Un mondo meraviglioso
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Un mondo meraviglioso

  1. 160 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Un mondo meraviglioso

Informazioni su questo libro

Con questo libro Trevisan, uno dei talenti piú originali della nostra narrativa, si rivela spigoloso auscultatore dei sintomi di una società malata, anatomopatologo che racconta, in un pietoso referto, le cause di quella insopportabile euforia suicida che inquina i nostri rapporti sociali ed esistenziali.
Scritto come un'improvvisazione jazzistica, il romanzo è la trascrizione letteraria dell'incessante ruminare di pensieri, ricordi, immagini che si presentano nella mente del protagonista, un giovane disoccupato in perenne rivolta contro se stesso, gli amici, il padre, i suoi concittadini.
Nel vorticante monologo di Thomas appaiono squarci di una provincia italiana descritta come il corpo putrescente di un cadavere, si aprono ricordi d'infanzia dove un padre impettito regala al figlio un'insopportabile filosofia di vita che tende a normalizzare la sua follia solitaria, reintegrandola nella piú conformistica follia sociale condivisa dagli altri. Thomas è invece l'antieroe moderno che non ci sta, ma che non ha altre armi per esprimere il suo rifiuto oltre la nevrosi e la scrittura. *** «Trevisan è uno scrittore assolutamente originale e inventivo. Mettendosi nel solco di una grande tradizione (quella di Bernhard e Beckett) in pratica ne dimostra l'inevitabilità, il potenziale ancora disponibile». Emanuele Trevi

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2013
Print ISBN
9788806165611
eBook ISBN
9788858409442

Un mondo meraviglioso

Ma un passato che ritorna, pensavo,
è un passato che non se n’è mai veramente andato.
Niente al mondo mi fa piú impressione dell’idea di morire in un letto d’ospedale, pensavo entrando in ospedale, scrive Thomas, legge Davide, e l’ospedale di Vicenza mi fa piú impressione di qualsiasi altro ospedale, piú ancora di quello di Sandrigo, dove pure sono stato ricoverato prima ancora di nascere e nel quale ritornai venti anni piú tardi, per farmi asportare una cosiddetta cisti pilonidale, operazione le cui conseguenze mi costrinsero a letto a pancia in giú per undici interminabili giorni, malgrado il chirurgo avesse detto trattarsi di cosa da nulla, e di cui porto ancora il segno sotto forma di una cicatrice tutta slabbrata della lunghezza di circa tredici centimetri, causa l’imperizia sartoriale dello stesso chirurgo, cicatrice che comunque nemmeno io sono in grado di vedere, vista la sua particolare posizione. Ai chirurghi, pensavo entrando in ospedale, non bisogna mai prestar fede. Non bisogna mai fidarsi di nessuno, ma dei medici bisogna fidarsi meno ancora che di nessuno. Non mi disse quel chirurgo che sarebbe stata un’operazione da niente?, proprio una cosa da niente: un’incisione una scucchiaiata una ricucita e via. Non mi disse nulla a proposito della rasatura e cosí, completamente ignaro, dovetti inginocchiarmi nudo sopra un lettino con ruote, mettere la testa tra le mani e alzare il culo il piú possibile tenendo le gambe bene aperte, cosí da facilitare l’infermiere specializzato – in rasature? – nella sua opera di rasatura di culo e coglioni e poi giú fino a mezza coscia e su fino all’ombelico, e mi chiedevo: mi raserà tutto il corpo?, non si trattava di un taglietto da poco? E poi digiuno, iniezione, anticamera: morfina intramuscolare; sala operatoria: ago da quattro nel polso, anestesia, conti fino a dieci: uno, due tre… risveglio, delirio, risveglio. Dolore. Pancia in giú. Come farò per andare al gabinetto?, pensavo disteso a pancia in giú. E infatti al gabinetto non vado per nove giorni di fila. Provo provo, ma mi fa troppo male, non ci riesco. E ogni sera l’infermiere specializzato – in lassativi? – mi somministra un olio schifoso che, cosí lui, dovrebbe senz’altro sbloccarmi e insiste a farmi mangiare solo verdura cotta e mele cotte, che non ho mai sopportato. Mangio la verdura cotta. Mangio le mele cotte. Bevo l’olio schifoso. Tutti i giorni per nove giorni di fila. Ma non cago. E ogni giorno dopo il terzo giorno, pensavo avviandomi verso l’ascensore, l’infermiere specializzato mi minacciava: se domani non vai di corpo facciamo un bel clistere, cerca di andare di corpo domani, altrimenti facciamo un bel clistere e via cosí per nove giorni. Un incubo, un vero incubo. Ma mi basta toccare la cicatrice per realizzare che è successo veramente. E non era nemmeno il peggiore dei chirurghi e neanche l’ospedale peggiore, anzi. Comunque sia, mi piaccia o meno, in ospedale ci devo andare, pensavo camminando verso l’ascensore. Devo andare a trovare mio padre. Dovresti andare a trovare papà, aveva detto mia sorella, perché non lo vai a trovare?, potresti andare stasera, dopo il lavoro… E alla fine ci sono andato, penso. Anche stavolta non ho saputo dire di no, ho ceduto, sono stato vigliacco, e invece di dire no, anzi: NO!, ho detto sí, vediamo, se finisco presto magari ci vado, perché no? Ma in realtà tempo non ne avrei avuto. Tempo non ne ho mai… devo lavorare, devo leggere, devo scrivere, devo telefonare, devo nuotare, vedere film… Devo scrivere scrivere e correggere e riscrivere. Tempo non ne ho. Devo fare delle copie dei miei scritti da mandare in giro, devo fare una lettura al circolo sessantadue, che si chiama circolo sessantadue perché è in via S. Lucia sessantadue ed è un luogo spaventoso pieno di gente spaventosa, ma mi hanno invitato e non mi posso permettere di dire di no; e poi devo sentirmi con lo scrittore di Padova a cui piacciono le mie cose, che è entusiasta delle mie cose, e mi sta aiutando a trovare un editore. Sono nelle sue mani, penso, non ho nessun altro in grado di aiutarmi, perciò sono in tutto e per tutto solo nelle sue mani, sono come si dice alla sua mercé, dipendo da lui, mi sono affidato a lui. La mia vita dipende da lui, perché di questo si tratta ormai: di una questione di vita o di morte, anche se questo né lui né nessun altro è minimamente in grado di capirlo. Nessuno è in grado di capire che scrivere o non scrivere è una questione che implica per me anche il dilemma vivere o non vivere in funzione dello scrivere o non scrivere. Scrivere vivere non scrivere non vivere. E anche se a volte ho l’impressione che lo scrivere possa contenere il non vivere, non mi passa neppure per la testa l’idea che il vivere contenga il non scrivere. Su questo non ho alcun dubbio. Certo, non tutto ciò che ho scritto gli piace, allo scrittore di Padova, ogni tanto mi sconcerta e mi demoralizza e mi deprime e, in definitiva, mi rende furioso. Dovresti sempre stupirmi, aveva detto al telefono lo scrittore a proposito dell’ultimo scritto che gli avevo inviato appena la settimana scorsa, e invece stavolta… non so… fino a un certo punto funziona: quando parli di lui e di lei, di lei che vuole il bambino, lui che non lo vuole assolutamente, lei che insiste, lui duro che non lo vuole eccetera… Ecco, aveva detto lo scrittore, fino a lí gira tutto bene. Poi, quando arriva quella tirata sul cane umano e la coppia canina, non so… stavo leggendo e mi dicevo: ecco che adesso arriva la tirata sul cane… e infatti la tirata sul cane è arrivata, capisci?, è arrivata proprio quando mi aspettavo che arrivasse: non prima non dopo: proprio quando me l’aspettavo. Insomma, aveva detto lo scrittore, io mi aspetto sempre che tu mi stupisca, e invece…
Bene, avrei voluto dire allo scrittore, se ti aspetti sempre che io ti stupisca e non ti ho stupito, allora dovresti proprio essere stupito! E che cazzo Giulio, volevo dire allo scrittore, non siamo mica al circo che ti devo stupire per forza!, e che vuol dire poi che ti aspetti sempre che io ti stupisca? Mica sono un prestidigitatore o un trapezista che fa il triplo salto mortale o un giocoliere o l’uomo piú forte del mondo o che so io! Ma non gli ho detto niente, allo scrittore, ci sono solo rimasto male e non sono riuscito a spiccicare una parola una, anzi: peggio. Che forse aveva ragione, dissi allo scrittore, che forse è vero che la tirata sul cane c’era da aspettarsela, che forse avrei dovuto tagliarla, che forse l’avrei tagliata e anche altre parti stavo pensando di riscriverle completamente; e che era un monologo, dunque un pezzo teatrale e non un pezzo di narrativa e dunque, forse, gli dissi, forse suona diverso sentirlo recitato, interpretato, anziché leggerlo a mente… E lui, questo devo dirlo, mi disse che effettivamente è un’altra cosa leggere a mente e sentire e vedere un altro che interpreta. Di teatro io non ci capisco tanto, aveva detto, parlo solo dal punto di vista della scrittura… Già, pensavo, solo dal punto di vista della scrittura. Esiste un altro punto di vista che non sia il punto di vista della scrittura?, c’è qualcosa che non sia scrittura? Comunque ci ero rimasto male perché non me l’aspettavo che mi dicesse cosí, che lui si aspetta sempre che io lo stupisca. Non me l’aspettavo proprio. Uno scontro di aspettative deluse, dunque, niente piú di questo: io penso che tu pensi, ma tu pensi diversamente… E poi piuttosto che un giocoliere vorrei essere un terrorista. Non sto mica giocando perdio!, qui è in gioco molto di piú di quello che pensi, caro il mio scrittore del cazzo, pensavo premendo il pulsante dell’ascensore. Mi venne in mente che un giorno ero andato a casa dello scrittore per parlare con lo scrittore, su suo esplicito invito, dei testi che gli avevo fatto leggere, testi che evidentemente l’avevano stupito, visto che mi aveva invitato a casa sua proprio per parlarne. Ero lí nello studio dello scrittore, tutto pieno di carte, di libri, che poi in fondo è la stessa cosa, di penne e tutto quanto ci si può aspettare di trovare nello studio di uno scrittore, e stavamo parlando proprio di questi testi che secondo lui non erano affatto male, anzi erano proprio buoni, sí proprio buoni, diceva, tanto buoni che era doveroso cercare di arrivare alla pubblicazione, in un modo o nell’altro, di quei testi cosí buoni; e che era disposto a giocarsi un po’ della sua reputazione su quei testi, a spedirli a gente che conosceva: al suo direttore editoriale, che certo li avrebbe letti perché glieli spediva lui e se glieli spedisco io, diceva lo scrittore, sta’ sicuro che li legge senz’altro, ad altri suoi amici scrittori eccetera; ero lí, lo ascoltavo seduto su un divano a righe di fronte a un tavolino ingombro di carte, quando ecco che suona il campanello. Ecco, dice lo scrittore, penso aspettando l’ascensore, dev’essere lei. Ah, dico, aspettavi qualcuno; potevi dirmelo, se vuoi me ne vado… No no, dice lo scrittore, scherzi?, l’ho invitata io proprio perché ci sei tu… sai, ti voleva tanto conoscere. L’ha invitata lui, penso, perché lei mi vuole conoscere. Sai, dice lo scrittore, le ho fatto leggere le tue cose ed è entusiasta. Ha letto le mie cose. È entusiasta. Vuole conoscermi. Una legge le tue cose, penso aspettando l’ascensore, e subito vuole conoscerti. Perché?, mi chiedo: perché? Io, di quelli che leggo, non voglio saper nulla a parte ciò che leggo. Che me ne frega di chi è, cosa fa, com’è, se scrive solo su carta Fabriano con la penna stilografica, penna che odio in sommo grado e non userei mai e poi mai, oppure se scrive con la macchina da scrivere o con il computer; cosa me ne importa a me se scrive seduto o in piedi, a testa in giú o disteso sul letto: che me ne frega! Solo quello che ha scritto, solo di quello. Comunque, penso aspettando l’ascensore che non si decide ad arrivare, il punto non è questo, proprio non è questo, questa semmai è una virgola… È una mia allieva, dice, uscirà nella raccolta under venticinque che sto curando per Transeuropa. Ah, dico io, bene, Transeuropa, under venticinque. Lei entra. Ciao. Ciao. Io sono Roberta, io sono chi sono, lui sappiamo chi è eccetera. E poi, mentre stiamo parlando dei miei racconti, di come sono scritti e di tutte queste cose irritanti, ecco che lei se ne esce con la domanda che di piú non mi potrebbe irritare, una domanda che temo come la peste, che non mi sognerei mai e poi mai di fare a chicchessia, ma soprattutto una domanda che non farei mai a uno che scrive: perché scrivi? Io la guardo nei suoi occhi azzurri, poi guardo lo scrittore, dunque guardo di nuovo lei, quindi di nuovo lui, e lui, invece di venirmi in aiuto dice: già, volevo chiedertelo anch’io, ma visto che te l’ha chiesto lei… perché scrivi? Non solo non mi ha aiutato, penso, ma mi ha addirittura rifatto la domanda, e me l’ha rifatta in presenza della sua allieva che sta per essere pubblicata nell’antologia di under venticinque di Transeuropa che lui stesso cura insieme a Brizzi e alla Ballestra; allieva che lui stesso ha invitato, mettendomi in grandissimo imbarazzo, perché avendo letto le mie cose mi voleva conoscere, e me l’ha rifatta con la stessa serietà con cui un attimo prima mi era stata posta dall’under venticinque! Perché respirate?, chiesi allo scrittore e alla sua allieva, nello studio dello scrittore. D’altronde non si può mica pretendere che uno risponda seriamente a una domanda del genere, pensavo aspettando l’ascensore. Gli ascensori non arrivano mai, e gli ascensori dell’ospedale arrivano anche piú tardi degli altri. Premi il pulsante, quello con la freccia in su, poi quello con la freccia in giú, poi tutti e due contemporaneamente, e tieni premuto, ma l’ascensore non arriva. E magari di fianco a te, anche lui che aspetta l’ascensore, proprio come in questo momento, hai uno con la faccia tutta deturpata e pensi, proprio come sto pensando: ecco uno che esce fresco fresco dalla maxillo-facciale, il reparto del famoso professor Curioni, quello che non vuole suore in reparto e se solo vede una suora in reparto comincia a dare i numeri e non opera piú, l’aggiustatore di facce, il ricostruttore di palati, il livellatore di zigomi; e vorresti guardarla attentamente quella faccia tutta deturpata, senza un occhio, asimmetrica al massimo grado, di quelle che hai visto solo in qualche trattato di chirurgia, vorresti piantarci gli occhi addosso e studiartela bene fino in fondo, ma non lo fai, non lo faccio, perché pensi, penso, che se ti metti a osservarlo con insistenza lui si sentirà a disagio, si sentirà un mostro, perché cosí attentamente si guardano solo i mostri e le persone bellissime. Allora distogli, distolgo, lo sguardo dal mostro asimmetrico della maxillo-facciale e guardi, guardo, in giro, oppure fissi, fisso, un punto sul muro. Poi pensi, penso, che forse lui se n’è accorto che tu, io, hai, ho, distolto lo sguardo troppo repentinamente, proprio come se guardarlo ti, mi, ripugnasse, proprio come se il suo viso fosse effettivamente mostruoso, cosí orribile da non riuscire a guardarlo per piú di un secondo senza voltarsi dall’altra parte. Se lo guardo si sente un mostro, penso, mentre se non lo guardo si sente un mostro. Se lo guardo attentamente un mostro da osservare attentamente; se distolgo lo sguardo un mostro che non si ha neanche il coraggio di guardare. Un mostro è sempre un mostro. Uno sguardo che non guarda è comunque uno sguardo. Non abbiamo scampo, dico al mostro entrando in ascensore, è tutto inutile: non c’è scampo, dobbiamo rassegnarci. Lui mi guarda fisso, ma non mi capisce anzi, all’ultimo momento cambia idea e se ne torna indietro. Ha paura di me, penso, gli ho fatto paura. I mostri sono gli esseri piú sensibili del mondo, i piú umani del mondo. Ecco, penso salendo, gli ho fatto paura, ho detto qualcosa di sbagliato che non dovevo dire. È cosí da tutta la vita: dico sempre le cose che non dovrei dire e mi tengo per me quello che dovrei dire. Voglio dire: dico quello che penso: esattamente piú o meno sempre ciò che penso, e mentre sto dicendo quello che penso, penso che dovrei dire tutta un’altra cosa perché quello che penso, e dunque dico, non è esattamente ciò che si aspetta da me il mio interlocutore, non è quello che piú mi gioverebbe dire in quel preciso momento a quella determinata persona. Arrivo sempre un attimo troppo tardi, pensavo salendo in ascensore. Sto parlando e mi rendo conto di essere spacciato nel momento stesso in cui le parole mi escono di bocca. È sempre stato cosí: a scuola, all’università, nei rapporti sentimentali e di amicizia; e ancora piú cosí è stato nei rapporti di lavoro, per non parlare poi dei colloqui di lavoro, colloqui nel corso dei quali mi scappano dette sempre le cose piú sbagliate e piú fuor di luogo, cose che non rassicurano affatto il mio interlocutore, già in allarme dopo aver dato una scorsa al mio curriculum dal quale risulta evidente che ho cambiato lavoro piú volte e dunque non sono affidabile, che non sono sposato, che vivo solo, che leggo, cosa pericolosissima, che suono la batteria, cosa ancora piú pericolosa, che addirittura scrivo, un pericolo tale che non può neanche essere descritto a parole, eccetera. Insomma: sempre e comunque le cose sbagliate al momento sbagliato alle persone sbagliate. E tutto questo perché sei un idiota, pensavo toccando con la mano la copia dell’Idiota di Fëdor Dostoevskij nell’edizione Einaudi tascabili che portavo con me nella tasca del giaccone di pelle, un perfetto idiota. Uno che i soldi non li farà mai perché non è capace di farli, dunque, in questa città, un idiota. Uno che legge, dunque, in questa città, uno che perde tempo perché è difficile far soldi leggendo – forse impossibile – e se non impieghi il tempo per far soldi, vuol dire che il tempo lo stai buttando via, soprattutto in questa città, penso, dove tutti, ma proprio tutti, sono impegnati dalla mattina alla sera in questa attività di fabbricazione della propria cosiddetta fortuna. La mia fortuna io me la sono giocata già da molto tempo, pensavo uscendo dall’ascensore. Che cosa c’è di piú orribile del linoleum dei corridoi d’ospedale?, cosa c’è di piú ripugnante di questo linoleum che sto calpestando, che sono costretto a calpestare per recarmi a trovare mio padre, malgrado non abbia nessuna voglia di andarlo a trovare né tanto meno abbia voglia di calpestare questo linoleum? È facile da pulire, dicono, è comodo: basta passarci lo straccio bagnato. Sí, penso incamminandomi per il corridoio, oppure basta non passarci proprio nulla, tanto sembra sporco anche da nuovo. E poi mi fa scricchiolare le scarpe in un modo insopportabile. Squec squec, ogni passo uno squec. Vorrei non fare alcun rumore, ma è impossibile: le mie scarpe in thinsulate con suole di gomma che ho comprato ad Amsterdam l’anno scorso, non avendo altra scelta, visto che i miei splendidi anfibi Doctor Martin, comprati a Glasgow due anni prima, che avevo incautamente lasciato fuori dalla tenda, mi erano stati rubati durante la notte, queste scarpe, dicevo, che ho comprato al mercato delle pulci di Amsterdam, non sopportano certi tipi di pavimento e quando sono messe a contatto con questi particolari tipi di pavimento, com’è appunto l’orribile linoleum ospedaliero, non possono fare a meno di gemere in continuazione, gemono a ogni passo e non c’è niente da fare. Ho provato a camminare tutto all’esterno, le gambe arcuate come un cow-boy, ma loro gemono lo stesso. Tutto all’interno, con le ginocchia si può dire incollate: niente da fare: gemiti a ogni passo. Sulle punte come un ballerino. Stridore e gemiti. Sui tacchi, non so proprio come chi… tutto inutile. Quando le mie scarpe olandesi si trovano a contatto con un pavimento che non gradiscono emettono dei gemiti spaventosi che mi mettono di continuo in imbarazzo. Il fatto che anch’io sia dello stesso parere delle mie scarpe non mi aiuta nemmeno un po’, anzi: io cerco di mascherare il mio disgusto, ma le mie scarpe mi tradiscono in continuazione. L’Olanda del resto è un paese libero, forse il piú libero che io conosca, pensavo gemendo sopra il pavimento del corridoio, dunque non c’è niente da stupirsi se delle scarpe olandesi esprimono liberamente tutto il loro disgusto per pavimenti che non possono che essere disgustosi al massimo grado. Il numero della stanza, pensavo, che numero mi aveva detto mia sorella?, quarantadue? Sbirciai dentro la quarantadue. No, non c’è, non è la quarantadue. Quarantacinque? No, nemmeno la quarantacinque. La quarantasei non è di sicuro. Quarantasei non l’ha detto di sicuro. Quarantasette? Forse… sí, proprio la quarantasette. Eccolo là, disteso sul letto in fondo alla stanza. Dorme. Lui e la sua flebite, lui e la sua ernia addominale, lui e il suo diabete senile. Ora lo sveglio, pensavo, mi avvicino, gli tocco la spalla, lo scuoto un po’, lo sveglio e gli dico: eccomi, sono qui, sono venuto a trovarti, a vedere come stai, se hai bisogno di qualcosa eccetera. Mi avvicino al letto. Russa. Sta russando, penso, come ha sempre russato. Lo guardo da vicino e mi rendo conto che è proprio vecchio. Vecchio vecchio. Non mi ero mai reso conto che fosse cosí vecchio. L’ho sempre visto uguale, sempre come un uomo sui quarantacinque cinquanta, ma ora, da un po’ di tempo, mi sono improvvisamente reso conto che mio padre è un vecchio di settantacinque anni con un sacco di acciacchi e diventa ogni giorno piú vecchio con l’aumentare dei suoi acciacchi fisici e mentali. È sempre stato ottuso, penso guardandolo, e diventa ogni giorno piú ottuso, il suo angolo ottuso si allarga ogni giorno di piú e diventerà fra un po’ una linea retta che tenderà a coincidere con la linea del suo elettrocardiogramma. Quando le due linee, quella della sua ottusità e quella del suo elettrocardiogramma, coincideranno perfettamente sarà finita, pensavo. Sei spacciato papà, pensai guardandolo dormire. Sei morto e non ci siamo mai parlati e non ci parleremo mai perché non ho nessuna voglia di parlarti e neanche tu hai nessuna voglia di parlarmi. Nessuno dei due ha mai avuto voglia di parlare all’altro, pensavo, questa è la verità. E di cosa avremmo potuto parlare?, mi chiedo. Di calcio?, di bocce?, di briscola? Tutte cose che interessano te e a me non mi hanno mai interessato minimamente, e non mi hanno mai interessato proprio perché a te interessano tanto. Cinque sei sette otto sei finito poliziotto. Lo sveglio, pensavo; non lo sveglio, lo lascio dormire cosí non devo parlarci. Se lo sveglio ci devo parlare per forza, cosa di cui non ho alcuna voglia, pensavo. Lui sí che mi svegliava sempre, anche quando tornava dal servizio a ore impossibili. Mi svegliava giusto per salutarmi: ciao Thomas, diceva, sono tornato, guarda un po’ cosa ti ho portato… e aveva sempre qualcosa: cioccolata, un giocattolo, un topolino, cose cosí. Ero felice allora? Sí, forse allora ero felice. Anche con un papà poliziotto si può essere felici. Anche con un papà celerino che se ne va su fino alla Lanerossi di Schio per caricare gli operai che occupano la fabbrica, mentre non ha nessuna voglia di andarci, e se ne torna alle quattro di mattina con un taglio sulla fronte e un labbro tutto spaccato, non è niente, dice, una pietra; uno che va a sloggiare i contadini che non vogliono mollare i campi su cui lo stato ha deciso di costruire l’aeroporto Arturo Ferrarin e, cosí lui, davanti ai contadini che vengono avanti armati di forche e accette e picconi, spara in aria e poi se la dà a gambe e si rifugia su un albero perché gli ripugna sparare sui contadini, perché anche lui, in fondo, è un contadino, e capisce benissimo quei contadini che non vogliono mollare la terra; che neanche lui si sarebbe fatto portar via la terra cosí, senza fare niente, dice, ma che d’altra parte non aveva scelta e ci doveva andare, doveva sloggiare quei contadini dai loro campi, doveva caricare quegli operai della Lanerossi e cosí via. Sono un poliziotto, diceva sempre, non decido mica io quello che è giusto e quello che è sbagliato: se mi mandano in un posto ci devo andare e basta. No, no, non lo sveglio, pensavo guardandolo. Non lo sveglio. Guardai fuori dalla finestra. Il parco Querini. Il cosiddetto percorso vita si snodava sotto di me. Persone in tuta da ginnastica e scarpe da ginnastica e testa da ginnastica si davano da fare lungo il cosiddetto percorso vita allestito dal comune. Correvano, facevano esercizi, si fermavano, si sedevano sulle panchine a fare due chiacchiere da ginnastica. Di fronte al letto dove mio padre stava dormendo giaceva un vecchio di colore giallo tutto intubato. Due tubi gli uscivano dal naso, tubi a tutti e due i polsi. Un altro tubo, di plastica trasparente come gli altri, usciva da sotto il lenzuolo per infilarsi in un sacchetto di plastica altrettanto trasparente mezzo pieno di liquido giallo come il vecchio. Si sta trasferendo a poco a poco nel sacchetto, pensai. Goccia dopo goccia, un poco per volta nel sacchetto. Capisco il suo gioco. Quando sarà tutto nel sacchetto lo crederanno morto, mentre lui se ne starà indisturbato nel suo sacchetto di plastica trasparente; isolato da tutti potrà vedere tutti e riderà perché tutti lo crederanno morto e lui morto non è. Il vecchio mi guardava. Io guardavo il vecchio. La vita è una guerra di sguardi dove vince chi riesce a vedere, pensavo senza distogliere lo sguardo dal vecchio giallo. Occhi pieni d’acqua, pensavo, e anche i miei occhi si stavano riempiendo d’acqua perché li tenevo fissi senza sbattere mai le palpebre. Dopo circa un anno, che era durato qualche secondo, ruppi ogni indugio e mi avvicinai al vecchio intubato. Senta, gli dissi, quando mio padre si sveglia, se non è ancora tutto dentro il sacchetto, potrebbe dirgli che sono stato a trovarlo, ma che stava dormendo e non ho voluto svegliarlo. Sono Thomas. Thomas, gli dica, suo figlio. Magari domani torno. Ha bisogno di qualcosa? Il vecchio sibilò qualcosa tipo: d’accordo glielo dirò e no, non mi serve nulla. Bene dissi, allora mi raccomando, gli dica che sono stato a trovarlo e non l’ho voluto svegliare. Arrivederci. Uscii dalla stanza e mi diressi con decisione verso l’ascensore, deciso a lasciare al piú presto l’ospedale. Sí, lo so che questo pavimento fa schifo, lo so bene, sono perfettamente d’accordo, dissi alle mie scarpe che gemevano a ogni passo, portate pazienza. Ancora un attimo e saremo fuori. Oddio, pensavo scendendo in ascensore, non che fuori sia poi meglio, di questo non sono affatto sicuro. Fuori ci aspetta una città di piú di centomila cadaveri convinti di essere vivi. Una città di morti che camminano e si dànno da fare come se fossero vivi, come del resto anch’io, probabilmente, sono morto e mi dò da fare come se morto non fossi. Con tutta probabilità anch’io sono un cadavere, pensavo uscendo dall’ascensore e avviandomi, anzi incorrendomi, verso l’uscita, esattamente come mio padre e il vecchio giallo che almeno ha sempre il suo sacchetto, mentre io non ho nessun sacchetto di plastica trasparente dentro il quale trasferirmi. Cosí pensavo correndo verso l’uscita. Un brivido mi corse lungo la spina dorsale non appena mi accorsi che, anziché scendere al piano terreno, cosí come pensavo, mi ritrovavo nell’interrato. Che stupido, pensai, hai sbagliato a premere il pulsante. Tipico!, hai sempre la testa tra le nuvole, fai sempre di questi errori del cazzo. Mi girai per riprendere l’ascensore, ma non feci a tempo: le porte si richiusero prima che potessi metterci una mano in mezzo. Niente ascensore, pensai, devo trovare le scale. Mi avviai per il corridoio basso, lunghissimo, illuminato da lampade al neon. I tubi del condizionamento e i tubi dell’acqua e i tubi di chissà cos’altro correvano sul soffitto e lungo le pareti. Le scale devono essere in fondo ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Un mondo meraviglioso
  3. Un mondo meraviglioso
  4. Coda tema e finale
  5. Il libro
  6. L’autore
  7. Dello stesso autore
  8. Copyright