Marzo-giugno 1968
Tornato a Udine, Stefano trascorse intere giornate da solo. Non si muoveva, mangiava a letto. La camera, che trovò pulita e in ordine coi mobili che odoravano di disinfettante, diventò in breve tempo una porcilaia. In lunghi cortei, le formiche rubavano le briciole di pane avanzate dai pasti. I piatti si affastellavano sul linoleum, un odore acre di sudore impregnava l’aria. Il fumo di sigaretta. La cenere che in onde scure e dense si posava sulle lenzuola. L’immobilità . Un’indifferenza che andava oltre la noia.
Sua madre era disperata. Ogni tanto bussava alla porta e chiedeva: – Come va? – Portava il cibo e i pacchetti di Nazionali, che subito finivano. A costo di discussioni violente, cercava di riordinare. Stefano riparava nel bagno. Si sedeva sulla tazza. Provava a toccarsi il membro. Non reagiva, era inerte. Sullo scaffale alto della libreria teneva alcuni numeri di «Le Ore» e di «Men». Molta pelle a buon mercato. Le acconciature alte e sfarzose. Guardava le foto per eccitarsi, ma rimaneva disgustato. Quelle forme sguaiate, contadine. Quei corpi cosà in fondo materni.
Le poche volte che erano andati a caccia insieme, sulle colline di Cividale, suo padre Mario non perdeva occasione per arringare contro il potere malefico delle donne. Le donne sono un mare dentro cui ci disperderemo, diceva. Non possiamo far altro che scomparire come il liquame nello scolo. L’uomo è la montagna immobile, eterna. La donna, la palude. Il sangue, il mestruo, il latte. L’uomo dice di comandare, ma non comanda nulla. È la donna ad avere l’ultima parola. La donna inghiotte. Forse soffre piú di noi. E se lo merita. Ma alla fine sarà lei a sopravvivere.
Il discorso veniva sovente interrotto dagli spari, dal fiato corto e dalle urla dei compagni di caccia: «Mario, cosa bisbigli? Cojon!» Era il loro modo di scherzare, di sentirsi gruppo. Una serie inesauribile di Cojon! rivolti al padre, detti certo in amicizia, ma che rimanevano insulti. Se Mario gli consegnava il fucile perché si impratichisse, Stefano lo puntava su Edi e Carletto, i due con la lingua piú lunga. Voleva sparargli. «Alza quella canna! – gli ordinava il padre, – e stai attento alle donne!»
Gli amici passavano a trovarlo, ma Stefano non voleva vederli. Moreno Petrarca era appena tornato dal servizio militare e aveva un mucchio di aneddoti da raccontare. Augusto era venuto in treno da Trieste. Lo sentiva tirare su col naso, a causa del freddo dei vagoni di seconda classe. Sua madre insisteva: – È venuto da Trieste, capisci? – Stefano niente: le cicche. Il portacenere. La noia. Perché uscire? Non aveva voglia di dare giustificazioni al suo fallimento. Non poteva certo confessare di essere fuggito da Roma dopo aver ammazzato per sbaglio uno studente. Una storia alternativa, comunque, l’aveva costruita: Roma costava troppo. Aveva fatto il passo piú lungo della gamba. E poi la mamma stava poco bene. Non lo ammetteva con nessuno, ma aveva problemi di salute. Stefano, da bravo bambino, voleva starle vicino. Una storiella come tante, perfino credibile. Miseria piccoloborghese. Cavoli bolliti e lesinare con il riscaldamento. Ma non aveva voglia di raccontare nemmeno queste stupidaggini. Ogni tanto gli prendeva l’impulso d’ammazzarsi. Sarebbe stato come colorare le uova a Pasqua, cosÃ, tanto per rompere con la routine di tutti i giorni.
Oltre agli amici di vecchia data, anche i camerati della sezione dell’Msi di via Vittorio passavano a reclamare notizie. Sempre con molta cortesia. Bussavano. Borbottavano. Sparivano. Perfino l’onorevole Cantoni si era informato. Glielo aveva detto sua madre, da dietro la porta, dopo che l’aveva incontrato alla macelleria di Rocco. Sono diventato un pezzo grosso, pensava Stefano. Cantoni si interessava solo ai nuovi modelli di Mercedes e l’unico camerata che secondo lui meritava rispetto era Pino Romualdi, perché si spettegolava fosse figlio illegittimo del Duce. Il Duce aveva cinque o seimila figli illegittimi, nemmeno lo strangolatore di Boston lo eguagliava.
Il suo padre putativo, Rocco, invece non si era ancora fatto vedere. Passò dopo dieci giorni esatti dal ritorno a Udine. Dieci giorni erano una risposta: significava che aveva stabilito un termine. Avrebbe desiderato salutare il figlioccio, ma si era imposto una dilazione, per dimostrare a se stesso che ci sarebbe riuscito. Alle solite proteste della madre: – Non vuole vedere nessuno! Sta là dentro sotterrato come un morto! – Rocco spinse la porta contro la specchiera in corridoio. Un tonfo attutito dai feltrini che nella casa da lillipuziani coprivano ogni spigolo. Stefano non riuscà a chiudersi a chiave, e poi non aveva voglia di chiudersi. Rocco era l’unica persona che desiderava incontrare. – Allora, piccolo eroe, hai deciso di seppellirti in camera? – Il corpo trasudava esaltazione. Da sotto il giubbotto spuntava il grembiule bianco, sporco di sangue, che indossava in macelleria. Era in pausa. – Fuori c’è il sole. Vieni con me.
Stefano abitava in una casetta singola, con un giardino ammuffito sempre in ombra, a sud di Udine, in via Aquileia. Rocco era arrivato in motorino, voleva portarlo in centro.
– Hai la bicicletta?
– Vado a prenderla.
– Attaccati al mio braccio.
Correvano cosÃ, appiccicati l’uno all’altro, nel sole del mattino che filtrava tra i platani. Le macchine, molto piú veloci, li superavano a ondate. Per lasciare spazio, Stefano mollava la presa e si metteva in coda. Recuperava la distanza con un paio di scatti veloci che gli facevano male alle gambe. Col dolore tornava la sensazione di essere vivo. Arrivarono in viale Ungheria senza proferire parola.
– Mi vuoi dire che ti succede? Mi hanno raccontato che a Roma ti sei fatto onore. E adesso…
– Mia madre sta poco bene, e i soldi non bastano.
– Non mentire con me. Lo sai che i soldi non sono un problema. E tua madre sta benissimo. L’unico problema che ha sei tu. Piange ogni giorno e mi tocca consolarla –. Rocco accelerava al limite. Le ruote del Garelli sbandavano. – Non raccontarmi balle e dimmi cosa succede.
– Non te lo posso dire. Ho giurato.
Rocco rallentò. Si voltò a guardare Stefano.
– A chi hai giurato?
– Franco Revel, Lotta Nazionale.
– Era quello che speravo. Roma è una scusa. L’università non è importante. Il nostro obiettivo è la rivoluzione.
– Ho litigato col Crocetta.
– Nulla di grave. Si è imborghesito da anni. Uno smargiasso fiero di essere diventato quadro del partito.
– Mi ha sputato addosso.
– Sputa ancora bene?
– Discretamente.
– Domani ho un regalo per te. A che ora sei libero?
– Sono sempre libero.
– Vengo alle otto di mattina.
Imboccarono via Mercato Vecchio. Rocco frenò bruscamente davanti all’osteria di Artemio. Tutto era come sempre. La macchinetta che espelleva le biglie dei ciclisti. Il lungo bancone con le bottiglie di Biancosarti, Fernet e Strega. Artemio fece un cenno da cospiratore a Rocco. In fondo, nella stanzetta riservata, si trovavano raccolti gli amici di Stefano. Una sorpresa, come quelle che si fanno ai compleanni. Uno pensa di essere stato snobbato e medita vendetta, e invece rincasa la sera, ignaro, e gli amici sono tutti là a festeggiarlo. C’era Marco, seduto sotto il fagiano impagliato, che per salutare disse: – A Roma senza di te non ci si divertiva, e cosà sono tornato a Udine –. C’era Moreno, in maglietta di cotone verde nonostante il freddo, coi muscoli e lo stemma della Folgore bene in evidenza; e Augusto da Trieste, alto un metro e novanta, i denti gialli per la nicotina. C’era il diciassettenne Gianni Gaballo, emigrato da un paio d’anni dalla Puglia. Lo aveva introdotto Stefano in sezione. Il migliore acquisto dell’anno. E c’erano altri camerati: tra cui Loris Chierici, preside di un istituto tecnico commerciale, e Malagodi, avvocato e primo eletto al consiglio comunale con 320 preferenze. Bevevano vino da una fiasca offerta da Artemio. Sul tavolo una grande torta. Tolsero il velo che la copriva e mostrarono l’opera del pasticciere: il disegno in panna montata ritraeva il Duce con l’elmetto, nella classica prospettiva dal basso. Mento volitivo e attitudine guerriera. Partà un applauso. Qualcuno intonò Faccetta nera. Che cazzata! Ma il cuore batteva forte e Stefano era commosso.
Chierici disse: – Ben tornato, camerata! – e gli diede una pacca sulla spalla. Sono di nuovo in famiglia, pensò Stefano, accettando il bicchiere di vino che gli veniva porto, un misto di Cabernet Sangiovese e chissà cos’altro. Macchiava le labbra come il rossetto di una troia. Disse di desiderare qualcosa di piú forte. Gli portarono una grappa. Era morbida, ma bruciava in fondo alla gola e nel petto. Ne bevve un bicchiere e subito un altro. I camerati erano contenti di vederlo bere. Tagliarono la torta e mangiarono ognuno un pezzo di Mussolini.
Rocco citò una frase della messa: – Questo è il mio corpo offerto in sacrificio per voi –. Si era tolto il giubbotto, adesso faceva molto caldo. Il grembiule insanguinato si mostrava in tutta la sua bellezza.
– Per vendicare piazzale Loreto! – disse Chierici, alzando in alto un calice.
– Alla vendetta! – urlò Moreno.
Nessuno voleva disturbare Stefano chiedendo spiegazioni, e Mussolini era un ottimo argomento per vivere l’ora.
Gaballo citò a memoria l’inizio del testamento del Duce. – Nessuno che sia un vero Italiano, qualunque sia la sua fede politica, disperi nell’avvenire. Le risorse del nostro popolo sono immense. Se saprà trovare un punto di saldatura, recupererà la sua forza prima ancora di qualche vincitore.
– Hai studiato, ragazzino, – gli disse Chierici. – Però noi stiamo cominciando a disperare nell’avvenire. Neanche il capo supremo avrebbe immaginato la Democrazia Cristiana al potere.
Rocco bevve un gran sorso di vino. – La parola del Duce non si discute. Se dice di non disperare, noi non dispereremo. Combatteremo e crederemo –. Concluse l’atto di fede con un bel rutto. La compagnia si mise a ridere. Intanto erano arrivati salame e formaggio.
Moreno era mezzo ubriaco. Si avvicinò a Stefano e lo abbracciò. – Fratello mio, mio camerata –. All’abbraccio si unà Augusto: – Guarda che qui c’è ancora da combattere. Dicono che Tito verrà in Italia in visita ufficiale.
– Non credere a tutto quello che raccontano, – intervenne Malagodi.
Ma Augusto lo rintuzzò: – Il governo italiano pensa agli affari, non ai morti ammazzati nelle foibe. Adesso che non è piú allineato coi russi, Tito piace.
– Porco assassino! – urlò Marco, e una certa rabbia si diffuse piacevolmente fra i camerati.
– E tu che combini? – gli chiese Stefano.
– Tutto come prima, – rispose Marco, lapidario. Dunque era di nuovo al lavoro nel negozio di materiale elettrico, e baciava due volte la settimana, il mercoledà e il sabato, il naso della sua ragazza.
Stefano era tornato in famiglia. Il rito dell’amicizia poteva dirsi concluso. Si salutarono nel primo pomeriggio, qualcuno doveva andare al lavoro. Qualcun altro no.
L’indomani, di buon’ora, Rocco venne a prenderlo a casa. Non ci fu bisogno di bussare. Suonò due volte il clacson davanti al cancelletto. Stefano aspettava vestito. Rocco sedeva sulla sua Jaguar grigio metallizzato. I sedili di pelle rossa. Sul cruscotto, il legno amaranto delle foreste tropicali. Era una delle poche automobili col cambio automatico di serie, particolare che in città generava invidia. Bastava premere l’acceleratore e le marce si scioglievano come burro sul fuoco. Chissà quante donne si erano sdraiate sulla pelle rossa.
Rocco aveva mantenuto in sé una scintilla dell’antica razza, dell’aristocrazia guerriera che comandava il mondo prima della decadenza. Era saggio, posato ed efficace. Nonostante la saggezza, era coraggioso. E non aveva paura di mostrare il proprio denaro, anche se nessuno sapeva precisamente come l’avesse guadagnato. Certo, la macelleria e l’ingrosso di carni gli rendevano, ma non abbastanza per i lussi che si concedeva. Comunque fosse, non era come gli altri friulani, che piangevano miseria pur avendo la casa stipata di soldi fino al tetto. E lavoravano da coglioni per aggiungere al cumulo la miliardesima banconota.
Stefano era felice di non essere friulano. Si sentiva completamente italiano. Senza declinazioni regionali. Campanilistiche. Era nato a Campobasso, figlio di genitori siciliani. Catanesi per la precisione. La madre era bionda perché discendeva dai guerrieri normanni. Suo padre, che invece aveva tratti tipicamente meridionali, fu per un breve periodo finanziere. Il primo incarico dopo il concorso lo ebbe in Molise. Per legge, non poteva sposarsi né avere figli prima di due anni dall’entrata nel corpo. La leggenda familiare vuole che i genitori si fossero trasferiti, con pochissimi soldi in tasca, in una città che non conoscevano, e fossero vissuti in due case separate.
Stefano nacque nel periodo di interregno, come figlio illegittimo. Venne riconosciuto dopo molti tentennamenti. Il padre si era abituato alla situazione. Non sentiva alcuna urgenza di regolarizzarla. Gli uomini sono cosÃ, diceva la madre. Ragionano per schemi. O sei madre o sei puttana. Se cominciano a considerarti una puttana fanno fatica ad accettarti come madre.
A volte il padre si dimenticava di darle i soldi. Lunghe giornate d’inverno trascorrevano senza biscotti, senza tè, senza omogeneizzati. Per mancanza di spazio, e per mancanza della culla, madre e figlio dormivano insieme, nello stesso letto. Lei doveva stringerlo forte, perché non cadesse. Quando beveva troppo per la disperazione, lo assicurava legandogli una corda alla caviglia. Di Campobasso, Stefano ricordava poco o niente. I suoi ricordi combaciavano con quelli della madre. Aveva imparato la sua storia personale dalle parole di un’altra persona. L’unico suo ricordo vero era il movimento delle gambe di quattro ragazzini che giocavano a calcio in una piazza di pietre lucide. Colonne di marmo tonde. Il movimento delle gambe gli saliva alla gola, come un’emozione intensa, quasi erotica.
Poi il padre venne espulso dal corpo dei finanzieri e trovò lavoro grazie a un amico, a Udine, come custode di una pelletteria. Prima del nuov...