Un uomo si sveglia con il cuore che picchia e la gola arsa, si siede di scatto sul letto e non ricorda chi è, come si chiama, perché si trova in quella stanza scura, con una radio accesa. Non sa neppure che ore sono, se fuori dalle serrande abbassate è notte o giorno o non è piú niente.
Solo un momento prima stava in un caffè sulle rive del lago di Tiberiade, e una voce annunciava che le acque si erano prosciugate e tutto inaridiva. Aveva il sole in faccia, beveva da un grande bicchiere colorato ma la sete non passava. In mezzo alla conca asciutta del lago, un vecchio avanzava a fatica verso di lui, ogni tanto s’appoggiava alle barche posate sulla terra screpolata e riprendeva il cammino, inciampava su qualche rottame sporgente, cadeva, si sollevava, ricadeva. Borbottava qualcosa, il vecchio, ma era troppo lontano, non si sentiva nulla. Allora lui si era alzato dalla sedia del caffè: cercava di proteggersi dal sole con il palmo della mano teso sulla fronte, ma i raggi passavano tra le dita e bruciavano gli occhi. Che stai dicendo vecchio, con chi ce l’hai, ce l’hai con me? Il vecchio muoveva le braccia sopra la testa, come se stesse affogando nella polvere, e biascicava parole. Adesso lo vedeva meglio: aveva i capelli lunghi e sudici, una cicatrice sulla fronte, pochi denti gialli e un crocefisso di legno al collo. Forza, ce la puoi fare, coraggio vecchio, vieni, non ti devi fermare. E il vecchio ripartiva verso la riva, di nuovo incespicava, cadeva sulle ginocchia e di nuovo ripartiva mormorando le sue parole. Che mi vuoi dire, parla piú forte, non riesco a sentirti. Il lago era una piastra infuocata, nel fango secco scintillavano macchine abbandonate, lavatrici, reti di letto, monete. Una barca di pescatori stava reclinata su un fianco, aveva un nome di donna che lui non riusciva a leggere. Eppure l’ho scritto io, pensava, l’ho scritto con la vernice rossa, era il nome di una donna che amavo, che strano, non lo ricordo piú. Il vecchio ora era vicino: era lontano, ma era vicino, e le sue parole finalmente erano chiare. Ogni giorno finisce qualcosa, diceva, anche oggi qualcuno se ne andrà e non si può fermarlo. E allora lui, col sudore che gli colava dalle tempie alla bocca, gridava al vecchio: ma tu non puoi fare in modo che ciò che muore non muoia, non puoi compiere un miracolo? Il vecchio ora aveva tra le mani bucate un fremito bianco, forse una colomba, sembrava sul punto di lasciarla volare libera nel cielo. E invece d’improvviso quel fremito si trasformava in un fazzoletto sporco di sangue. Il vecchio lo agitava piano. Addio, diceva. Addio.
Seduto sul letto l’uomo sente che a poco a poco il cuore riprende a battere piú calmo. La radio accesa continua a parlare di deserti e siccità: «Tra pochi anni saremo dieci miliardi, e poi venti, e ogni persona avrà meno di un bicchiere d’acqua al giorno…» Tra pochi anni, tra pochi mesi, la prossima settimana, domani, pensa l’uomo, e gli sembrano tempi lontanissimi, irraggiungibili, città straniere che non arriverà a conoscere. Guarda i vestiti seminati sul pavimento: una camicia chiara, due sandali di cuoio, un paio di pantaloni color sabbia, vede la scrivania piantata al centro della stanza, mazzi di fogli protocollo, un registro rosso.
Sí, io mi chiamo Claudio, sono professore in un istituto tecnico e ho una rubrica d’arte contemporanea su un quotidiano, sono ancora vivo e questa è casa mia. La scuola è finita da poco, ci sono stati gli scrutini, piatti di supplí e patatine e un brindisi con la Coca-Cola. Conservo a casa i compiti in classe e il registro perché non è il caso che qualcuno in segreteria li controlli e scopra che non ho mai segnato un voto o un’assenza. Brucerò tutto in qualche prato, poi spegnerò le braci a calci, come sempre. Ho trentasette anni, ho imparato a non aspettarmi mai niente da nessuno, ho due lavori e due donne, quando sto con una penso all’altra, quando una è triste l’altra è allegra e tutto sempre resta in equilibrio. Nella mia vita ogni cosa è in equilibrio, come le tazzine di ceramica sul naso di quel cinese al circo. Teneva le braccia aperte, si muoveva a piccoli passi, aveva draghi e fiamme sul vestito di raso e sorrideva senza pensieri. Sorrideva anche quando una tazzina è caduta e si è spaccata in mille pezzi. Per qualcuno questo è l’ultimo giorno e non lo sa, pensa Claudio asciugandosi il sudore delle spalle con il lenzuolo. Io non farei niente di diverso, vivrei l’ultimo giorno come sempre: lievemente, per non far soffrire nessuno, per non soffrire.
Quando il telefono suona la mattina troppo presto o la sera troppo tardi, Claudio pensa a una brutta notizia, e allora rimane con la mano sulla cornetta, aspetta sei o sette squilli, anche dieci, sperando che il destino si stanchi, che vada a infierire su qualcun altro. Finché le disgrazie non vengono annunciate non esistono, pensa, e cosí tiene duro, rimanda, con gli squilli che gli salgono dalla mano su per il braccio, che aspettano di tramutarsi in parole definitive, e lui spinge forte la cornetta verso il basso, come se affogasse un gatto nero in una vasca. Ma quello miagola, graffia, e alla fine Claudio risponde.
– Pronto?
– Sono io.
– Ciao Teresa.
– Stavi dormendo, alle cinque di pomeriggio?
– No, figurati, riguardavo alcuni appunti.
– Stai scrivendo tanto? Va avanti il tuo libro su Cézanne?
– Certo.
Ha già scelto l’immagine per la copertina, una natura morta bellissima, ha diviso la materia in un indice preciso, ha preso due volte un anticipo da ottime case editrici. Il primo e il quarto capitolo sono pronti da anni, il resto non verrà mai, Claudio lo sa perfettamente.
– Ascolta: mio marito ha telefonato per dirmi che torna stasera con l’ultimo volo. Non possiamo incontrarci.
– Non fa niente.
– Cosí mi dici, che non fa niente?
– E cosa devo dire?
– Mi piacerebbe sentire che ti dispiace almeno un poco.
– È ovvio che mi dispiace, ma non voglio fare il lagnoso.
– Per te è sempre tutto ovvio, le cose possono prendere la piega che vogliono e a te va sempre bene, non protesti mai, non pensi mai che qualcosa si può cambiare, volendo.
– Facciamo precipitare l’aereo, lo dirottiamo su Cuba?
– Quanto sei scemo. Chissà perché ti cerco, dovrei lasciarti perdere, e invece mi basta pensare a quel tuo sorrisetto da studente e mi viene voglia di vederti.
– Dài, ci troviamo presto nel nostro alberghetto.
– Tu non difendi niente, Claudio.
– Non è vero, sono cinque anni che ci frequentiamo.
– Ci frequentiamo, che schifo di parola. Va bene, a presto.
– Ciao tesoro.
Dopo la doccia, Claudio si veste lentamente, scegliendo dall’armadio abiti puliti molto simili a quelli sporchi.
Gli sembra di avere le stesse camicie e gli stessi pantaloni da quando ha diciassette anni. Ogni tanto nota che la moda cambia, le stoffe si allargano, si stringono, prendono colori allegri o tetri, e tutti per un poco sono felici d’indossare la novità, si sentono originali e obbedienti, anche. Claudio invidia chi ha fiducia nel tempo, gli sembrano anime che frusciano serene insieme alla sabbia della clessidra, ogni stagione amano ciò che c’è e dimenticano ciò che non c’è piú. Io mi tengo aggrappato alla rupe dell’adolescenza, quel dolore s’è rannicchiato, s’è fatto dolce, pensa. Il fondamento assoluto della mia repubblica con un solo abitante e tanti passanti è: non chiedere mai nulla. Mai nulla a nessuno. Ho cominciato non chiedendo nulla a mio padre, perché ogni soldo mi esponeva allo scirocco della riconoscenza. E non ho chiesto nulla agli amici: ricevere un favore mi fa vergognare, mi fa sentire fragile, bisognoso, umano. Gli uomini hanno sempre la mano tesa, tremante, gli occhi dei cani, e anche quando pretendono battendo i pugni, rivelano la loro natura di mendicanti che per un po’ di felicità sono disposti a supplicare e a offendere, persino a infilarsi una camicia ridicola vista in un negozio del centro o addosso a qualcuno che sembra soddisfatto. Io ho capito subito che non saremo mai felici.
Camminavo insieme a un compagno verso casa sua, avremo avuto dieci o undici anni, lui mi mostrava con orgoglio l’orologio da sub che i genitori gli avevano regalato per la promozione, mi parlava anche della bicicletta che aveva corteggiato tutto l’anno e che avrebbe ritirato il giorno dopo, una Bianchi cinque marce, manubrio da corsa. Era un bravo ragazzino, con lui passavo volentieri i pomeriggi estivi, sapeva recitare la formazione dell’Inter in un rutto. Prometteva che m’avrebbe fatto fare un bel giro sulla sua bici, e anche un’immersione con il suo orologio, tutte le volte che l’avessi desiderato. Alle due del pomeriggio la strada era vuota, c’era solo un mucchietto marrone e bianco in mezzo alla carreggiata, proprio davanti alla villetta del mio amico. Lui camminava sempre piú piano, sempre piú rigido, in silenzio, con gli occhi puntati su quello straccio immobile. Era il suo cane, sembrava addormentato. Il mio amico l’ha preso tra le braccia e l’ha portato dentro al giardino. L’ha sepolto sotto un albero senza raccontare nulla ai genitori. Poi con un mattone ha fracassato l’orologio, e la bici nuova non l’ha voluta piú.
Claudio si accende una sigaretta, poi batte sulla tastiera del telefono un numero, si ferma prima dell’ultima cifra, esita, tira una lunga boccata, espelle il fumo in piccoli cerchi e li guarda dissolversi nell’aria come oracoli. Batte il numero che manca, aspetta.
Fredda una voce di donna invita a lasciare un messaggio nella segreteria.
– Ero io, Matilde, – dice Claudio. – Niente, – chiude, e spegne la cicca, ed esce di casa.
Ora Claudio gira in macchina per la città, senza programmi e senza una meta. Le strade di Roma sono morbide, rotonde, come se il primo caldo estivo sciogliesse ogni spigolo e tutto scivolasse su una leggera discesa. La gente guida con il gomito fuori dal finestrino per sentire l’aria che corre e sembra che nessuno abbia voglia di fermarsi in qualche posto. È bello che non ci sia niente da fare, pensa Claudio, che non si debba pesare in nessun punto del mondo. Pensa alle bolle in un bicchiere d’acqua. Con due dita gira il volante a destra, segue una strada larga, svolta in una piú stretta, vede un parcheggio libero a piazza Indipendenza, un vuoto facile da occupare per qualche minuto.
Il palazzo del giornale a cui collabora con le sue sessanta righe settimanali sta dritto davanti a lui, e Claudio sale. A ogni piano ci sono persone che vagano tenendo dei fogli in mano e si salutano con un cenno quasi invisibile del capo. La redazione della cronaca romana è in cima, dalle grandi finestre si vede la città che inizia ad accendere qualche luce e a ritirarsi nell’ombra.
Il caporedattore è un pezzo di ferro limato dall’ansia, ogni volta che Claudio lo vede lo trova piú sottile e acuminato. È il chiodo che deve reggere tutto. Mentre gli altri giornalisti arrivano sbadigliando verso mezzogiorno e subito escono per il caffè, lui è già in trincea dalle otto di mattina, studia le notizie d’agenzia, ritaglia articoli di riviste straniere, si nutre masticando di continuo pezzi di carta strappati ai bordi dei quotidiani. In mezzo al rombo dell’aspirapolvere, le donne delle pulizie gli gridano: alzi i piedi, dottore, ché dobbiamo lavorare, sotto la sua scrivania è una fogna. Telefona sempre a Claudio tre giorni prima della consegna del pezzo per sapere di che si tratta: lui gli butta lí una cosa qualsiasi e lo sente battere le mani dalla gioia, scalciare in una danza da scrivania. Il giorno dopo invariabilmente il caporedattore richiama perché non è piú tanto convinto, quell’argomento gli sembra sbilanci la pagina, e dall’apprensione della voce Claudio intuisce che, stampando le sue innocue sessanta righe nella colonnina di destra, quell’uomo teme di vedere il mondo uscire dal suo asse e rotolare come una bilia sotto il nulla dell’armadio. Ormai Claudio ha capito il meccanismo, addirittura lo approva, cosí prima gli getta un osso di gomma, glielo lascia annusare e rifiutare, quindi gli appoggia sulla scrivania lo stinco con le filacce di carne, e il mondo seguita a girare.
Un altro equivoco grava sui loro rapporti. Il caporedattore – Rubicone è il suo cognome – coltiva l’illusione che l’arte contemporanea sia una faccenda decisiva per i destini dell’umanità e che Claudio ne sia il massimo decifratore. Davanti a ogni pezzo di plastica contorta, a ogni pupazzetto di peluche inchiodato su una croce, a qualunque porcheria rinchiusa in un video, Rubicone sbarra gli occhi e attende la spiegazione: quindi legge l’articolo di Claudio con la tensione con cui nel buio, alzando la fiammella dell’accendino, un disperato cerca di leggere la targhetta dove stanno scritte le istruzioni per far ripartire l’ascensore. Legge, rilegge, si passa le mani sulla fronte sudata, ripete tra sé le parole per afferrarle meglio, si morde le labbra e infine sorride: certo, è cosí, è chiaro, e la luce si riaccende, l’ascensore riparte, la vita è salva. Claudio, laurea a pieni voti e doppia specializzazione in discariche contemporanee, si guarda bene dal dirgli: Rubicone, stia sereno, lei lavora già tanto, non sciupi i suoi rari pomeriggi liberi girando tutte le gallerie d’arte contemporanea della città. Si trovi un amico e vada a giocare a tennis, quindici zero, pari quindici, vedrà che liberazione. No di certo. Claudio, come la sibilla d’un dio dispettoso, gli sgocciola poche parole. L’arte è uno specchio sepolto. Siamo solo cornici, povere o dorate, avvolgiamo un vuoto. Di solito lo sente cigolare tra le ipotesi, chinare il capo di fronte all’assoluto. Quasi sempre Rubicone tace, a volte risponde: giusto, purché l’articolo non mi sbilanci troppo la pagina. Rubicone è un infelice, pensa Claudio, un entusiasta, un uomo migliore di me.
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