«Lasciami perdere, oggi sono malinsalata». Era ciò che ripeteva mia madre quasi ogni giorno. Parola solo sua, sconosciuta a tutti, di cui nessun vocabolario porta traccia, «malinsalata» significava stanca, avvilita, in ansia, con la luna storta, con troppe cose da fare e a cui pensare, sconfortata. E anche qualcosa di piú.
«Ci sono due uniche virtú: la modestia e la serietà ». Era invece il consiglio preferito di mio padre, intercambiabile con l’altro: «Fai il tuo» o «Stai nel tuo».
Ma è soprattutto: «Non promette niente di buono», la previsione appioppata da entrambi a qualsiasi evento, che mi gira nella testa a ritmo martellante, mentre un’infermiera svogliata coi denti sporgenti mi fa stendere su un letto ricoperto da un’incerata bianca.
Quello che potevo fare l’ho fatto. Tra poco il becco ce lo potrà mettere solo la cicogna. E io, ubbidiente, devo sottostare alla tirannide della pennuta. O del destino, di Dio, della vita. Non so come chiamarlo.
L’agitazione mi frigge le tempie. Con un colpo di tosse cerco di espellerla. Mi resta un senso d’impotenza, come quando da adolescente volevo andare a ballare e mia mamma mi chiudeva a chiave nella stanza.
In questa grande camera spoglia, coi paraventi che isolano le pazienti e l’orologio a muro fisso sulle 12,30, il viavai di dottori e assistenti sbriciola qualsiasi tentativo di concentrazione.
Eppure il transfer degli embrioni è una manovra delicata e, se va storta, in pochi minuti puoi dire addio al lavoro di un mese e mezzo. È una cento metri da fare con il massimo impegno. E qui sembra di stare in una colonia estiva.
Do il valium ai pensieri fissando l’azzurro delle pareti.
– Eccoci qua, – dice Battisti. Ha già pronto in mano il catetere che contiene i miei embrioncini.
– Sono stati fecondati tre ovociti e prodotti tre embrioni, due di tre cellule e di categoria A, cioè ottima, e uno di quattro e categoria B, cioè buona, – spiega mentre mi infila il tubicino nel canale cervicale.
Giusto mezzo minuto per scaricarli nel fondo dell’utero, poi lo toglie e lo passa all’infermiera, che mi mette in mano una foto.
Non ho sentito nulla. La preparazione è stata cosà laboriosa. Il transfer invece un soffio, inodore e insapore. Guardo la foto. È un gruppetto di cellule visibili solo al microscopio. Sembrano quattro bollicine d’aria. Anzi una grossa bolla di sapone informe, che ne porta appiccicate al suo interno alcune piú piccole.
Le lacrime mi premono gli occhi. È cosà che inizia tutto? Con questo impalpabile grumo un po’ mio e un po’ di Marco, che può cominciare a moltiplicarsi forsennatamente o fermarsi, secondo disegni imperscrutabili? Questo quasi niente contiene in diluizione omeopatica la vita?
– Non si preoccupi, stia tranquilla, – dice Battisti come avrebbe potuto dire: «Per favore, sposti la macchina».
Mi costringo a ingurgitare la commozione. Una donna che fa un figlio nella provetta di un laboratorio non può sdilinquirsi.
– Quattro capsule di Estrofem, quattro di Progeffik e una di Vasosuprina due volte al giorno a distanza di dodici ore, – mi prescrive, come un giudice che emette il verdetto.
– Una dose da cavallo. Ma serve?
– Certo che serve.
Rientra l’infermiera, si accosta a Battisti e gli bofonchia all’orecchio.
– Qualcosa è andato storto? – chiedo.
– Al contrario. Hanno controllato il catetere al microscopio. Gli embrioni sono stati tutti trasferiti in utero. Stia stesa qui per una mezz’oretta. Dopo di che può andare.
Sembra incredibile che basti solo mezz’ora dopo il transfer per riprendere le normali attività , quasi che niente fosse. Come diavolo fanno tre embrioni appena introdotti in vagina a rimanere dentro e a non scendere? È un mistero, come un aereo che vola. Tonnellate di metallo, carburante e carne umana che stanno sospesi lassú nel cielo.
Quella della caduta degli embrioni è una paura di tutte noi fivettare. Licia ha addirittura il terrore di perderli starnutendo. Katia facendo la pipÃ. Invece gli embrioni possono attecchire o essere riassorbiti ma non cadono mai, come se seguissero regole misteriose e non la normale legge di gravità .
– Guardi che può andare.
– Vorrei aspettare un altro po’, – risponde una ragazza con la voce nasale dal paravento di fronte al mio.
– Sono già passate due ore.
– Preferisco rimanere.
– Ma non è necessario.
– Non potrei essere ricoverata qui stanotte? Domani, appena sveglia, me ne vado, – insiste la ragazza con tono stridulo.
– Sta scherzando?
– La prego, dottore. È la mia quinta Icsi. Sono sicura che le altre volte mi sono alzata troppo presto. Per questo gli embrioni non si sono attaccati.
– Faccia la brava, signora. Se rimarrà incinta o meno non dipende dal riposo. Ormai non dipende piú né da me né da lei. In provetta si riescono a creare gli embrioni ma nessun medico li può impiantare. Può solo trasferirli.
– Che peccato.
– Crede in Dio?
– SÃ.
– Preghi e faccia tutto come al solito.
La ragazza si è quasi convinta. Meno male. Il ginecologo dalla voce tenorile e i gesti da gay stava per perdere la pazienza.
Come una donna già incinta mi accarezzo i miei tre microscopici figli. Se decideranno di attecchire lo faranno tra tre o quattro giorni. Per ora la mia pancia gonfia di medicine sembra gravida di qualche mese. Invece è vuota, in bilico tra la possibilità di germogliare o rimanere mancante.
Telefono a Katia, che su di me ha l’effetto di un oppiaceo.
– Sei già in aeroporto?
– Parto tra mezz’ora, – biascica.
– Ma stai sempre a mangiare?
– Non ho resistito ai cannoli siciliani. Favolosi.
Katia ha una grande fortuna: per lei quasi tutto è favoloso. Il suo cervello è la pietra filosofale che trasmuta i materiali scadenti in oro.
– Ho comprato una rivista sulla maternità . Sai che racconta? Che per il buddismo la nascita non è solo l’unione dello spermatozoo e dell’ovocita. Senti qua: «Entra in gioco anche un terzo elemento, l’entità di vita che in base al suo karma decide di diventare figlio di quell’uomo e di quella donna in quel momento e in quella precisa circostanza». Fico, no?
– SÃ, fico, – le rispondo sovrappensiero.
– Tra due settimane faremo il test e sapremo, – mi dice Katia allegra. – Vado, sennò perdo l’aereo.
SÃ, faremo il test e sapremo. Sarà il nostro pensiero fisso per due settimane.
– Sono diventata cieca a otto anni, – dice all’infermiera la signora del paravento alla mia sinistra. – È strano. La cecità l’ho accettata, l’infertilità no. Sette tentativi falliti ma sono andata avanti. Poi due anni fa è arrivato Paolo e ora sono qui per regalargli un fratellino.
Per me è «solo» la seconda Icsi. Facendo l’inventario delle scorte ci trovo ancora una buona quantità di energia e di fiducia. Le altre però sembrano tutte piú motivate. Parlano del figlio che non viene come di un uomo amato che le rifiuta, ma che loro inseguono con una tenacia priva di assennatezza. Una vera ossessione amorosa.
Con questo figlio che per tanto tempo non ho desiderato, mi sento l’ultima della classe. L’idea che dentro di me alloggiasse un altro essere per nove mesi e che il mio corpo fosse costretto a deformarsi non mi piaceva. Mi sembrava un atto troppo intimo e per questo un po’ ripugnante.
Poi è arrivato Marco.
È successo la terza sera che facevamo l’amore. Senza chiedermi nulla andò dritto. Non lo fece per sbaglio ma col piglio autoritario dell’uomo che ti pretende e suggella cosà il suo dominio. Restammo là senza parlare, con gli occhi incastrati l’uno nell’altra, come se si fossero fusi. In quel momento mi venne voglia di rimanere incinta. Di sperimentare quella potente forza primordiale capace di squassarmi il corpo di donna troppo civilizzata. Partorire è un atto primitivo. Indecente. Andrebbe vietato. Cosa c’è al mondo di piú terrificante che perdere il controllo?
– È già passata quasi un’ora, puoi andartene, – mi dice sbrigativa l’infermiera.
Alcune signore stanno entrando. Hanno bisogno del posto. Come del tavolo al ristorante il sabato sera. Mi alzo senza far storie ma ho il nervoso alle stelle. E poi non si capisce perché a Roma tutti ti diano del tu. Ci conosciamo? I miei bisnonni si davano del voi. Ed erano contadini, mica marchesi.
Mi vesto lentamente, poi, con la speranza vivissima di non mettere piú piede in questa camerona del reparto di Pma, mi avvio all’università a ritirare delle dispense.
Tra due settimane faremo il test e sapremo.
– Che fine hai fatto? Non ti fai vedere da una vita! – mi urla Gianna con il suo tailleur color passata di pomodoro.
– Sta male mia madre, – incespico mentre, non so perché, mi si inumidiscono gli occhi veramente.
– Mi dispiace.
Mi comincia a colare anche il naso. Gianna mi passa un fazzolettino e mi avvolge in un forte abbraccio.
– È in ospedale?
Annuisco. Lei mi guarda con l’aria di chi vuole sapere ma non fa domande.
– Tumore, – le dico.
– Non sai quanto mi dispiace, – e continua a guardarmi con la stessa espressione.
– Utero.
– Quanti anni ha?
– Sessantacinque.
– È giovane.
– SÃ, – le dico abbassando lo sguardo.
Qualche secondo di silenzio. Poi prendo coraggio: – Ora ho fretta. Ci sentiamo con piú calma.
– Se hai bisogno di qualcosa...
Annuisco di nuovo. Di nuovo mi abbraccia e si allontana. La sua totale mancanza di sospetti mi fa venire su un rigurgito di vergogna.
Gianna l’ho conosciuta perché facevamo colazione nello stesso bar davanti all’università . Lei insegna Storia medioevale.
«Io di faccia assomiglio a Freddie Mercury, non trovi?» mi disse una mattina.
Bastarono quelle poche parole per innescare un’empatia latente. Gianna ha capelli lunghissimi su un corpo formoso d’altri tempi. Però a guardarla bene assomiglia molto, non si sa come, al cantante dei Queen. È buffo che se ne sia accorta e per giunta lo dica, anche se assomigliare a Freddie Mercury non ti fa acquistare punti in nessuna classifica.
Qualche anno fa mi confidò di essersi fatta congelare un ovocita, «per darmi piú tempo nella decisione della maternità ». Pagando duemila euro. Io non ne sapevo nulla all’epoca e l’ascoltai con curiosità . Fece tutto da sola, senza dire niente a Marzouk, vent’anni piú di lei, suo compagno da sempre, «perché, sai, credo che si senta troppo vecchio per avere una moglie e un figlio».
Ora so che ha subito una truffa legale. Duemila euro per congelare un unico ovocita, che ha una probabilità su dieci di sopravvivere allo scongelamento, deve superare l’incognit...