravano contenti, come chi ha fatto bene il suo lavoro. Era come se tutto stesse succedendo a qualcun altro e non a me. Non era cosí. C’era ancora la mia faccia riflessa sul vetro. Allora mi lasciai andare a una specie di abbandono, a un torpore, mentre sentivo arrivare la stanchezza e con questa il freddo. Mi sarebbe piaciuto chiudere gli occhi per un po’, ma non mi riusciva tanto bene nemmeno nel mio letto, figurarsi lí.
Non sono mai stato bravo a mantenere gli impegni, e nessuno di certo si sarebbe mai aspettato questo da me, eppure, in quel momento, mi straziava il pensiero di tutte le cose che avrei dovuto fare l’indomani.
Certo sarebbe stato bello se non fossimo arrivati mai, se avessimo continuato a camminare per sempre, dritti sulla strada. Ma alla fine le strade, per quanto lunghe, ti portano sempre da qualche parte. Cosí, se vedi l’inizio di una strada, devi dirti che alla fine di questa c’è un posto. Tanto che ogni strada ha dentro di sé qualcosa del posto dove va a finire, e ha qualcosa del posto dal quale comincia. Ecco perché la stessa strada pare diversa se la percorri in un senso o nell’altro.
Non avrei saputo dire da quanto viaggiavamo, forse un’ora, o forse meno, ma era una cosa che ormai non aveva piú alcuna importanza, perché intanto era sempre notte. Come prima. Come sempre quando è notte. Sarà perché la notte dal tramonto all’alba è tutta uguale; non è come il giorno quando, bene o male, ti rendi conto se è piú mattina o pomeriggio. La notte ha un altro tempo, senza fasi. La notte è notte. Non ha ore. O forse ha un’ora sola, un’ora lunga tutta la notte.
Intanto ci eravamo fermati davanti a un portone. Uno dei due che mi accompagnavano scese. Dovevano aver avvisato, perché qualcuno dietro una finestrella ci stava aspettando, e quello non sembrava affatto un posto dove fosse normale che ti aprissero dopo che avevi suonato il campanello.
L’edificio che avevamo di fronte era impenetrabile. Massiccio. Pareva conficcato per terra, come fosse caduto dal cielo. O come fosse sbucato dal suolo faticosamente e ancora non del tutto, gravato da un contenuto pesante. Pensai che lí dentro ci doveva stare molta piú gente di quanta quel posto ne potesse contenere.
La finestrella con i vetri doppi sembrava l’unica fonte di luce dall’esterno. In alto sopra i muri, però, c’erano un sacco di fari, diretti sia all’interno che all’esterno, ma erano spenti. Era una costruzione silenziosa, che stava lí nel buio senza avvertire della sua esistenza. Se fossi arrivato lí a piedi, camminando nell’oscurità, ci avrei urtato contro. Come quando di notte ti alzi dal letto per andare a pisciare e vai a sbattere sul pianoforte che era di tuo nonno. Presenze tetre e antecedenti.
Quello dei due che era sceso intanto era rientrato in macchina, e a quel punto scese l’altro. Pareva un balletto. Poi rientrò anche lui. Una forza interna all’edificio aprí il portone. Entrammo. In quel momento decisi che non avrei detto piú una parola.
Dentro c’era un piccolo cortile. La macchina si fermò proprio al centro. I due che mi avevano portato lí continuavano a parlare fra loro come se non stesse succedendo niente per cui sospendere anche solo un momento il normale fluire della vita. Dentro al cortile c’era altra gente come loro. No, anzi, non erano proprio uguali; erano solo molto simili, vestiti in modo un po’ differente. Come esemplari appartenenti alla stessa specie ma a razze diverse. Mi aprirono lo sportello. Non era un gesto di cortesia; da dentro io non avrei potuto. Ci misi un po’ a scendere dall’auto. Appena fui fuori, ce li avevo già tutti addosso. Ma non mi toccavano. Mi guardavano da vicino e basta. Seguivano i miei movimenti con gli occhi e con la testa. Compresi allora come la loro prerogativa principale fosse seguire le persone con lo sguardo. In silenzio. Dovevano essere stati addestrati per questo. Poi mi fecero passare da una porta che dava su un corridoio lungo e vuoto, un corridoio che portava al centro dell’edificio.
Mentre camminavamo per il corridoio presero a spingermi. Io camminavo, ma loro mi spingevano lo stesso. Finché non arrivammo a una scrivania sistemata di traverso. Mi fecero sedere su una panca di legno e mi guardarono ancora; non avrebbero piú smesso di farlo per tutto il tempo che sarei stato lí. E mi guardavano con quegli occhi da doganieri, da guardie di frontiera, quegli occhi che custodiscono vari millenni di esperienza e scaltrezza, quegli occhi di cui raccontava Imre Kertész in un libro che avevo letto alcuni anni prima e non avevo piú dimenticato. Pensai, in quell’istante, quanto fosse vero il fatto che la comprensione definitiva di un libro possa essere differita al momento nel quale anche a noi succede la stessa cosa letta in quel libro.
Quelli che mi avevano accompagnato, intanto, sembrava avessero finito, non sapevo bene di fare cosa, ma avevano finito. Consegnarono dei fogli, ne firmarono altri, dissero che mi avevano già perquisito, poi mi sfilarono davanti per andar via. Quello dei due che all’inizio era parso piú bravo mi augurò una buona permanenza, e mi salutò. Mi ero sbagliato sul suo conto; non era affatto bravo, era stupido. Non risposi. Li guardai percorrere il lungo corridoio e poi uscire dalla porta in fondo. Sentivo che con loro se ne stava andando l’ultimo legame che avevo ancora col mondo di fuori. Non riuscii a fare a meno di odiarli. Da quel momento in poi, si sarebbero occupati di me quegli altri che stavano lí. Li osservai: mi sembrarono peggiori dei due che mi avevano portato in quel posto. Infinitamente peggiori.
M’invitarono a consegnare loro tutto ciò che avevo ancora con me, mi dissero di metterlo sopra la scrivania. Dopo averlo scomposto in ogni sua parte, uno di quelli che stava lí ne fece un inventario, descrivendo gli oggetti su un modulo, poi mise tutte le mie cose dentro delle buste.
Non è bello vedere le proprie cose finire dentro delle buste di plastica trasparente. Perché fondamentalmente la busta è qualcosa che ha a che fare con i morti. Anche quando andiamo al mercato a fare la spesa usiamo le buste per metterci dentro roba morta. Non ho mai visto una cosa viva dentro una busta. A parte i pesciolini rossi vinti al luna park che, se non li togli subito da lí come arrivi a casa, poi muoiono. È cosí: la plastica e la vita non vanno d’accordo.
Infine riposero le mie cose da qualche parte. In cambio mi diedero un foglietto, che doveva essere una ricevuta.
Osservai il posto dove mi trovavo; era una via di mezzo fra un obitorio e una caserma. Spazi enormi e giacenti. Sul muro c’era un’insegna con su scritto «ufficio matricola». Mi dissero di aspettare seduto, lo ripeterono due volte. Mi chiesi che cos’altro volessero da me, visto che stavo già aspettando. Poi mi accorsi che non ero seduto. Allora mi sedetti e aspettai. Senza sapere cosa. Non avevo trovato la forza per dire che avrei preferito aspettare in piedi. Si trattava di un’altra perquisizione. Rinunciai subito a spiegare che ero già stato perquisito; erano uomini freddi, senza affetto. Appena ebbero finito, il tale che aveva preso in consegna tutta la mia roba decise che era giunto il momento di chiamare qualcuno, qualcuno che stava lí dentro ma evidentemente da un’altra parte, e per chiamarlo usò un apparecchio che sembrava un telefono ma doveva essere un citofono, un apparecchio di quelli fatti con dei bottoni che si schiacciano per far suonare un dispositivo uguale messo altrove. Spinse piú volte il pulsante che faceva accendere una lucina rossa sul congegno in corrispondenza di una targhetta col nome. A guardarlo bene, forse non era nemmeno un citofono, perché il citofono comunica con l’esterno, mentre quello comunicava con l’interno. Dopo un po’ qualcuno rispose. Discussero. Intorno c’era un silenzio grave; la voce di quello che parlava risuonava in modo innaturale, poi tornava subito il silenzio, prima di quanto avrebbe fatto altrove. Come in chiesa. Quelle erano pareti piú avvezze a sentire il silenzio che il rumore.
Dopo mezz’ora venne un uomo dal piano di sopra, scendendo delle scale. Sicuramente fino a poco prima dormiva; aveva la faccia tipica di chi, pur stando sul posto di lavoro, non sta lavorando affatto. Chiese a quell’altro cosa dovesse fare, poi si rivolse a me e mi fece cenno di andare con lui, precedendomi. L’altro ci seguí. In fila indiana. Da un ripostiglio lungo la strada prese della biancheria. Sempre nella plastica. Me la diede. Erano delle lenzuola. Disse che il resto di quel che mi spettava me l’avrebbero dato l’indomani. Poi andammo. Quello davanti aveva in mano delle chiavi assicurate a un anello di metallo, che aprivano tutto ciò che trovavamo sul nostro cammino. Per poi richiuderlo alle nostre spalle. Erano chiavi grosse e medievali, primitive, ed erano ciò che faceva la differenza lí dentro. Da una parte quelli che avevano le chiavi, dall’altra quelli che non ce le avevano. Per il resto eravamo tutti nella stessa condizione. Non avevano, quelle chiavi, una forma molto diversa, in verità, da quelle che solitamente abbiamo nelle porte interne delle case o nelle toppe dell’armadio in camera da letto, ma erano appunto grosse il doppio, il triplo, come se le avessero fatte pensando che a usarle sarebbe stata una mano molto piú grande. Mi sentii rabbrividire, all’idea di quella mano.
Passammo poi per diversi locali sempre piú disadorni e poveri. In ognuno c’era ogni volta una cosa in meno. Pensai che stavo per arrivare in un posto dove ci sarei stato solo io, e nient’altro.
Infine arrivammo in un altro corridoio dove si affacciavano delle porte di ferro. Tutte uguali. Tutte dello stesso colore. Tutte sullo stesso lato. Tutte chiuse. Saranno state una ventina. Mi ricordavano le porte delle aule del liceo statale. Forse perché anche quel posto dove mi trovavo era un posto statale. Camminammo ancora fino a fermarci davanti a una di esse, la penultima della fila. Quello che aveva le chiavi aprí. Come fosse la porta di una casa che non era la sua ma della quale aveva le chiavi. Oltre la porta c’era un cancello; aprí anche questo. A quel punto, visto che da lí non usciva nessuno, pensai che avessero aperto perché qualcuno di noi sarebbe dovuto entrare. Io. M’irrigidii un attimo; pensai se davvero non esistessero possibilità per evitarlo. Li guardai in faccia, ma sui loro volti c’era scritto che non esisteva piú niente. Chiesi se potevo mettermi seduto lí fuori ad aspettare l’indomani, dissi che non avrei dato nessun disturbo. Mi risposero di no. Chiesi se non fosse possibile aspettare ancora un po’. Mi risposero di no. Chiesi se esistesse qualcosa che io avrei potuto chiedere senza che mi sentissi rispondere di no. Mi risposero di no. Uno dei due fece un inchino invitandomi a entrare con un gesto cerimonioso del braccio. Feci l’inchino anch’io per ringraziarlo a mia volta, come chi scherza col proprio carnefice, ed entrai nel buio. Chiusero il cancello e la porta di ferro. Li sentii andar via per il corridoio. Strinsi al petto la busta con la biancheria che mi avevano dato. Era l’unica cosa che avevo. La strinsi talmente forte che non riuscivo piú a respirare.
Non mi trovavo in un posto dove, come avevo pensato, ci sarei stato solo io e nient’altro. Purtroppo le cose stavano molto peggio di cosí; nel silenzio avvertii che lí c’era altra gente. Forse due o tre persone. Dovevano essersi svegliate, e ora sentivo la loro presenza. Il loro respiro. Rimasi fermo. Mi abituai all’oscurità, e riuscii a vedere meglio. Erano in due. Se ne stavano stesi su delle brande alla mia destra. Uno sopra e uno sotto. Sulla parete in fondo c’era una finestra con i ferri, murata quasi interamente. Dalla parte alta entrava la notte, rovesciandosi per terra. Come l’acqua quando trabocca da un lavandino pieno. Poi uno dei due lí dentro ruppe quel silenzio. – Mettiti a letto, – disse.
C’erano altre due brande sovrapposte alla mia sinistra, vuote, le vidi solo in quel momento. Ma non riuscivo a muovermi. Quello che non aveva parlato si alzò e scese dal letto. Accese due candele che rischiararono la stanza in modo sorprendente. Forse perché la stanza era molto piccola. Era un negro. Lo guardavo ma non lo vedevo bene. Forse proprio perché era nero. Nella penombra non si scorgevano né la faccia né le mani. Si vedeva solo un pigiama che camminava.
Il pigiama che camminava andò verso uno stipetto di ferro. L’aprí, prese una coperta di lana tipo quelle dell’esercito e me la porse. Avevo le mani occupate dalla biancheria. Ci guardammo senza parlare, perché non riuscii a spiegargli che non ero in grado di aprire le braccia per lasciare la busta che stringevo al petto. Allora il negro col pigiama mi tolse dalle mani la busta. E a me rimase nelle braccia la forma di quella cosa che mi aveva tolto. Il negro mi fece poi capire che dovevo aiutarlo a prendere il materasso del letto di sotto, che lui lo avrebbe preso dall’altra estremità. Lo appoggiammo insieme su un tavolo che stava vicino alla porta. Stendemmo il lenzuolo, girammo il materasso, e lui fece dei nodi alle quattro estremità, incrociandole. Poi rimettemmo il materasso sulla rete di ferro. Quindi il negro ci poggiò sopra l’altro lenzuolo e la coperta con la cura di una badante. Dalla branda di sopra, la sua, prese per me due cuscini e li sistemò sulla coperta. Senza dire niente attraversò la stanza, che fra le brande era larga due passi d’uomo, soffiò sulle candele e risalí sul suo letto.
Io ero rimasto in piedi, immobile, in mezzo alla camera. L’altro, quello che aveva parlato all’inizio, disse: – Mettiti a letto, – e lo disse con lo stesso tono di prima. Come un disco rotto. Allora mi sedetti sulla branda che avevamo appena preparato, ma mi accorsi che dovevo pisciare.
Sul muro di fronte, dopo i letti degli altri due, c’era un’apertura. Ma non dava sul fuori. Dava sempre sul dentro. Un altro dentro, sempre lí dentro. Ed era un dentro ancora piú piccolo. Era come un buco senza porta. Forse non avevano ancora fatto in tempo a mettercela. Forse ce l’avrebbero messa l’indomani, pensai. Era un passaggio angusto, basso e stretto. L’unico posto dove potesse stare qualcos’altro, come il cesso. Mi alzai ed entrai nel buco. C’era un fetore di fogna insopportabile. Nell’oscurità mi sembrò ragionevole pensare che si dovesse essere rotta qualche tubatura e che le acque nere si fossero sversate per terra. Trovai l’interruttore della luce, che accese una lampadina a incandescenza. Si reggeva al muro con i suoi stessi fili, mi parve una cosa nuda. Non c’è niente di artificiale che incarni il concetto di nudità umana come una lampadina. Una volta accesa la luce, capii che non c’era nessuna tubatura rotta. Da una parte c’era una feritoia come quelle dei castelli medievali, dalle quali durante gli assedi si affacciavano gli arcieri per tirare le frecce con i loro archi o scoccare i dardi con le balestre. Dava proprio sul corridoio esterno che avevo percorso poco prima accompagnato da quei signori con le chiavi. Chissà a cosa serve, mi chiesi. Forse per fare uscire il tanfo.
Su una parete c’era un lavandino lercio col rubinetto che perdeva l’acqua da cent’anni, un tavolino con delle cose sopra, un fornello da campeggio, poi due panni stesi sul manico della scopa sospesa orizzontalmente per aria, e in fondo il cesso turco. Sopra al cesso c’era una finestra aperta. Era sbarrata con una grata. E comunque, la finestra, non era previsto nemmeno che si potesse chiudere. Perché non aveva l’anta battente. Come l’altra dell’altra camera, era quasi del tutto murata. Anche da lí entrava la notte, ma cadeva nello scarico.
Era il posto piú desolante che avessi mai visto in vita mia. Emanava, insieme alla puzza, una silenziosa angoscia. Avevo le mani talmente fredde che decisi di piscia...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Dentro
  3. Copyright
  4. Il giardino delle arance amare
  5. Il mio compagno di banco
  6. Il giorno in cui mio padre mi ha insegnato ad andare in bicicletta
  7. Ringraziamenti