
- 256 pagine
- Italian
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Lo scialle andaluso
Informazioni su questo libro
Dei moltissimi racconti scritti nella sua vita, Elsa Morante presenta qui una scelta disposta in ordine cronologico. Lungo una inquieta vicenda predestinata, i lettori potranno seguire, meglio ancora che nei romanzi, il tema drammatico ed affascinante che sempre ha accompagnato Elsa Morante: il nesso tra vita, sogno e scrittura, in cui la realtà diventa mistero e menzogna in una continua oscillazione tra «bisogno del meraviglioso» e «chiaroveggenza adulta».
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Informazioni
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9788806188412eBook ISBN
9788858408902Andurro e Esposito
La giornata
Il vecchio Andurro, che non conosceva la propria età, si svegliò nella notte alta, come sempre gli accadeva. Malgrado fosse già sveglio, non poteva però alzarsi fino alla mattina, quando sua nipote Elena veniva per aiutarlo. Da solo, era incapace di alzarsi.
Le ore d’immobilità e di silenzio, fino all’alba, scorrevano per lui senza fastidio né dolore, facili come acqua. Dalla sua camera stretta e quasi sotterranea lui non vedeva di fuori; pure avvertiva il pullulare delle stelle nell’arco celeste e il loro trascolorarsi finché pensava: «Ci siamo». E, si può dire, nello stesso istante, per le fessure trapelava la prima luce, simile nel colore ad un viso pallido e ancora sbattuto dai sogni.
Il vecchio Andurro pensò: «Fra poco verrà mia nipote Elena mentre prima veniva mia moglie Maria. Era una vecchia ancora cosí vispa, sempre a chiacchierare e arruffarsi come una gallina, quando già io non potevo fare due passi in fila. Le dicevo: “Con chi borbotterai, Gallinella, quand’io sarò sotterrato?” Invece, guarda, lei è morta, e io son qua».
Egli rise un poco e scosse la testa. In quel punto arrivò, alta, a piedi nudi, la nipote Elena. Chinando su lui gli occhi neri, che le raggiavano nella fronte come due astri, seria ed esperta lo vestí e lo aiutò a sedersi sul gradino della soglia. Non dimenticò di lasciargli la scodella della zuppa che doveva bastargli per tutto il giorno: una pappa di pane molle e d’erbe tritate, quanto esiste di meglio per un vecchio buono solo a biascicare. E senza rumore, movendo con nobilissima grazia il fianco, la nipote Elena se ne andò.
Seduto sullo scalino della soglia, il vecchio sapeva che il sole si era levato ma, nascosto dalla montagna, non si vedeva. Dai fianchi della montagna ne trapelava l’ardore, finché apparvero i raggi e il vecchio pensò per la millesima volta: «Pare lo Spirito Santo dietro la nuvola». Questo pensiero lo tenne occupato parecchio tempo; alla fine, libera, di sulla montagna si versò la meravigliosa corrente d’oro, e i vetturini uscirono per addobbare i loro cavalli e partirono fra gli schiocchi delle fruste. A tutti, Andurro gridava: – Buon viaggio! – ma essendo la sua voce impastata e roca, simile ad un brontolio di tuono, essi non lo capivano.
Alle dieci cominciava il passaggio dei signori che scendevano al mare: – Accomodatevi, signorini, – supplicava il vecchio, – salite sulla mia terrazza, che c’è il bel panorama –. Credendo che il suo scopo fosse il guadagno, i piú rifiutavano. Invece Andurro non voleva compenso, anzi offriva alle signore i garofani della sua terrazza. Non potendo lui stesso salire fin lassú, da dove appariva fino il vulcano e le isole, voleva che almeno qualcun altro godesse al suo posto. – Bello! – gridavano tutti dall’alto. E il vecchio rideva contento per l’onore.
A mezzogiorno, biascicò metà della zuppa, lasciando il resto per la cena. Per alcune ore nessuno passò, fuori dei marmocchi seminudi che si rotolavano nella polvere e di qualche asino portato alla cavezza da una bambina. Buona parte di questo tempo, il vecchio la trascorse con la testa chinata sulle ginocchia o appoggiata allo stipite. Udendo le campane pensò alla canzone «Din don, campanon, fra Simon». Anche simile canzone ebbe il potere di occupare la sua mente per lunghe ore; al modo di un suono che nasce da un punto, e attraverso una rupe, e un’altra, e un’altra, si ripercuote per amplissimo spazio.
A intervalli, la nipote Elena appariva per offrirgli i suoi servigi. Salutandola con gesto indulgente egli le gridò: – Ce l’hai il damo?
Il sole scese dalla parte del mare, ma il vecchio solo vagamente ne distingueva l’ardente cerchio. Prima che l’umidità vespertina potesse penetrargli nelle ossa, venne la solerte nipote Elena, alta e a piedi nudi; e chinando su di lui gli occhi neri, che le facevano ombra nella fronte come due rose di velluto, lo spogliò e lo mise a letto. Poi, fattogli sul viso il segno della croce, andò via.
Dalla sua camera stretta e quasi sotterranea, di nuovo il vecchio non vedeva di fuori; ma avvertiva la prima animazione delle stelle nel crepuscolo del cielo, e il loro accendersi in un punto fisso. «A quest’ora, – pensò, – mia moglie Maria quand’era viva recitava il Rosario, e cip cip, cip cip, non la finiva piú. Se Dio vuole, quella sua canzonetta sarà servita anche per me. Cosí non dovrò preoccuparmi troppo dell’anima mia. Già».
Grazie a questo pensiero che gli girava nella mente, la sera camminò facile e benigna sulla veglia del vecchio. Battevano le ore della notte, e la luna, sottile quasi quanto un filo, via via procedeva con quel suono. Quand’essa fu molto alta e quasi al declino, il vecchio Andurro si addormentò.
Il battesimo
Francesco Esposito veniva da una famiglia di anarchici e di atei: per cui, alla sua nascita, non era stato battezzato. E arrivò all’età di settantacinque anni senza sacramenti (come le bestie, diceva la sua compaesana Lucia). I suoi parenti erano tutti morti, era solo; e malato di arteriosclerosi, cosí che, da un momento all’altro, poteva sopravvenire la morte anche per lui. La sua sorte suscitava molte preoccupazioni nella mente di Lucia. Al mattino, dopo che suo marito, cocchiere di piazza, era partito con carrozza e cavallo, e i quattro figli grandi erano andati a scuola, lei lasciava soli per qualche minuto i tre figli piccoli, che subito ne approfittavano per rotolarsi nella polvere dello spiazzo (fra tutti i loro passatempi, il piú beato). E legatasi il fazzoletto nero sotto il mento, correva subito alla cameretta (una specie di sotterraneo stretto e lungo) che era tutta la dimora di Francesco Esposito. Quindi – simile a fringuella mattiniera che venga a ricantarci tutti i giorni la medesima cantata – gli diceva festosamente, con fervide occhiate dei suoi occhi di araba:
– E allora, la notte non v’ha portato consiglio? Che ne dite, dunque? Non vogliamo pensarci a prepararvi questa sediolina in Paradiso?
– Mah, – rispondeva Francesco Esposito, – alla mia età, che volete.
– Età! – esclamava Lucia, dando in un riso nervoso, e tirandosi aspramente le cocche del fazzoletto nero, – che gliene importa dell’età a Nostro Signore? Per Nostro Signore siamo tutti creature come Filomena mia, che ancora sta in fasciola. Che cosa credete, l’età e la vecchiaia sono tutte barzellette di questo mondo. La morte, quella sí, è un fatto vero di Nostro Signore; allora sí, Nostro Signore, quel maestro principale, ci chiama per l’esame. E se non siamo pronti, ci dice: «Chi siete voi, ignoranti? Io non vi conosco. Fuori dalla casa mia!»
E con gesti grandi e ispirati, voltandosi ogni tanto indietro per il pensiero di quei tre disoccupati che si rotolavano nella polvere, ancora una volta Lucia spiegava a Francesco Esposito tutto quanto si sapeva riguardo all’inferno e al Paradiso: quanto l’inferno fosse orrido, e sdirupato, e tenebroso, e sconcio; e il Paradiso, invece, illuminato, giocondo e quieto, e un ambiente, poi, di angeli, e santi, e persone brave come si deve: – Forse che vi piace l’idea, – gli diceva, – di passare tutta l’eternità, nei secoli dei secoli, in compagnia dei pagani, degli scomunicati, e della gente di malavita, ladri e assassini? Certi delinquenti che, qua in terra, si vorrebbero scansare come la schifenza: e poi ve li ritrovate laggiú, muso a muso, come tante comari e compari vostri!
Non c’era giorno che – fazzoletto nero e scarpette di tela ai piedi – (nel paese era lei una fra le pochissime donne che, come le signore, portavano scarpe) Lucia non discendesse fino alla casa di Francesco Esposito, a ribadire i suoi ragionamenti, per convincere il vecchio a battezzarsi. Una mattina, infine, Francesco Esposito ammiccò e le disse:
– Ma insomma, Nostro Signore era un gran sapiente, no, uno che se ne intendeva e teneva un cervello speciale!
– Un cervello speciale! – esclamò Lucia, con solennità oltraggiata, – altro che cervello speciale! È lui che ha fabbricato il mondo in sei giorni e s’è riposato al settimo, è Nostro Signore, vi dico!
– Allora, – dichiarò Francesco Esposito levandosi in piedi, – lui ne saprà piú di me. E se lui dice che bisogna bagnarsi con l’acqua santa, farò come dice lui.
Detto questo, guardò Lucia con occhi aggrottati e ridenti. E la donna prese a tremare per il giubilo che quasi le toglieva il fiato, e baciò le mani di Francesco Esposito, ripetendo: – Figlio di Dio, Dio vi ha benedetto, che da zingaro che eravate, vi ritrovate in una reggia eterna! – Quindi in fretta, con tono da febbricitante, spiegò che si sarebbe occupata lei di tutte cose, del padrino, del curato, e della cerimonia: – Adesso, – concluse, strappandosi dalla testa, per l’ardore, il fazzoletto nero, – fatemi tornare da quelle tre creature, che Dio sa che cosa combinano! – E fuggí via; lungo la strada esclamò: – Ah, madre mia bella, verginella dolcissima del Carmelo, che a me indegna faceste un tale onore! – e a precipizio mormorava delle avemarie di ringraziamento.
In breve tempo, il vecchio Francesco Esposito fu istruito circa i Sacramenti, la Legge e la Dottrina; gli furono insegnate le parole che doveva dire in risposta al sacerdote, e come attraverso il rito del battesimo gli sarebbe stata tolta finalmente la macchia del peccato originale (che finora, nel paese, dove tutti gli altri erano mondi, deturpava solo lui con la sua vergogna orrenda): per cui, quando a Dio fosse piaciuto, lui sarebbe volato in Paradiso candido come un infante. Ora, in verità, per la sua mente tarda, Francesco Esposito stentava talvolta a capire simili spiegazioni, peggio che se fosse stato un ragazzino.
Venne l’ora della cerimonia; e, per tutto il tempo, egli rimase quieto, a testa china, e compitando rispondeva al prete. Ma quando il prete diceva: Francisce, ovvero: hunc famulum tuum Franciscum, egli, sapendo che si parlava di lui, e udendo pronunciare il proprio nome in latino, aveva una specie di soprassalto, e raddrizzava la testa superbamente.
Finita la cerimonia, il suo padrino, un possidente dei dintorni chiamato a quest’ufficio da Lucia, gli fece dono d’una catena d’argento con la medaglia; lui stesso gliela appese al collo, e dopo, avendo da fare nei campi, se ne andò. Anche Lucia, dopo una gioiosa risata d’intesa che le fece tremare il saluto in gola, ritornò dalla sua famiglia. E Francesco Esposito rimase solo.
Secondo il solito, si mise a sedere dinanzi all’uscio di strada. Chi l’avrebbe detto che, quel giorno, tutto era cambiato per lui? Tutte le cose apparivano le stesse. Di fronte a lui, sovrastante al mare, si levava la montagna, che a lui (poiché la fatica di alzare il capo gli vietava di guardarne la cima) si rappresentava di un’altezza vertiginosa. Sulle sue pendici, nella luce del mezzogiorno (che agli occhi di lui si confondeva in una specie di crepuscolo splendente) si distinguevano le macchie diverse dei vigneti, degli uliveti e dei prati, che a lui apparivano tutte nere, ma di un nero disuguale. E piú in là, i due celesti contigui del cielo e della marina gli si spalancavano in lontananza simili a un lago immenso, quasi la bocca misteriosa d’un’unica voragine.
Ogni tanto, per il grande spazio aperto si udivano degli echi di canzone o dei richiami, voci sconosciute ma pure familiari a Francesco Esposito. E lungo il viottolo, davanti a lui, si succedevano i soliti passanti: ecco il Padre-dei-ventisette-figli, grasso e spensierato, che cantava a gran voce l’ultima canzone di moda nelle osterie. Ecco la moglie e la figlia maggiore di Pasquale Massa, meglio conosciuto come il Surunto (vale a dire super-unto, unto e sporco in grado supremo) scapigliate, le quali litigavano fra loro secondo il solito. Ecco la levatrice, rauca e magra, con la sigaretta in bocca. Ecco, in persona, il tetro Surunto, col cappello in testa e la guancia sfregiata... Tutti costoro videro Francesco Esposito quando alzare la mano con gesto indulgente, quando tentennare il capo. Certe volte si toccava i suoi bianchi ricci ch’erano stati bagnati dall’acqua santa, e subito con un riso discreto si nascondeva la faccia nelle mani. Chi sa se la gente si accorgeva che adesso lui era come tutti gli altri, e candido come una creatura? Gli venivano pensieri indistinti che avevano, nel loro modo, forma bianca e alata, simili a palombe. E se pensava alla morte vedeva un campo bianchissimo, affollato, pareva, da un gregge d’agnelli tutti addormentati vicini; come fratelli a riposare in un bel letto.
Poi gli sopravvenne una ronzante sonnolenza meridiana; ma al di là di questa sua sonnolenza (che tuttavia non gli concedeva il sonno), sembrava spalancarsi una voragine nera. È un fatto ch’egli era ancora schiavo del dubbio e dell’ignoranza. Sul tardo pomeriggio, una tale solitudine gli pesò, e si decise a fare una visita a Vincenzo Vuotto.
Vincenzo era un uomo ancora piú vecchio di lui, il quale certo, a quell’ora, se ne stava in cucina, aspettando che la famiglia ritornasse dai campi. Cosí era infatti: l’amico sedeva là, in maniche di camicia, sopra una sedia, e pesantemente appoggiava i gomiti allo schienale d’un’altra sedia, con la testa piegata in basso. Sulla sua testa, da una finestruola fra una parete e il soffitto, si allungava un triangolo di sole, e una ridda di moscerini appena nati, presi da vertigine solare, vi girava dentro. Vincenzo Vuotto era un uomo taciturno che all’entrare di Francesco Esposito ebbe appena una leggera scossa e poi riabbassò sul petto il mento e lo sguardo intorbidato.
Francesco Esposito incominciò a ridacchiare: – Cosí, anche questa sediolina ce la siamo sistemata, – disse, in una soffocata allegrezza (alludeva, com’è facile intendere, alla sua sediolina in Paradiso).
Vincenzo Vuotto non batté ciglio; Francesco Esposito, i pomelli accesi, gli si sedette di fronte: – Guardate qua, – disse con una risata un poco vergognosa, che parve un soffio, e, agitando la catenella con le dita, fece danzare nell’aria la medaglia d’argento del padrino: alla quale Vincenzo Vuotto gettò appena uno sguardo, per convenienza.
– Ne ho mangiato, di sale, stamattina, – seguitò Francesco Esposito con un tremito compiaciuto, e scosse il capo. Vincenzo Vuotto ebbe un borbottio incomprensibile. – Adesso, – riprese Francesco Esposito sospirando, – posso anche morire.
– Bah, – disse Vincenzo.
L’altro gli gettò un’occhiata, e osò metterlo a parte dei propri dubbi: – Che ne dite, – chiese ammiccando, – di tutte queste cose, del Paradiso e dell’acquasanta? Certo bisogna star pronti a tutte le ore. Prima di tutto: chi ce lo dice se questo mondo, che dura e è durato assai, non può finire in rovina da un momento all’altro? Anche i palazzi... dico per dire... anche un palazzo antico, che sta in piedi da due, trecento e piú anni, un giorno o l’altro comincia a fare le crepe, piovono giú i pezzi d’intonaco, e i soffitti, i piancíti... finché tutto si riduce a una maceria, buona per le serpi e i pipistrelli e i gufi che ci dormono il giorno. Qualche segno pure c’è, che pure il mondo già fa le crepe... Starei per dire: qualche segno non manca.
Egli estraeva dalla propria mente questi pensieri con fatica e affanno, come uno sterratore che lavori di zappa e di pala su un terreno pietroso. Ma Vincenzo Vuotto non mostrò, con nessun cenno, di apprezzare i suoi ragionamenti. Fece solo un gesto con la mano, non si capiva se per allontanare un qualche moscerino, o per approvare Francesco Esposito.
– Eh, l’uomo non può dire né oggi né domani, – seguitò Francesco, – può capitarmi di uscire stasera da casa vostra pensando fra me: «Adesso vado a Pratile a bere un bicchier di vino»; e da qua a Pratile m’incontro con la morte, casco per terra e sono finito. Eh, l’uomo, come nasce senza niente sapere, cosí arriva all’ultimo senza niente sapere. L’uomo non sa niente del suo principio, e non sa niente della sua fine. Grazie a Dio, siamo pronti –. E qui Francesco tacque, aspettando la risposta: Vincenzo non disse nulla.
– Ma ne ho mangiato, stamattina, di sale, – ripeté Francesco Esposito, con voce malsicura e bassa.
Rimasero in silenzio per molti minuti. Cadde il triangolo di sole e, con esso, scomparve il folle, piccolo bengala dei moscerini. Si udirono le campane dell’Ave Maria.
Vincenzo Vuotto volse la testa un po’ di sbieco, adocchiò Francesco con aria furba e sorniona e disse:
– Suona l’Avemaria
chi è in casa d’altri se ne vada via.
Non lo dico a voi, compare,
fate quello che vi pare.
Ma se io fossi in casa vostra
e voi non foste in casa mia,
a quest’ora me ne sarei già andato via.
Francesco Esposito si alzò a malincuore: – Eh, già, eh come no, – disse, fermandosi un momento in piedi nel vano dell’uscio. Poi rise di nuovo e disse: – Buona notte.
Vincenzo alzò la mano con gesto pigro.
Uscito di là, Francesco Esposito si riavviò senz’altro verso casa. Difatti, quella sua idea di andarsene a Pratile a bere un bicchier di vino, l’aveva enunciata solo cosí, in via d’esempio, per meglio spiegare il suo discorso; ma in realtà, il piacere di bere un bicchier di vino, da tempo gli era negato. A causa del troppo peso che aveva nel sangue, oramai, a lui il vino non faceva piú altro effetto che di stancarlo, e di aumentare quel perenne ronzio, come di cicala, che senza cambiamento gli suonava dentro gli orecchi.
Riprese dunque la via del ritorno, con la voglia di ritirarsi a casa e dormire. Sapeva, tuttavia, che questa sua sonnolenza crepuscolare, pure se ora lo lusingava al sonno, era fittizia. Il suo sonno durerebbe appena due o tre ore, e poi, secondo il solito, lo attendeva, come una lunga epoca confusa, l’oscura veglia notturna. Finché i primi rumori dell’alba lo sorprenderebbero, come il solito, a occhi aperti.
Prima che Francesco Esposito arrivasse a casa sua, la notte era già scesa. A quell’interno ronzio che sempre lo accompagnava, si aggiungeva qui l’eco della scogliera, che ripeteva ogni suo passo. E a lui pareva che un forestiero muto e astruso, su due trampoli altissimi, camminasse dietro i suoi passi, a una minima distanza da lui.
Il cugino Venanzio
Il cugino Venanzio aveva sulla tempia sinistra un piccolo segno bianco, in forma di virgola, che la zia Nerina, sua madre, affermava essere una voglia di luna. Ella raccontava infatti di aver guardato una sera, nel tempo che aspettava il cugino Venanzio, la luna nuova; e di aver contemplato con tanta passione quell’aureo seme di luce buttato nel cielo, che esso aveva germogliato in lei, rispuntando in forma rimpicciolita e spenta sulla tempia del cugino Venanzio.
Con quella voglia di luna in testa, il cugino Venanzio era minuscolo, e cosí magro che le sue scapo...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Lo scialle andaluso
- Dedica
- Lo scialle andaluso
- Andurro e Esposito
- Nota
- Appendice
- Il libro
- L’autore
- Dello stesso autore
- Copyright