Di latte e miele
eBook - ePub

Di latte e miele

  1. 110 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro

Un uomo che ha molto vissuto e molto perduto si prepara a morire. Per la seconda volta.
La prima è stata quando, ragazzo, voltò le spalle all'amico con cui era cresciuto, al fratello in tutto tranne che nel sangue, a Stefan. Lui e Stefan vivono nel Banato, una delle regioni piú multietniche d'Europa, nel cuore lacerato dell'ex impero asburgico: Stefan è il musicista virtuoso, lo sportivo da battere, l'incarnazione di un ideale irraggiungibile che però, invece di dividere, unisce i due giovani in un legame che sembra piú forte di ogni avversità. Ma forse non della guerra. Le truppe di Hitler sono in ritirata e l'Armata Rossa è alle porte: mentre Stefan si sente tedesco e segue i soldati del Reich nel ripiegamento verso la Germania, il protagonista, che ha in odio i nazisti, decide di fare quello che mai avrebbe creduto possibile e abbandona l'amico.
Quando il figlio del protagonista scopre l'esistenza di Stefan, vuole far rincontrare un'ultima volta il padre con il vecchio compagno...
Un romanzo di esili incrociati, il racconto di un'amicizia d'infanzia che parla la lingua con cui è scritta la storia del Novecento europeo. *** «Jean Mattern ha scritto un libro commovente sull'esilio e sulla perdita, la menzogna e la colpa. Semplicemente raffinato e pieno di pudore: un magnifico racconto intimo, anche se la grande storia fa capolino tra le sue pagine». «Le Monde»

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2012
Print ISBN
9788806206932
eBook ISBN
9788858405642

Capitolo nono

Suzanne parlava, parlava. Io ascoltavo, e guidavo. Il suono del motore era il basso continuo su cui risaltava la sua voce limpida, durante quelle lunghe gite nei dintorni di Reims. Farmi capire la sua vita prima che ci incontrassimo. E soprattutto: durante l’autunno del 1956. Suzanne, sul sedile del passeggero, non si voltava. Guardava dritto davanti a sé, ma si rivolgeva a me. Oggi sono sicuro che non avrebbe mai avuto il coraggio di parlarmi cosí liberamente se mi fosse stata seduta di fronte. Allora non immaginavo che questa idea venisse sfruttata negli studi degli psicoanalisti che iniziavano a fare la loro comparsa persino in città come Reims, e che i pazienti fossero invitati a sdraiarsi per evitare il contatto visivo fra chi ascolta e chi parla. Io non ero certo il suo terapeuta – probabilmente Suzanne ignorava persino l’esistenza di questa parola –, ma compresi che si sentiva al sicuro nella nostra auto, accanto a me, e che potevo ascoltare tutto di lei. Persino la storia di un intero popolo la cui sete di vivere finí sotto i carri armati sovietici.
Forse sbagliamo categorie quando facciamo il bilancio della nostra vita paragonandola a quella degli altri. Felici o infelici, tiriamo le somme contando sulle dita da una parte i successi e dall’altra gli insuccessi. Sembra sufficiente addizionare e sottrarre, ma in realtà niente è piú soggettivo di questo sguardo all’indietro per sapere se siamo stati felici. Inoltre, le grandi date storiche che incrociano le nostre traiettorie occupano un posto a parte in questo gioco, poiché la loro scala di valori è determinata da una gerarchia collettiva e non solo individuale. Una vita sembrerà ricca o insignificante, tragica o serena agli occhi degli altri perché ci avranno visti attraversare questo o quell’evento significativo per la memoria di tutti. Le guerre e le rivoluzioni sono fra i momenti in cui si deve fare una scelta di campo, e si verrà giudicati di conseguenza per il resto dei nostri giorni. D’altronde bisogna aver condiviso quei grandi appuntamenti stando dalla stessa parte della storia o della geografia. Per noi non era cosí: a Bar-sur-Aube la nostra esperienza della guerra, della fame e della miseria non ci definiva agli occhi dei nostri nuovi compatrioti che avevano vissuto la stessa guerra all’altro capo del continente. Ci trovavamo esclusi dalla memoria, e un po’ anche dal presente, dei nostri vicini e colleghi di lavoro, ma questo sembrava rinsaldare la nostra coppia. Suzanne non aveva dimenticato né i suoi sogni infranti né i morti: voleva condividerli con me. Ero lontano al momento dei fatti, quando i giornali francesi si interessavano piú al canale di Suez che al Danubio, ma dopo tutte le ore passate in auto ad ascoltarla, mi sembrava quasi di essere stato in corteo con lei, di aver cercato János insieme a lei, per le strade di Budapest, disperato come lei, di aver ripreso il treno per Sopron. Per rivedere i genitori un’ultima volta, poiché ormai aveva deciso: doveva fuggire. Andarsene, finché le frontiere non erano ancora completamente chiuse. Il valico di Andau verso il Burgenland austriaco era aperto. Non lontano da lí, Haydn aveva passato trent’anni al servizio degli Esterházy, ma a quel tempo le frontiere non separavano ancora due mondi irreconciliabili. E Andau, quel piccolo borgo tranquillo della Bassa Austria, non era ancora l’ultima città dell’Occidente libero. Dove la Croce Rossa avrebbe accolto quei profughi con tè, coperte calde e, ben presto, indirizzi di altre organizzazioni umanitarie in tutto il mondo. Perché da ottobre la situazione era cambiata e adesso quasi tutte le grandi democrazie del pianeta si dichiaravano pronte ad accogliere una certa «quota» di quegli sfortunati ungheresi, che negli articoli veementi della stampa americana erano diventati eroi dell’anticomunismo e della lotta per la libertà dei popoli. In Francia l’entusiasmo era probabilmente minore, ma Suzanne non lo sapeva, e chiese di andare a Parigi. János le aveva parlato della città, l’aveva sognata, o piú precisamente aveva sognato di visitare la tomba di Ravel, a Levallois. Suzanne non conosceva una parola di francese e sapeva a malapena chi fosse Ravel, ma quell’idea era tutto ciò che le restava del cugino preferito. Quindi, invece del Canada o dell’Australia, mise una crocetta sulla casella «Frankreich» nei moduli della Croce Rossa austriaca.
Dodici anni dopo di me divenne anche lei una «profuga». Il mondo non era piú quello del 1944 – ma il suo dolore probabilmente non era molto diverso dal mio. La ferita di Suzanne non veniva solo dal senso di aver perso… che cosa, esattamente? Il suolo su cui aveva imparato a camminare, il cielo verso cui aveva l’abitudine di alzare il capo, e una lingua che aveva imparato a padroneggiare? Poiché Suzanne faceva parte di un lungo convoglio: la repressione della speranza di Budapest aveva infatti causato lo spostamento demografico piú importante dalla fine della guerra, e sembrava che un intero paese fosse avvolto in coperte calde nei campi profughi, con in mano una tazza di metallo piena di tè bollente. In realtà, a scegliere l’esilio erano stati «solo» duecentomila. Di certo, anche lei era oppressa da una tristezza difficile da definire, come tutti gli altri. Ma non sapendo se János fosse ancora vivo, nascosto da qualche parte, o se fosse stato ucciso dall’esercito sovietico, dalla polizia ungherese oppure semplicemente da una pallottola vagante, aveva soprattutto l’impressione di abbandonarlo, o peggio, di tradirlo. Quindi, per riscattarsi, pensò a cosa avrebbe fatto lui al suo posto, e scelse Parigi.
È una fortuna o una maledizione amare la linea dell’orizzonte che abbiamo scrutato nei primi anni della nostra vita? Mi ci volle del tempo per abituarmi alle colline della Champagne: mi opponevano una muta resistenza, un ostacolo, e non riuscivo a dimenticare la pianura del Banato. Suzanne diceva che ero ridicolo. «È solo un paesaggio, nient’altro. Non ti appartiene, e tu non gli appartieni». L’impressione di vedere piú lontano è ingannevole, me ne rendo conto. In aperta campagna, di fronte alla linea dell’orizzonte ci crediamo capaci di fissare un punto a una distanza maggiore di quanto sapremmo fare in un paesaggio collinare. Ovviamente non è vero, i nostri occhi sono gli stessi in pianura come in montagna. Comunque, quell’illusione di libertà mi mancava.
Difficile nascondersi in pianura. Quella vasta distesa che amavo perché si apriva al mio sguardo senza alcun ostacolo non ci avrebbe facilitato la fuga. Non sapevo se dovessi temere i sostenitori di Tito, su di loro giravano le voci piú pazzesche. Bisognava credere a tutto ciò che dicevano i primi fuggiaschi del Banato che avevano attraversato Ciacova diretti alla frontiera serba? Che saremmo stati sorpresi dalla loro efferatezza un po’ piú a ovest, e che loro si erano decisi a scappare solo perché la brutalità sovietica si sarebbe abbattuta su di noi da sud e da est? Molti convogli si avviavano già verso occidente nella massima disorganizzazione, seguendo le truppe della Wehrmacht. Ci avrebbero ammazzati come conigli venti chilometri piú in là o avremmo avuto un’effettiva possibilità di sfuggire ai nemici che ci stringevano in una morsa? Verso le dieci del mattino la nonna era tornata a casa piangendo. – L’esercito tedesco leva le tende. Se ne vanno. Che ne sarà di noi? – Non potevo piú fingere di non sentire quel rombo che si avvicinava. I russi, o i bolscevichi, come diceva Stefan. – Smettila di fantasticare. Prepara la valigia –. Tornai a casa di corsa, incapace di prendere una decisione. Alle cinque del pomeriggio Stefan mi strappò all’abbraccio della nonna.
E dire che non era mai stata una persona affettuosa.
In seguito, la televisione o i giornali mi hanno messo di fronte a tante immagini di persone gettate per strada. L’umanità sembra segretamente gioire di questo ciclo sempre rinnovato dell’esilio. E ogni volta sovrappongo il viso dei miei quindici anni a quello dell’adolescente vietnamita, sudanese o bosniaco. Perdere la casa, mettersi in viaggio, e poi avviarsi ai campi profughi – un’esperienza universale dalla notte dei tempi. Ma io ho sempre preso le distanze da chi pensa che condividere una sofferenza, un’ingiustizia o una perdita basti a creare un legame, e non ho mai risposto alle sollecitazioni degli altri abitanti del Banato che come me sono riusciti a rifarsi una vita in Occidente. In Germania, in Canada, in Argentina. Fin dai primi giorni in Francia ero tutto preso dall’ossessione di capire i meccanismi di quella società, e perciò bisognava guardare avanti. D’altra parte, nessuno mi domandava niente, il che mi faceva comodo. Fino a quando non ho incontrato Suzanne.
Lo zio di Stefan possedeva dei cavalli, e un carretto. Noi eravamo molto piú benestanti, ma la Ford che mio padre aveva comprato prima che nascessi non mi sarebbe servita a nulla anche se avessi saputo guidarla, perché era semplicemente impossibile trovare della benzina in quell’immensa baraonda. Quindi ho lasciato Ciacova sdraiato su un carretto da contadino, con la testa appoggiata sulla mia piccola valigia di cuoio. Stefan era salito accanto a me dicendomi: – Non preoccuparti, – ma non era in grado di aggiungere altro. Lentamente, al ritmo dell’andatura del cavallo, ci sfilavano davanti agli occhi le ultime case e gli alberi della città. Perché a Ciacova, come in quasi tutte le località della regione, si era badato a costruire le abitazioni lontano dalla strada, lastricata, come qui, o piú spesso in terra battuta. Un marciapiede per i pedoni, una doppia fila di alberi e poi una larga striscia d’erba proteggevano gli abitanti dal rumore e dalla polvere del traffico. Presto avrei imparato che quel modo di progettare la pianta delle città era stato inventato da urbanisti viennesi del diciottesimo secolo, e che in Europa non avrei ritrovato in nessun posto la sensazione di spazio che mi avevano dato le città della mia infanzia.
Non pensavo a niente di tutto ciò, sballottato dal carro, stretto accanto a Stefan. E nemmeno mi resi conto che, per la prima volta, eravamo cosí vicini l’uno all’altro, fisicamente, a parte forse quell’incidente di pattinaggio, quando la caduta sul ghiaccio ci aveva uniti in un abbraccio doloroso. Proseguimmo il viaggio in silenzio, ognuno chiedendosi a cosa mai potesse pensare l’altro. – Vedrai, torneremo, – disse Stefan dopo un po’. Ma tutte le sue spiegazioni sul fatto che la ritirata dei tedeschi era di certo provvisoria, che avrebbero riconquistato le posizioni perdute e respinto i russi, permettendoci cosí di tornare ben presto a casa, non riuscivano a convincermi. Poi si confondeva, mi ripeteva di voler «tornare in Germania», quel paese a cui ci legava una lingua ma del quale non sapeva nulla, o solo ciò che l’ideologia nazista gli aveva inculcato. Nemmeno io sapevo che ne sarebbe stato di noi, ero smarrito quanto lui, ma la certezza che non avrei mai rivisto né Ciacova e i suoi gelsi, né Timişoara e il nostro bel liceo dipinto di giallo, mi faceva venire le lacrime agli occhi. Non tentai di nasconderle, e Stefan mi strinse piú forte a sé. Il calore del suo corpo mi faceva bene, ma oggi mi chiedo se in quel momento non sapessimo già che non avremmo finito il viaggio insieme. Che la guerra avrebbe infranto anche la nostra amicizia.
Ormai era quasi notte e ci avvicinavamo a Módos, sulla frontiera serba, quando Stefan mi domandò: – Che farà tutta sola, tua nonna? – Il suo volto esprimeva una qualche sorpresa quando gli risposi: – Lei è una dura, sai –. Certo, mi aveva abbracciato come mai prima, e tremava di paura, anche lei, al momento della partenza. Paura di aver fatto la scelta sbagliata dicendomi: – Sono troppo vecchia. Rimango qui –. Ma in fondo al cuore ero convinto che non amasse né me né mio padre. Ai suoi occhi eravamo responsabili della morte di sua figlia. Il giorno dopo il funerale l’avevo sentita dire a mio padre: – Sapevi perfettamente che soffriva di cuore, ma era piú forte di te, vero? Non potevi lasciarla in pace. I medici avevano avvertito che non avrebbe sopportato una terza gravidanza, ma avete la smania, voi uomini. Ah, devi essere proprio fiero di te!
Stefan non seppe cosa rispondere, e del resto non mi aspettavo nessuna risposta. Io stesso ero ancora assolutamente sbalordito di avergli confidato il ricordo di quella conversazione ascoltata per caso.
Poco dopo mi disse: – Sai, a volte ti invidio: non hai piú una madre di cui ti potresti vergognare.
Stefan non mi aveva mai parlato di sua madre prima di allora. Di quella bella donna che mi dava un brivido quando mi porgeva la sua mano bianca e molle, in punta di dita – dita su cui brillavano numerosi anelli – nell’attesa di un baciamano che non ero sicuro di saper fare a regola d’arte. Ogni volta che passavo da Stefan, nell’appartamento che i suoi genitori avevano comprato in uno dei nuovi stabili di lusso di Piaţa Victoriei, ero impressionato dalla freddezza quanto dalla bellezza di lei. Mi parlava in rumeno, e mi domandava invariabilmente se i miei genitori erano contenti dei miei risultati scolastici – dimenticando che mia madre era morta da anni – e se facevo progressi con il corno inglese. Congedandomi con un cenno della mano, non mancava mai di dirmi: «Conto su di te perché Stefan non trascuri il violoncello. Ho grandi progetti per lui».
Da quando aveva ottenuto che il piccolo Stefan suonasse davanti al celebre compositore Zoltán Kodály, di passaggio a Timişoara nel 1937, aveva in testa un’unica idea: fare di suo figlio un virtuoso capace di interpretare la famosa Sonata per violoncello solo che l’amico di Bartók aveva composto piú di vent’anni prima, in piena Grande Guerra. Un brano che lo aveva reso improvvisamente celebre, tanto la violenza della musica spazzava via tutti i luoghi comuni sulla presunta sonorità romantica del violoncello, e tanto sembrava riflettere gli sconvolgimenti della sua epoca. – Corde colpite, sfregate, pizzicate, uno strumento trasformato in arpa, cornamusa, tamburo e cembalo, pensa! Mia madre non mi lascerà mai in pace finché non potrò eseguire di nuovo un brano davanti a Kodály, e questa volta non un frammento di una suite di Bach, no: la sua stessa opera –. Stefan s’infervorava, e non riuscivo piú a distinguere il suo entusiasmo da quello di sua madre, che in effetti aveva fatto ricorso a tutto il proprio fasci...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Di latte e miele
  3. Copyright
  4. Capitolo primo
  5. Capitolo secondo
  6. Capitolo terzo
  7. Capitolo quarto
  8. Capitolo quinto
  9. Capitolo sesto
  10. Capitolo settimo
  11. Capitolo ottavo
  12. Capitolo nono
  13. Capitolo decimo
  14. Capitolo undicesimo
  15. Capitolo dodicesimo
  16. Capitolo tredicesimo
  17. Capitolo quattordicesimo