L'estate senza uomini
eBook - ePub

L'estate senza uomini

  1. 160 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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L'estate senza uomini

Informazioni su questo libro

Alla prevedibilità del marito Boris, che sceglie un'amante giovane (e in piú francese!), Mia oppone la sua imprevedibilità di donna. Parte per il Minnesota, dove vive l'anziana madre, e trascorre un'estate senza uomini. Circondata dalle amiche della madre, ottuagenarie piene di risorse, dalle allieve adolescenti di un corso di poesia, tormentate e perfide, Mia ritrova la propria indipendenza, e subito dopo l'empatia verso le storie degli altri, e subito dopo il desiderio d'amare e di essere amata. Boris, insigne neuroscienziato newyorkese, si è concesso una «pausa», vale a dire un'amante piú giovane, e la moglie Mia, poetessa e filosofa, l'ha presa male ed è finita in ospedale con una diagnosi di «psicosi reattiva breve». Uscita dall'ospedale, Mia non se la sente di tornare nella casa disertata dal marito, e decide cosí di allontanarsi per qualche tempo da New York per andare a trovare la madre, che abita in una struttura residenziale per anziani a Bonden, Minnesota, la cittadina dove Mia è nata e cresciuta.
Comincia cosí questa inconsueta storia di una convalescenza, la convalescenza di una donna che, sperimentando un'estate senza uomini, riscopre in una realtà provinciale apparentemente squallida e monotona un mondo di relazioni umane ancora piú ricco e coinvolgente di quello a cui era abituata nella sua sofisticata vita di intellettuale metropolitana. Non si pensi però a un'ingenua riscoperta delle radici, perché lo sguardo posato da Siri Hustvedt sulla provincia americana non ha nulla di idilliaco: le tenere adolescenti che studiano poesia sottopongono le compagne a raffinate torture psicologiche, le arzille vecchiette ricoverate in ospizio coltivano lubrichi «divertimenti segreti », e le simpatiche famigliole nelle loro villette suburbane sono lacerate da violenti diverbi.
In questo mondo apparentemente mansueto ma intimamente turbolento, Mia irrompe come una sorta di deus ex machina, suscitando confidenze, svelando intrighi e risolvendo conflitti, e da questo mondo in cambio riceve una nuova consapevolezza di sé: abituata a considerarsi bella e intelligente, Mia si scopre anche umana e autonoma, e soprattutto degna di essere amata.
L'estate senza uomini finisce cosí per rivelarsi un sorprendente romanzo d'amore, un'intensa e raffinata meditazione narrativa sulla piú irrazionale, incoerente, profonda e persistente delle forme di convivenza umana: il matrimonio. *** «Un viaggio nella commedia romantica, sia nella classica versione hollywoodiana dell'amore attaccabrighe, sia nel solco di Persuasione di Jane Austen». «The New York Times Book Review»

Domande frequenti

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2012
Print ISBN
9788806210748
eBook ISBN
9788858406120

L’estate senza uomini

A Frances Cohen
LUCY (Irene Dunne): Sei molto confuso, non è vero?
JERRY (Cary Grant): Tu no?
LUCY: No.
JERRY: Dovresti esserlo, perché sbagli sulle cose che sono diverse, perché non sono le stesse. Sono diverse, solo che, in un modo diverso, sono sempre uguali. Io sono stato un idiota, ma ora non piú. Dato che sono diverso, non pensi che le cose potrebbero essere ancora uguali? Solo un po’ diverse?
L’orribile verità, diretto da Leo Mc Carey,
sceneggiatura di Viña Delmar

Qualche tempo dopo che lui aveva detto la parola «pausa», impazzii e finii in ospedale. Non aveva detto «Non voglio vederti mai piú» oppure «È finita» ma dopo trent’anni di matrimonio pausa bastò a trasformarmi in una matta i cui pensieri si scontravano esplodendo e rimbalzando come popcorn nel microonde. Feci questa penosa riflessione standomene distesa su un letto della South Unit, talmente appesantita dall’Haldol che l’idea di muovermi mi faceva orrore. Le cantilenanti voci cattive sembravano attutite, ma non erano scomparse, e quando chiudevo gli occhi vedevo personaggi dei cartoni animati che sfrecciavano tra colline rosa e scomparivano in foreste azzurre. Alla fine, il dottor P. mi diagnosticò un disturbo psicotico breve, noto anche come psicosi reattiva breve, il che significa che sei andata davvero fuori di testa, ma non per molto. Se dura piú di un mese, ti devono mettere un’altra etichetta. A quanto pare, alla base di questo particolare squilibrio c’è sempre un fattore scatenante o, in gergo psichiatrico, uno «stressore». Nel mio caso era Boris, o meglio il fatto che Boris non ci fosse, che Boris fosse in pausa. Mi tennero sotto chiave per una settimana e mezza, poi mi lasciarono uscire. Ero già paziente esterna da qualche tempo quando trovai la dottoressa S., con la sua voce bassa e melodiosa, i sorrisi tirati e un buon orecchio per la poesia. Mi rimise in piedi, anzi, continua a tenermi in piedi.
Non mi piace ricordare quella pazza. Mi faceva vergognare. Per molto tempo non riuscii a rileggere quello che lei aveva scritto in un taccuino bianco e nero durante il ricovero. Sapevo che sulla copertina c’era scarabocchiato Schegge di cervello in una calligrafia che non sembrava affatto la mia, ma esitavo ad aprirlo. Avevo paura di lei. Quando venne a trovarmi, mia figlia Daisy nascose il suo disagio. Non so esattamente quello che vide, ma posso immaginarlo: una donna che non mangiava, magrissima, ancora confusa, il corpo irrigidito dai medicinali, una persona che non sapeva reagire in modo adeguato alle parole di sua figlia, che non riusciva ad abbracciare la sua bambina. E poi, quando se ne andò, la sentii mormorare a un’infermiera, con un singhiozzo strozzato in gola: – È come se non fosse la mia mamma –. Allora non ero in me, ma adesso ricordare quella frase è straziante. Non me lo perdono.
La Pausa era francese, con capelli castani lucidi ma senza volume. Aveva un seno che si notava, di quelli veri, non siliconati, sottili occhiali rettangolari, e un gran bel cervello. Era giovane, ovviamente, di vent’anni piú giovane di me, e ho il sospetto che Boris avesse sbavato dietro la sua collega per parecchio tempo prima di puntare alle sue regioni piú interessanti. Me lo sono immaginato un sacco di volte. Boris, con i ricci bianchi come neve sulla fronte, che palpa il seno della suddetta Pausa vicino alle gabbie dei topi geneticamente modificati. Li vedo sempre in laboratorio, ma probabilmente mi sbaglio. Lí rimanevano soli di rado, e il «team» avrebbe notato i brancicamenti rumorosi. Forse si nascondevano in un bagno, e il mio Boris cavalcava la sua collega scienziata, con gli occhi che si rovesciavano nelle orbite prima di raggiungere l’estasi. Lo sapevo bene. Avevo visto le sue pupille rovesciarsi migliaia di volte. La banalità della storia – il fatto che venga replicata ad nauseam da uomini che scoprono, all’improvviso oppure poco per volta, che quello che è non deve essere per forza e poi decidono di liberarsi di donne che per anni si sono prese cura di loro e dei loro figli, e che ora stanno invecchiando – non cancella l’angoscia, la gelosia e l’umiliazione che travolgono chi viene abbandonato. Le donne scartate. Io ululavo e strillavo e battevo i pugni sul muro. Gli facevo paura. Lui voleva solo essere lasciato in pace, libero di andarsene con la neuroscienziata dei suoi sogni, una donna di classe, con cui non aveva un passato, non condivideva dolori, sofferenze o conflitti. Eppure aveva detto «pausa» e non «basta», per tenere aperta la narrazione nel caso avesse cambiato idea. Un crudele spiraglio di speranza. Boris, il Muro. Boris che non grida mai. Boris che, seduto sul divano, scrolla il capo, sconfitto. Boris, l’uomo dei topi che aveva sposato una poetessa nel 1979. Boris, perché mi hai lasciata?
Dovevo andarmene di casa perché stare lí mi faceva male. Le stanze, i mobili, i rumori dalla strada, la luce che entrava nel mio studio, gli spazzolini nel piccolo contenitore, l’armadio della camera da letto, con il pomello mancante – tutto era diventato come ossa doloranti, come un’articolazione, una costola o una vertebra di una complessa anatomia di ricordi condivisi. Mi sembrava che ogni elemento familiare, carico dei significati che si erano accumulati nel tempo, mi schiacciasse con il suo peso, e scoprii che non riuscivo a reggerlo. Cosí lasciai Brooklyn e decisi di passare l’estate nel paesino in mezzo al nulla dov’ero cresciuta, in quella che un tempo era la prateria del Minnesota. La dottoressa S. non era contraria. Avremmo fatto una seduta telefonica una volta la settimana, tranne in agosto, quando lei sarebbe andata in ferie. L’università era stata «comprensiva» riguardo al mio esaurimento, e sarei tornata a insegnare a settembre. Quel periodo sarebbe stato lo Sbadiglio tra l’Inverno Pazzo e l’Autunno Sano, un vuoto privo di eventi da riempire di poesie. Avrei passato il tempo con mia madre e sarei andata a portare fiori sulla tomba di mio padre. Mia sorella e Daisy sarebbero venute a trovarci, e io avrei insegnato poesia alle ragazzine dell’Arts Guild, l’associazione culturale locale. Il «Bonden News» titolava: Laboratorio guidato da una premiata poetessa nostra conterranea. Il Doris P. Zimmer Award era arrivato dal nulla, all’improvviso, un premio misconosciuto cui possono concorrere unicamente donne il cui lavoro rientra nella categoria «sperimentale». Avevo accettato quella dubbia onorificenza, e l’assegno che l’accompagnava, con gratitudine e qualche riserva inespressa, prima di scoprire che qualsiasi premio è meglio di niente, e che il termine «premiata» conferisce un’aurea utile, anche se puramente decorativa, al poeta che vive in un mondo che non sa niente di poesia. Come disse John Ashbery, «essere un poeta famoso non è la stessa cosa di essere famoso». E io non sono un poeta famoso.
Affittai una casetta sul limitare del paese, vicino all’appartamento di mia madre in un edificio riservato ad anziani e molto anziani. Mia madre viveva nell’ala per le persone autosufficienti. Nonostante l’artrite e altri disturbi, tra cui pericolosi picchi di pressione alta, era notevolmente arzilla e lucida per i suoi ottantasette anni. Il complesso includeva altre due zone – il «reparto assistito», per chi aveva bisogno di aiuto, e il «centro cure», il capolinea, dove mio padre era morto sei anni prima. Una volta mi era venuto l’impulso di tornare a vedere quel posto ma, arrivata sulla soglia, avevo fatto dietrofront ed ero fuggita dal fantasma paterno.
– Non ho detto a nessuno del tuo ricovero in ospedale, – mi disse mia madre in tono ansioso, con i penetranti occhi verdi puntati su di me. – Nessuno deve saperlo.
Dimenticherò la goccia di Angoscia
Che ora mi brucia – che ora mi brucia!
Emily Dickinson n. 193 mi viene in aiuto. Indirizzo: Amherst.
Per tutta l’estate, versi e frasi mi turbinarono in testa. «Se si presenta un pensiero senza pensatore, – ha detto Wilfred Bion, – potrebbe essere un “pensiero randagio”, o un pensiero con nome e indirizzo del proprietario, oppure un “pensiero selvaggio”. Il problema, se emerge un pensiero del genere, è cosa farne».
Su entrambi i lati della casa che avevo affittato c’erano edifici residenziali di nuova costruzione, ma la vista dalla finestra sul retro era sgombra. Avevo un giardinetto con un’altalena oltre il quale c’era un campo di mais, e oltre ancora un campo di erba medica. In lontananza si vedevano un boschetto, il profilo di un granaio, un silos e, sopra, il vasto cielo inquieto. Il panorama mi piaceva, invece l’interno della casa mi inquietava, non perché fosse brutto, ma perché era ingombro della vita dei proprietari, una coppia di giovani docenti con due figli che, grazie a una qualche borsa di ricerca, si era rifugiata a Ginevra per l’estate. Quando deposi la mia borsa e qualche scatolone di libri a terra e mi guardai intorno, mi chiesi come avrei potuto adattarmi a quel posto, con le fotografie di famiglia, i cuscini colorati provenienti da qualche remoto paese asiatico, file di libri su diplomazia, tribunali e governi, contenitori pieni di giocattoli e, dappertutto, l’odore dei gatti – che fortunatamente non c’erano. Pensai con tristezza che di rado avevo avuto un posto per me e per le mie cose, che ero sempre stata una scribacchina da intervalli rubati. Nei primi tempi avevo lavorato sul tavolo della cucina, e correvo da Daisy quando si svegliava dal sonnellino pomeridiano. L’insegnamento e le poesie dei miei studenti – una lirica senza slancio, agghindata con fronzoli e svolazzi «letterari» – mi avevano rubato una quantità infinita di ore. Ma in fin dei conti non avevo lottato per guadagnarmi uno spazio, o perlomeno non avevo lottato nel modo giusto. Certe persone si prendono lo spazio di cui hanno bisogno, sgomitando per scacciare gli intrusi. Boris ci riusciva senza alzare un dito, bastava che rimanesse «silenzioso come un topo». Di fatto era un topo rumoroso, di quelli che grattano nei muri e fanno un gran baccano, ma comunque non faceva nessuna differenza. Era la magia dell’autorità, dei soldi, del pene.
Con grande cautela, infilai in uno scatolone tutte le foto incorniciate, annotando su un piccolo pezzo di nastro adesivo da dove ciascuna era stata presa, poi ripiegai parecchi tappeti e li riposi in uno sgabuzzino, insieme a una ventina di cuscini superflui e ad alcuni giocattoli, infine mi misi a pulire metodicamente la casa, estraendo batuffoli di polvere che avevano inglobato graffette, fiammiferi usati, granelli di sabbia per gatti, M&Ms spiaccicati e altri resti non identificati. Poi passai a disinfettare i tre lavandini, i due gabinetti, la doccia e la vasca, a sfregare il pavimento della cucina, a spolverare tutto e a lavare le plafoniere, ricoperte di uno spesso strato di sporcizia. Il repulisti durò due giorni e mi lasciò dolorante e con le mani piene di tagli, ma dopo quell’attività frenetica le stanze erano piú nitide. I contorni sfocati degli oggetti nel mio campo visivo avevano acquisito una precisione e una chiarezza che mi rallegrarono, perlomeno momentaneamente. Tolsi dagli scatoloni i miei libri, mi sistemai in quello che sembrava lo studio del marito (indizio: armamentario da pipa), mi sedetti e scrissi:
Perdita.
Un’assenza nota.
Se non la conoscessi
non sarebbe nulla,
e nulla è, ovviamente,
un nulla di altro tipo,
doloroso come una vescica,
un tumulto,
nel cuore, nei polmoni,
un vuoto con il tuo nome.
Mia madre e le sue amiche erano vedove. Per lo piú avevano perso i mariti da tempo, ma erano sopravvissute e in quegli anni non avevano dimenticato i defunti sposi, sebbene non si fossero nemmeno aggrappate al loro ricordo, a quanto pareva. Anzi, il tempo le aveva rese formidabili. Io fra me e me le avevo soprannominate i Cinque Cigni, l’élite di Rolling Meadows East, donne che si erano guadagnate quel titolo non semplicemente per l’età, o per la mancanza di problemi fisici (in un modo o nell’altro si lamentavano tutte di qualche acciacco), ma perché avevano una solidità psicologica e un’indipendenza che conferiva loro un’aura di invidiabile libertà. George (Georgiana), la piú vecchia, ammetteva che erano state fortunate. – Abbiamo ancora tutte le rotelle, per ora, – diceva ridacchiando. – Ovvio, non si sai mai... diciamo sempre che può succedere di tutto, in qualsiasi momento –. Aveva sollevato la mano destra dal bastone e schioccato le dita, ma senza abbastanza forza, quindi non aveva prodotto alcun suono, e sembrava se ne fosse accorta, perché il suo viso si era raggrinzito in un sorriso asimmetrico.
Non dissi a George che io invece avevo perso e ritrovato le rotelle, che perderle mi aveva spaventato a morte o che, mentre chiacchieravo con lei nel lungo corridoio, mi era venuto in mente un verso di un altro George, Georg Trakl: In kühlen Zimmern ohne Sinn. In stanze fredde senza senso. In fredde stanze prive di sensi.
– Sai quanti anni ho? – proseguí.
– Centodue.
Possedeva un intero secolo.
– Mia, tu quanti anni hai?
– Cinquantacinque.
– Sei ancora una bambina.
Ancora una bambina.
Poi c’era Regina, ottantotto anni. Era cresciuta a Bonden, ma era fuggita dalla provincia e aveva sposato un diplomatico. Aveva vissuto in vari paesi, e parlava in modo strano – forse pronunciava in modo troppo articolato le parole –, una probabile conseguenza dei frequenti soggiorni all’estero e, sospettavo, anche del desiderio di darsi un tono, ma quella piccola insicurezza era invecchiata con lei, finché non era stato piú possibile separarla dalle sue labbra, dalla bocca o dai denti. Regina emanava una melodrammatica commistione di fascino e vulnerabilità. Dopo la morte del marito, si era sposata due volte – entrambi gli uomini avevano tirato le cuoia – dopodiché aveva avuto liaison con vari uomini, tra cui un affascinante inglese di dieci anni piú giovane di lei. Regina si affidava a mia madre come confidente e frequentava con lei gli eventi culturali locali – concerti, mostre, una pièce ogni tanto. C’era Peg, ottantaquattro anni, nata e cresciuta a Lee, un paese ancora piú piccolo di Bonden. Aveva conosciuto il marito alle superiori, sfornato sei figli, e acquisito schiere di nipoti, di cui ricordava dettagli infinitesimali, segno che era incredibilmente in forma a livello neuronale. E infine Abigail, novantaquattro anni. Un tempo era alta ma la sua schiena aveva ceduto all’osteoporosi e si era tremendamente ingobbita; in piú era quasi sorda, ma l’avevo ammirata dalla prima volta che l’avevo vista. Indossava pantaloni ben stirati e maglioncini fatti da lei, con applicazioni o ricami con mele, cavalli o bambini danzanti. Suo marito se n’era andato da tempo – alcuni sostenevano che fosse morto, altri che avessero divorziato. In ogni caso, il soldato semplice Gardener era sparito durante o subito dopo la Seconda guerra mondiale, e la sua vedova o divorziata aveva preso il diploma e insegnato arte alle elementari. – Sarò anche tutta storta e sorda, ma non sono stupida, – aveva sottolineato la prima volta che ci eravamo viste. – Vieni a trovarmi quando vuoi, mi piace avere compagnia. È il tre-due-zero-quattro. Ripeti con me, tre-due-zero-quattro.
Erano tutt’e cinque lettrici forti e si incontravano con altre donne per un gruppo di lettura una volta al mese. Da varie fonti mi sembrava di aver capito che quella riunione avesse una sfumatura di competitività. Da quando mia madre viveva a Rolling Meadows, nel teatro della sua vita quotidiana una sfilza di persone era uscita di scena per entrare nel «centro cure» e non far piú ritorno. Mia madre mi disse con ...

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  1. Copertina
  2. Dello stesso autore
  3. L'estate senza uomini
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