Pastorale americana
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Pastorale americana

Philip Roth, Vincenzo Mantovani

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  1. 472 pagine
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Pastorale americana

Philip Roth, Vincenzo Mantovani

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Seymour Levov è un ricco americano di successo: al liceo lo chiamano «lo Svedese». Ciò che pare attenderlo negli anni Cinquanta è una vita di successi professionali e gioie familiari. Finché le contraddizioni del conflitto in Vietnam non coinvolgono anche lui e l'adorata figlia Merry, decisa a portare la guerra in casa, letteralmente. Un libro sull'amore e sull'odio per l'America, sul desiderio di appartenere a un sogno di pace, prosperità e ordine, sul rifiuto dell'ipocrisia e della falsità celate in quello stesso sogno.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2012
ISBN
9788858407059
Parte seconda

La caduta

Capitolo quarto

Una ragazza minuta e pallidissima che sembrava avere la metà degli anni di Merry ma sosteneva di averne sei di piú, una certa Rita Cohen, andò dallo Svedese quattro mesi dopo la scomparsa di sua figlia. Era vestita come il successore di Martin Luther King, Ralph Abernathy, con una tuta da paladino della libertà e un paio di orribili scarponi, e una foresta di capelli crespi le incorniciava enfaticamente il viso dolce da bambina. Lo Svedese avrebbe dovuto capire subito chi era (per quattro mesi aveva aspettato proprio una persona come lei), ma la ragazza era cosí piccola e cosí giovane, e aveva un’aria cosí innocua, che lo Svedese stentò persino a credere che fosse una studentessa della Wharton School of Business and Finance dell’università di Pennsylvania (dove stava preparando una tesi sull’industria del cuoio a Newark, New Jersey), e tanto meno il provocatore che era stato il mentore di Merry nella rivoluzione mondiale.
Il giorno in cui si presentò alla fabbrica, lo Svedese ignorava che Rita Cohen avesse dimostrato un ottimo gioco di gambe – dentro e fuori la porta del seminterrato, sotto il piano di caricamento – nell’eludere la sorveglianza degli agenti dell’Fbi incaricati di sorvegliare da Central Avenue l’arrivo e la partenza di tutte le persone che entravano nel suo ufficio.
Tre o quattro volte l’anno qualcuno telefonava o scriveva chiedendo il permesso di visitare lo stabilimento. Un tempo Lou Levov, per indaffarato che fosse, trovava sempre qualche minuto per le scolaresche di Newark, le squadriglie di boy scout o i notabili in visita accompagnati da un funzionario del municipio o della camera di commercio. Benché non ricavasse lo stesso piacere di suo padre dal fatto di essere un’autorità in materia di guanti, e quantunque, come autorità, non si considerasse all’altezza di suo padre in alcunché di pertinente alla pelletteria (o di pertinente a ogni altra cosa), di tanto in tanto anche lo Svedese aiutava uno studente rispondendo alle sue domande per telefono o, se lo studente gli sembrava particolarmente serio, offrendogli una breve visita guidata.
Naturalmente, se avesse saputo in anticipo che questa studentessa non era una studentessa ma l’emissaria della figlia latitante, non avrebbe mai disposto che l’incontro avesse luogo in fabbrica. Perché Rita non gli aveva detto di chi era l’emissaria, né parlato di Merry, fino al termine della visita? Senza dubbio per potersi fare un’idea dello Svedese; o forse aveva taciuto cosí a lungo per trarre maggiore diletto dal gioco che stava facendo. Forse Rita aveva il gusto del potere. Forse era solo una politicante come tanti altri, e il gusto del potere traspariva da molte delle cose che faceva.
Poiché alcune pareti di vetro separavano la scrivania dello Svedese dal resto dello stabilimento, lui e le donne alle macchine potevano vedersi benissimo. Lo Svedese aveva usato questo accorgimento per avere un po’ di sollievo dal frastuono dei macchinari senza impedirsi l’accesso al reparto. Suo padre si era rifiutato di stare chiuso in un ufficio, con o senza pareti di vetro, e aveva messo la scrivania proprio in mezzo alle duecento macchine da cucire del reparto produzione: l’ape regina al centro dell’arnia sovraffollata, con lo sciame che ronzava a piú non posso mentre lui parlava per telefono con clienti e fornitori e simultaneamente controllava le sue scartoffie. Solo da lí, affermava Lou, poteva distinguere, tra i diversi rumori, il suono di una Singer in cattivo stato e piombare col cacciavite sulla macchina prima ancora che la ragazza avesse avvertito la caporeparto del problema. Cosí Vicky, l’anziana capetta nera della Newark Maid, testimoniò (con la sua forma di sorniona ammirazione) al banchetto con cui venne festeggiato il suo pensionamento. Quando tutto procedeva senza intoppi, Lou era impaziente e nervoso (in due parole, disse Vicky, l’insopportabile boss), ma quando un tagliatore veniva a lamentarsi del caporeparto, quando il caporeparto veniva a lamentarsi di un tagliatore, quando le pelli arrivavano con mesi di ritardo o danneggiate o erano di cattiva qualità, quando Lou scopriva che un fornitore di fodere lo imbrogliava sul prodotto o uno spedizioniere lo derubava, quando decideva che il tagliatore di guanti con la Corvette rossa e gli occhiali da sole era anche un allibratore clandestino che accettava puntate sui cavalli dagli altri dipendenti, allora era nel suo elemento e deciso, nella sua maniera inimitabile, a rimettere le cose in carreggiata: – quando erano tornate in carreggiata, – disse il penultimo oratore, cioè il figlio orgoglioso, dedicando a suo padre il piú lungo e il piú elogiativo degli scherzosi encomi di quella sera – poteva riprendere a impazzire, e a far impazzire tutti gli altri, dalle preoccupazioni. Ma poi, dato che si aspettava sempre il peggio, non restava mai deluso troppo a lungo. E non veniva mai colto di sorpresa. Tutte cose che dimostrano che, come tutto il resto alla Newark Maid, preoccuparsi funziona. Signore e signori, l’uomo che per tutta la vita è stato il mio maestro (e non solo nell’arte di preoccuparsi), l’uomo che ha trasformato la mia vita in un continuo processo educativo, un processo educativo a volte difficile ma sempre proficuo, che quando ero un bambino di cinque anni mi svelò il segreto per fare un prodotto perfetto («Dacci dentro», mi disse), signore e signori, un uomo che ci ha dato dentro e ha avuto successo dal giorno in cui, a quattordici anni, cominciò a conciare pelli, il re dei guanti, colui che conosce l’industria guantaria come nessun altro uomo al mondo, Mister Newark Maid, mio padre, Lou Levov! – Ehi, – attaccò allora Mister Newark Maid, – non fatevi mettere nel sacco, stasera. Io mi diverto a lavorare, amo l’industria del guanto, amo le sfide, e non mi garba l’idea di andare in pensione, perché credo che sia il primo passo verso la tomba. Ma questo non mi preoccupa per una ragione importante: perché sono l’uomo piú fortunato della terra. E fortunato per via di una parola. La parolina piú grande che ci sia: famiglia. Se a sbattermi fuori fosse un concorrente, non sarei qui a sorridere: mi conoscete, sarei qui a gridare. Ma quello che oggi mi sbatte fuori è mio figlio, il mio figlio adorato. Ho avuto la fortuna di avere la famiglia piú meravigliosa che un uomo potesse desiderare: una moglie fantastica, due ragazzi fantastici, dei fantastici nipoti…
Lo Svedese chiese a Vicky di portargli una pelle in ufficio e la diede da palpare alla ragazza della Wharton.
– Questa è stata piclata ma non conciata, – le disse. – È una pelle di agnellone. Non ha la lana, come la pecora domestica, ma il pelo.
– Il pelo a cosa serve? – gli chiese lei. – Viene utilizzato?
– Buona domanda. Il pelo viene usato per fare la moquette. Ad Amsterdam, nello stato di New York. A Bigelow. A Mohawk. Ma il vero valore sono le pelli. Il pelo è un sottoprodotto, e come togliere il pelo dalla pelle e via dicendo è tutta un’altra storia. Prima che arrivassero i prodotti sintetici il pelo serviva, per lo piú, a confezionare tappeti da pochi soldi. C’era una società che prelevava tutto il pelo dalle concerie per venderlo ai fabbricanti di tappeti, ma non è questo che lei vuole approfondire, vero? – disse, notando che la ragazza, prima che fossero entrati in argomento, aveva già riempito di appunti il primo foglio di un blocco nuovo. – Se la cosa le interessa, – soggiunse lo Svedese, un po’ commosso, e anche attratto, dalla sua diligenza, – perché, immagino, queste attività sono tutte collegate, potrei farla parlare con quelle persone. Credo che la famiglia lavori ancora da queste parti. È una nicchia che pochi conoscono. È interessante. È tutto interessante. Lei ha scelto un argomento interessante, signorina.
– Credo di sí, – disse lei, con un largo sorriso.
– Comunque, questa pelle, – gliel’aveva tolta di mano e la stava carezzando con un lato del pollice come si potrebbe carezzare il gatto per fargli fare le fusa, – questa pelle, nella terminologia industriale, si chiama «cabretta». Piccolo montone. Montoncino. Sono tutti animali che vivono solo a latitudini di venti o trenta gradi a nord e a sud dell’equatore, dove pascolano in uno stato semibrado: le famiglie di un villaggio africano ne possiedono quattro o cinque ciascuna, le radunano in un gregge e le sguinzagliano nel bush. Quella che lei teneva in mano non è piú greggia. Noi le compriamo quando sono nello stadio detto del piclaggio. Il pelo è stato tolto e la pelle ha subito un trattamento preliminare che ne permette la conservazione fino al suo arrivo qui. Una volta si facevano arrivare gregge: grandi balle legate con una corda e cosí via, pelli fatte seccare all’aria aperta. Ho la nota di carico di una nave (è qui da qualche parte, posso trovargliela se vuole vederla), una copia della nota di carico di una nave del 1790 in cui si parla di pelli sbarcate a Boston, simili a quelle che noi abbiamo fatto arrivare qui fino all’anno scorso. E dagli stessi porti africani.
Avrebbe potuto essere suo padre, a parlare. Per quanto ne sapeva, ogni parola di ogni frase che pronunciava l’aveva udita dalla bocca di suo padre prima di finire le elementari, e poi altre due o tremila volte durante gli anni in cui avevano mandato avanti la baracca insieme. Nelle famiglie dei guantai questi discorsi erano una tradizione che risaliva a secoli prima: il padre passava al figlio i segreti del mestiere, con tutta la storia e il folklore. Era vero per le concerie, dove conciare è come cucinare e le ricette si tramandano di padre in figlio, ed era vero per le fabbriche di guanti e per la sala taglio. I vecchi tagliatori italiani addestravano i loro figli e nessun altro, e quei figli prendevano lezioni dai loro padri come lui aveva preso lezioni dal suo. A partire da quando era un bambino di cinque anni e seguitando fino alla maturità, il padre era un’autorità incontrastata: riconoscere la sua autorità era tutt’uno col ricavare da lui la competenza che aveva fatto della Newark Maid la migliore fabbrica di guanti da donna del paese. Lo Svedese arrivò prontamente ad amare con tutto il cuore le stesse cose che amava suo padre e, in fabbrica, a pensarla piú o meno come lui. E a parlare come lui: se non a proposito di ogni argomento, almeno ogni volta che la conversazione finiva sul tema della pelletteria, di Newark o dei guanti.
Non si era mai sentito cosí loquace da quando Merry era sparita. Fino a quel mattino non aveva desiderato altro che piangere o nascondersi; ma poiché c’erano Dawn da assistere, un’azienda da mandare avanti e i suoi genitori da sostenere, poiché tutti gli altri erano paralizzati dall’incredulità e completamente demoralizzati, nessuna delle due alternative aveva ancora eroso la facciata protettiva che lo Svedese offriva alla famiglia e presentava al mondo. Ma ora le parole lo stavano confortando, incoraggiando, le parole di suo padre liberate dalla presenza di questa ragazzina che annotava scrupolosamente. Era piccola, pensò, quasi come i compagni della terza elementare di Merry che un giorno, alla fine degli anni Cinquanta, avevano fatto sessanta chilometri in autobus dalla scuola di campagna perché il papà di Merry potesse mostrar loro in che modo faceva i guanti, mostrare soprattutto il posto preferito di Merry, il tavolo di controllo, dove, alla fine del processo produttivo, gli uomini davano la forma a ogni guanto e lo stiravano infilandolo con cura sulle mani d’ottone cromato scaldate dal vapore. Le mani erano pericolosamente calde e brillavano e sporgevano dal tavolo, tutte in fila, esili come mani passate dentro un mangano e amputate, bellissime mani amputate che galleggiavano nello spazio come le anime dei defunti. Da bambina, Merry era stata stregata dal loro enigma, e le chiamava «mani frittella». Merry da bambina che diceva alle compagne: – Bisogna guadagnare cinque dollari la dozzina –. Che era quello che dicevano sempre i guantai, e ciò che la bambina aveva udito da quando era venuta al mondo: cinque dollari la dozzina, questo era quanto si cercava di guadagnare, malgrado tutto. Merry che sussurrava alla maestra: – La gente che imbroglia sul cottimo è un problema. Mio papà ha dovuto licenziare un uomo. Rubava il tempo, – e lo Svedese che le diceva: – Amore, lascia fare a papà, okay? – Merry da bambina che era affascinata dall’idea di rubare il tempo. Merry che correva da un piano all’altro, con un’aria cosí fiera e padronale, ostentando la propria familiarità con tutti i dipendenti, ancora ignara della perdita di dignità inerente allo spietato sfruttamento del lavoratore da parte del padrone avido di profitto che possiede ingiustamente i mezzi di produzione.
Non c’era da meravigliarsi se si sentiva cosí ciarliero, cosí desideroso di parlare. Per un attimo, tutto era tornato come allora: non c’era stata nessuna esplosione, nulla era andato in rovina. Come famiglia, i Levov seguivano ancora la rotta del razzo degli immigrati, la continua traiettoria verticale dal bisnonno sfruttato come uno schiavo al nonno animato dall’ambizione, al padre indipendente, abile e sicuro di sé, fino al membro della famiglia che puntava piú in alto di tutti, la figlia della quarta generazione per il quale l’America doveva essere il vero paradiso. Non c’era da meravigliarsi se non riusciva a stare zitto. Era impossibile tacere. Lo Svedese cedeva all’umano, universale desiderio di vivere ancora una volta nel passato; di immergersi ancora per qualche istante innocuo e illusorio nella grande e sana lotta del passato, quando la famiglia resisteva grazie a una verità che non si poneva assolutamente lo scopo di favorire la distruzione, ma piuttosto di eluderla e di sopravvivervi, sventando le sue misteriose scorrerie col creare l’utopia di un’esistenza razionale.
La sentí chiedere: – Quante in una spedizione?
– Quante pelli? Duemila dozzine.
– Una balla quante pelli sono?
Scopriva con piacere che le interessava ogni minimo dettaglio. Sí, parlando con questa diligente studentessa della Wharton, lo Svedese poté improvvisamente provare piacere in qualcosa, mentre non era riuscito ad amare, a sopportare, e persino a capire nessuna delle cose con le quali aveva fatto i conti in quattro mesi senza vita. Quando invece si era sentito morire ogni giorno di piú. – Oh, centoventi pelli, – rispose.
Lei continuò a prendere appunti mentre domandava: – Arrivano direttamente al reparto spedizioni?
– Arrivano alla conceria. La conceria è un appaltatore. Noi compriamo il materiale e lo diamo a loro, insieme al procedimento da usare, e loro ce lo convertono in pelle. Mio nonno e mio padre hanno lavorato in conceria proprio qui a Newark. Anch’io, per sei mesi, quando sono entrato nella ditta. È mai stata in una conceria?
– Non ancora.
– Beh, se vuole scrivere qualcosa sulla pelle deve andare in una conceria. Posso organizzarle una visita, se vuole. Sono posti primitivi. La tecnologia ha migliorato le cose, ma quello che vedrà non è tanto diverso da quello che avrebbe visto centinaia di anni fa. Un lavoro orribile. Dicono che sia l’industria piú antica di cui si siano trovate le vestigia dappertutto. Da qualche parte sono saltati fuori i resti di una conceria che risalgono a seimila anni fa: in Turchia, credo. I primi indumenti erano semplici pelli che venivano conciate affumicandole. Le avevo detto che è un argomento interessante, una volta approfondito. Il vero esperto in materia è mio padre. È con lui che dovrebbe parlare, ma adesso vive in Florida. Chieda a mio padre qualcosa sui guanti e parlerà per due giorni di seguito. A proposito, questo è tipico. I guantai amano il loro mestiere e tutto ciò che lo riguarda. Mi dica, ha mai visto produrre qualcosa, signorina Cohen?
– Non posso dire di sí.
– Mai visto fare qualcosa?
– Ho visto mia madre fare una torta quando ero piccola.
Rise. Lo aveva fatto ridere. Una bambina vivace, avida d’imparare. Sua figlia era di trenta centimetri buoni piú alta di Rita Cohen, tanto bionda quanto lei era bruna, ma per il resto Rita Cohen, bruttina com’era, aveva cominciato a ricordargli Merry prima che la sua ripugnanza si manifestasse e che lei diventasse la loro nemica. L’alone di intelligenza positiva che si spandeva intorno lei quando tornava a casa da scuola, traboccante di tutto ciò che aveva imparato durante le lezioni. Come ricordava ogni cosa. Tutto annotato ordinatamente nel quaderno e imparato a memoria dalla sera alla mattina.
– Le dirò cosa faremo. La faremo assistere a tutto il processo. Venga. Le faremo un paio di guanti, e lei assisterà alla loro confezione, dall’inizio alla fine. Che misura porta?
– Non so. Piccola.
Si era alzato dalla scrivania, aveva fatto il giro e si era impossessato della sua mano. – Piccolissima. Direi una sesta –. Aveva già tolto dal primo cassetto della scrivania una rotella metrica con un anello a D a un’estremità, poi gliela passò intorno alla mano, infilò l’altro capo nell’anello e le svolse la rotella intorno al palmo. – Vediamo se ho indovinato. Chiuda la mano –. Lei strinse il pugno, gonfiando un po’ la mano, e lui lesse la misura in pollici francesi. – È una sesta. Tra le taglie femminili, è la piú piccola. Piú piccole di cosí, ci sono solo le misure da bambini. Venga. Le farò vedere come si fa.
Quando cominciarono a salire, fianco a fianco, i gradini di legno della vecchia scala, gli sembrò di aver rimesso piede nella bocca del passato. Si sentí dire (mentre, simultaneamente, sentiva suo padre dire): – Le pelli si scelgono sempre nell’ala nord della fabbrica, dove la luce del sole non è diretta. Cosí si può davvero valutarne la qualità. Dove entra la luce del sole, non si vede. La sala taglio e l’assortimento, sempre dal lato nord. La selezione in alto. Il secondo piano per il taglio. E al primo piano, dov’è venuta lei, la produzione. Pianterreno, rifinitura e spedizione. Procederemo dall’alto in basso.
Cosí fecero. E lui era felice. Non riusciva a trattenersi. Non era giusto. Non era vero. Si doveva fare qualcosa per impedirlo. Ma lei continuava a prendere appunti e lui non riusciva a fermarsi: una ragazza che conosceva il valore del duro lavoro e della severa applicazione, e che s’interessava delle cose giuste, della preparazione della pelle e della confezione dei guanti, e fermarsi era impossibile.
Quando si soffre come soffriva lo Svedese, chiedergli di non farsi illudere dal sollievo di un momento, per dubbia che ne fosse la motivazione, sarebbe stato chiedere troppo.
Nella sala taglio c’erano venticinque uomini al lavoro, cinque o sei per tavolo, e lo Svedese la condusse dal piú anziano, che le presentò come «il maestro», un ometto pelato con un apparecchio acustico che continuò a lavorare su un pezzo di pelle rettan...

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