Nella mia casa paterna, quand’ero ragazzina, a tavola, se io o i miei fratelli rovesciavamo il bicchiere sulla tovaglia, o lasciavamo cadere un coltello, la voce di mio padre tuonava: – Non fate malagrazie!
Se inzuppavamo il pane nella salsa, gridava: – Non leccate i piatti! Non fate sbrodeghezzi! non fate potacci!
Sbrodeghezzi e potacci erano, per mio padre, anche i quadri moderni, che non poteva soffrire.
Diceva: – Voialtri non sapete stare a tavola! Non siete gente da portare nei loghi!
E diceva: – Voialtri che fate tanti sbrodeghezzi, se foste a una table d’hôte in Inghilterra, vi manderebbero subito via.
Aveva, dell’Inghilterra, la piú alta stima. Trovava che era, nel mondo, il piú grande esempio di civiltà.
Soleva commentare, a pranzo, le persone che aveva visto nella giornata. Era molto severo nei suoi giudizi, e dava dello stupido a tutti. Uno stupido era, per lui, «un sempio». – M’è sembrato un bel sempio, – diceva, commentando qualche sua nuova conoscenza. Oltre ai «sempi» c’erano i «negri». «Un negro» era, per mio padre, chi aveva modi goffi, impacciati e timidi, chi si vestiva in modo inappropriato, chi non sapeva andare in montagna, chi non sapeva le lingue straniere.
Ogni atto o gesto nostro che stimava inappropriato, veniva definito da lui «una negrigura». – Non siate dei negri! Non fate delle negrigure! – ci gridava continuamente. La gamma delle negrigure era grande. Chiamava «una negrigura» portare, nelle gite in montagna, scarpette da città; attaccar discorso, in treno o per strada, con un compagno di viaggio o con un passante; conversare dalla finestra con i vicini di casa; levarsi le scarpe in salotto, e scaldarsi i piedi alla bocca del calorifero; lamentarsi, nelle gite in montagna, per sete, stanchezza o sbucciature ai piedi; portare, nelle gite, pietanze cotte e unte, e tovaglioli per pulirsi le dita.
Nelle gite in montagna era consentito portare soltanto una determinata sorta di cibi, e cioè: fontina; marmellata; pere; uova sode; ed era consentito bere solo del tè, che preparava lui stesso, sul fornello a spirito. Chinava sul fornello la sua lunga testa accigliata, dai rossi capelli a spazzola; e riparava la fiamma dal vento con le falde della sua giacca, una giacca di lana color ruggine, spelata e sbruciacchiata alle tasche, sempre la stessa nelle villeggiature in montagna.
Non era consentito, nelle gite, né cognac, né zucchero a quadretti: essendo questa, lui diceva, «roba da negri»; e non era consentito fermarsi a far merenda negli châlet, essendo una negrigura. Una negrigura era anche ripararsi la testa dal sole con un fazzoletto o con un cappelluccio di paglia, o difendersi dalla pioggia con cappucci impermeabili, o annodarsi al collo sciarpette: protezioni care a mia madre, che lei cercava, al mattino quando si partiva in gita, di insinuare nel sacco da montagna, per noi e per sé; e che mio padre, al trovarsele tra le mani, buttava via incollerito.
Nelle gite, noi con le nostre scarpe chiodate, grosse, dure e pesanti come il piombo, calzettoni di lana e passamontagna, occhiali da ghiacciaio sulla fronte, col sole che batteva a picco sulla nostra testa in sudore, guardavamo con invidia «i negri» che andavan su leggeri in scarpette da tennis, o sedevano a mangiar la panna ai tavolini degli châlet.
Mia madre, il far gite in montagna lo chiamava «il divertimento che dà il diavolo ai suoi figli», e lei tentava sempre di restare a casa, soprattutto quando si trattava di mangiar fuori: perché amava, dopo mangiato, leggere il giornale e dormire al chiuso sul divano.
Passavamo sempre l’estate in montagna. Prendevamo una casa in affitto, per tre mesi, da luglio a settembre. Di solito, eran case lontane dall’abitato; e mio padre e i miei fratelli andavano ogni giorno, col sacco da montagna sulle spalle, a far la spesa in paese. Non c’era sorta di divertimenti o distrazioni. Passavamo la sera in casa, attorno alla tavola, noi fratelli e mia madre. Quanto a mio padre, se ne stava a leggere nella parte opposta della casa; e, di tanto in tanto, s’affacciava alla stanza dove eravamo raccolti a chiacchierare e a giocare. S’affacciava sospettoso, accigliato; e si lamentava con mia madre della nostra serva Natalina, che gli aveva messo in disordine certi libri; «la tua cara Natalina», diceva. «Una demente», diceva, incurante del fatto che la Natalina, in cucina, potesse udirlo. D’altronde alla frase «quella demente della Natalina» la Natalina c’era abituata, e non se ne offendeva affatto.
A volte la sera, in montagna, mio padre si preparava per gite o ascensioni. Inginocchiato a terra, ungeva le scarpe sue e dei miei fratelli con del grasso di balena; pensava che lui solo sapeva ungere le scarpe con quel grasso. Poi si sentiva per tutta la casa un gran rumore di ferraglia: era lui che cercava i ramponi, i chiodi, le piccozze. – Dove avete cacciato la mia piccozza? – tuonava. – Lidia! Lidia! dove avete cacciato la mia piccozza?
Partiva per le ascensioni alle quattro del mattino, a volte solo, a volte con guide di cui era amico, a volte con i miei fratelli; e il giorno dopo le ascensioni era, per la stanchezza, intrattabile; col viso rosso e gonfio per il riverbero del sole sui ghiacciai, le labbra screpolate e sanguinanti, il naso spalmato di una pomata gialla che sembrava burro, le sopracciglia aggrottate sulla fronte solcata e tempestosa, mio padre stava a leggere il giornale, senza pronunciare verbo: e bastava un nonnulla a farlo esplodere in una collera spaventosa. Al ritorno dalle ascensioni con i miei fratelli, mio padre diceva che i miei fratelli erano «dei salami» e «dei negri», e che nessuno dei suoi figli aveva ereditato da lui la passione della montagna; escluso Gino, il maggiore di noi, che era un grande alpinista, e che insieme a un amico faceva punte difficilissime; di Gino e di quell’amico, mio padre parlava con una mescolanza di orgoglio e di invidia, e diceva che lui ormai non aveva piú tanto fiato, perché andava invecchiando.
Questo mio fratello Gino era, del resto, il suo prediletto, e lo soddisfaceva in ogni cosa; s’interessava di storia naturale, faceva collezioni d’insetti, e di cristalli e d’altri minerali, ed era molto studioso. Gino si iscrisse poi in ingegneria; e quando tornava a casa dopo un esame, e diceva che aveva preso un trenta, mio padre chiedeva: – Com’è che hai preso trenta? Com’è che non hai preso trenta e lode?
E se aveva preso trenta e lode, mio padre diceva: – Uh, ma era un esame facile.
In montagna, quando non andava a fare ascensioni, o gite che duravano fino alla sera, mio padre andava però, tutti i giorni, «a camminare»; partiva, al mattino presto, vestito nel modo identico di quando partiva per le ascensioni, ma senza corda, ramponi o piccozza; se ne andava spesso da solo, perché noi e mia madre eravamo, a suo dire, «dei poltroni», «dei salami», e «dei negri»; se ne andava con le mani dietro la schiena, col passo pesante delle sue scarpe chiodate, con la pipa fra i denti. Qualche volta, obbligava mia madre a seguirlo; – Lidia! Lidia! – tuonava al mattino, – andiamo a camminare! Sennò t’impigrisci a star sempre sui prati! – Mia madre allora, docile, lo seguiva; di qualche passo piú indietro, col suo bastoncello, il golf legato sui fianchi, e scrollando i ricciuti capelli grigi, che portava tagliati cortissimi, benché mio padre ce l’avesse molto con la moda dei capelli corti, tanto che le aveva fatto, il giorno che se li era tagliati, una sfuriata da far venir giú la casa. – Ti sei di nuovo tagliati i capelli! Che asina che sei! – le diceva mio padre, ogni volta che lei tornava a casa dal parrucchiere. «Asino» voleva dire, nel linguaggio di mio padre, non un ignorante, ma uno che faceva villanie o sgarbi; noi suoi figli eravamo «degli asini» quando parlavamo poco o rispondevamo male.
– Ti sarai fatta metter su dalla Frances! – diceva mio padre a mia madre, vedendo che s’era ancora tagliata i capelli; difatti questa Frances, amica di mia madre, era da mio padre molto amata e stimata, fra l’altro essendo la moglie d’un suo amico d’infanzia e compagno di studi; ma aveva agli occhi di mio padre il solo torto d’avere iniziato mia madre alla moda dei capelli corti; la Frances andava spesso a Parigi, avendo là dei parenti, ed era tornata da Parigi un inverno dicendo: – A Parigi si usano i capelli corti. A Parigi la moda è sportiva. – A Parigi la moda è sportiva, – avevano ripetuto mia sorella e mia madre tutto l’inverno, rifacendo un po’ il verso alla Frances, che parlava con l’erre; si erano accorciate tutti i vestiti, e mia madre s’era tagliata i capelli; mia sorella no, perché li aveva lunghi fino in fondo alla schiena, biondi e bellissimi; e perché aveva troppa paura di mio padre.
Di solito, in quelle villeggiature in montagna, ci veniva mia nonna, la madre di mio padre. Non abitava con noi, ma in un albergo in paese.
Andavamo a trovarla, ed era là seduta sul piazzaletto dell’albergo, sotto l’ombrellone; era piccola, con minuscoli piedi calzati di stivaletti neri a piccolissimi bottoncini; era fiera di quei piccoli piedi, che spuntavano sotto alla gonna, ed era fiera della sua testa di capelli candidi, crespi, pettinati in un alto casco rigonfio. Mio padre la portava, ogni giorno, «un po’ a camminare». Andavano sulle strade maestre, perché lei era vecchia, e non poteva praticare i sentieri, soprattutto con quegli stivaletti a piccoli tacchi; andavano, lui avanti, coi suoi passi lunghi, mani alla schiena e pipa in bocca, lei dietro, con la sua veste frusciante, con i passetti dei suoi tacchettini; lei non voleva mai andare sulla strada dov’era stata il giorno prima, voleva sempre strade nuove; – Questa è la strada di ieri, – si lamentava, e mio padre le diceva distratto, senza voltarsi: – No, è un’altra; – ma lei seguitava a ripetere: – È la strada di ieri. È la strada di ieri. – Ho una tosse che mi strozzo, – diceva dopo un poco a mio padre, che sempre tirava avanti e non si voltava; – Ho una tosse che mi strozzo, – ripeteva portandosi le mani alla gola: usava sempre ripetere le stesse cose due o tre volte. Diceva: – Quell’infame Fantecchi che m’ha fatto fare il vestito marron! volevo farlo blu! volevo farlo blu! – e batteva l’ombrello sul selciato, con rabbia. Mio padre le diceva di guardare il tramonto sulle montagne; ma lei seguitava a battere a terra, irosamente, la punta dell’ombrello, presa da un attacco di collera contro la Fantecchi, sua sarta. Lei del resto veniva in montagna soltanto per stare con noi, dato che abitava a Firenze durante l’anno, e noi a Torino, e cosí ci vedeva soltanto l’estate; ma non poteva soffrire la montagna, e il suo sogno sarebbe stato villeggiare a Fiuggi o a Salsomaggiore, luoghi dove aveva trascorso le estati della sua giovinezza.
Era stata in passato, mia nonna, molto ricca, e s’era impoverita con la guerra mondiale; perché siccome non credeva che vincesse l’Italia, e nutriva una cieca fiducia in Francesco Giuseppe, aveva voluto conservare certi titoli, che possedeva in Austria, e cosí aveva perso molti denari; mio padre, irredentista, aveva inutilmente cercato di convincerla a vendere quei titoli austriaci. Mia nonna usava dire «la mia disgrazia» alludendo a quella perdita di denaro; e se ne disperava, la mattina, passeggiando su e giú per la stanza e torcendosi le dita. Ma non era poi cosí povera. Aveva, a Firenze, una bella casa, con mobili indiani e cinesi e tappeti turchi; perché un suo nonno, il nonno Parente, era stato un collezionista di oggetti preziosi. Alle pareti c’erano i ritratti dei suoi vari antenati, il nonno Parente, e la Vandea, che era una zia che chiamavano cosí perché era reazionaria, e teneva un salotto di codini e di reazionari; e molte zie e cugine che si chiamavano tutte o Margherita o Regina: nomi in uso nelle famiglie ebree di una volta. Non c’era però fra i ritratti quello del padre di mia nonna, e di lui non si doveva parlare: perché, rimasto vedovo, ed essendosi litigato un giorno con le sue due figlie, già adulte, aveva dichiarato che, per dispetto a loro, si sarebbe sposato con la prima donna che incontrava per la strada, e cosí aveva fatto; o almeno, cosí si raccontava in famiglia che avesse fatto; se poi fosse stata proprio la prima donna che aveva incontrato, sul portone, uscendo di casa, non so. Comunque aveva avuto, con questa nuova moglie, ancora una figlia, che mia nonna non volle mai conoscere, e che chiamava, con disgusto, «la bimba del babbo». Questa «bimba del babbo», matura e distinta signora ormai sulla cinquantina, ci accadeva d’incontrarla a volte nelle villeggiature, e mio padre diceva allora a mia madre: – Hai visto? Hai visto? Era la bimba del babbo!
– Voi fate bordello di tutto. In questa casa si fa bordello di tutto, – diceva sempre mia nonna, intendendo dire che, per noi, non c’era niente di sacro; frase rimasta famosa in famiglia, e che usavamo ripetere ogni volta che ci veniva da ridere su morti o su funerali. Aveva, mia nonna, un profondo schifo degli animali, e dava in smanie quando ci vedeva giocare con un gatto, dicendo che avremmo preso, e contagiato a lei, malattie; «Quell’infame bestiaccia», diceva, pestando i piedi per terra, e battendo la punta dell’ombrello. Aveva schifo di tutto, e una gran paura delle malattie; era però sanissima, tanto che è morta a piú di ottant’anni senza aver mai avuto bisogno né di un medico, né di un dentista. Temeva sempre che qualcuno di noi, per dispetto, la battezzasse: perché uno dei miei fratelli una volta, scherzando, aveva fatto il gesto di battezzarla. Recitava ogni giorno le sue preghiere in ebraico, senza capirci niente, perché non sapeva l’ebraico. Provava, per quelli che non erano ebrei come lei, un ribrezzo, come per i gatti. Era esclusa da questo ribrezzo soltanto mia madre: l’unica persona non ebrea alla quale, in vita sua, si fosse affezionata. E anche mia madre le voleva bene; e diceva che era, nel suo egoismo, innocente e ingenua come un bambino lattante.
Mia nonna era da giovane, a suo dire, bellissima, la seconda bella ragazza di Pisa; la prima era una certa Virginia Del Vecchio, sua amica. Venne a Pisa un certo signor Segrè, e chiese di conoscere la piú bella ragazza di Pisa, per chiederla in matrimonio. Virginia non accettò di sposarlo. Gli presentarono allora mia nonna. Ma anche mia nonna lo rifiutò, dicendo che lei non prendeva «gli avanzi di Virginia».
Si sposò poi con mio nonno, il nonno Michele: uomo che doveva essere quanto mai dolce e mite. Rimase vedova in giovane età; e una volta le domandammo perché non aveva ripreso marito. Rispose, con una risata stridula e con una brutalità che mai ci saremmo aspettate in quella vecchia querula e lamentosa che era:
– Cuccú! per farmi mangiare tutto il mio!
Si lamentavano a volte, i miei fratelli e mia madre, perché s’annoiavano in quelle villeggiature in montagna, e in quelle case isolate, dove non avevano svaghi, né compagnia. Io, essendo la piú piccola, mi divertivo con poco: e la noia delle villeggiature non la sentivo ancora, in quegli anni.
– Voialtri, – diceva mio padre, – vi annoiate, perché non avete vita interiore.
Un anno eravamo particolarmente senza soldi, e sembrava che dovessimo restare in città l’estate. Fu poi fissata all’ultimo momento una casa, che costava poco, in una frazione d’un paese che si chiamava Saint-Jacques-d’Ajas; una casa senza luce elettrica, coi lumi a petrolio. Doveva essere molto piccola e scomoda, perché mia madre, tutta l’estate, non fece che dire: – Vacca d’una casa! malignazzo d’un Saint-Jacques-d’Ajas! – La nostra risorsa furono certi libri, otto o dieci volumi rilegati in pelle: fascicoli rilegati di non so che settimanale, con sciarade, rebus, e romanzi terrorizzanti. Li aveva prestati a mio fratello Alberto un suo amico, un certo Frinco. Ci nutrimmo dei libri di Frinco per tutta l’estate. Poi mia madre fece amicizia con una signora, che abitava nella casa accanto. Attaccarono discorso mentre non c’era mio padre. Lui diceva che era «da negri» discorrere coi vicini di casa. Ma siccome poi si scoperse che questa signora, la signora Ghiran, stava a Torino nella stessa casa della Frances, e la conosceva di vista, fu po...